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Senza il soggetto credente della Chiesa non si potrebbe parlare di «Sacra Scrittura». Senza la Chiesa, essa sarebbe semplicemente una raccolta storica di scritti, redatti nel corso di un intero millennio. È solo il popolo di Dio in cammino nella storia che ha fatto di questa raccolta letteraria, la Bibbia, come «un libro», ovvero la «Sacra Scrittura» nella sua unità di Antico e Nuovo Testamento. La Sacra Scrittura si presenta dunque innanzitutto come un unico libro, poiché è cresciuta interamente dal corpo dell’unico popolo di Dio e poiché il popolo di Dio è il redattore della Bibbia, dapprima Israele e poi la Chiesa, come ha giustamente sottolineato l’esperto del Nuovo Testamento Gerhard Lohfink: «La Sacra Scrittura non è un pacchetto di 73 libri, che sono stati successivamente legati insieme con lo spago, ma è cresciuta come un albero. Alla fine in questo albero sono stati innestati ancora rami del tutto nuovi: il Nuovo Testamento.
Ma anche questi rami si nutrono della linfa dell’unico albero e sono sostenuti dal suo tronco». Alla luce di questo stretto legame tra Sacra Scrittura e Chiesa deve essere considerata in maniera nuova anche la questione del canone biblico. Ernst Käsemann ha sostenuto la famosa tesi secondo la quale il canone neotestamentario non fonda l’unità della Chiesa, ma la molteplicità dei suoi libri e delle sue interpretazioni e, pertanto, anche la varietà delle confessioni. Questa affermazione pare giusta solo se si considera il canone neotestamentario a sé stante. Ma si tratta di una semplificazione riduttiva della questione, formulata nella prospettiva della Riforma e non in quella del canone stesso. Infatti, il canone non è caduto dal cielo né è pre-esistente o prioritario rispetto alla Chiesa, ma è nato all’interno della Chiesa: «Insieme alla constatazione che la formazione del canone doveva appositamente servire all’unità della dottrina della Chiesa contro la molteplicità e la contraddittorietà delle filosofie ellenistiche, tutto ciò mostra che la formazione del canone è una creazione consapevole della Chiesa nascente». In tal senso, il canone non fonda l’unità della Chiesa, né la molteplicità delle confessioni; piuttosto, l’unità della Chiesa ha fondato il canone come unità.
Difatti, dopo lunghi e intensi sforzi, la Chiesa che si stava formando riuscì a fissare nei vari libri l’autentica espressione e il criterio della propria fede. Senza la fede della Chiesa sviluppatasi nel tempo non ci sarebbe stato nessun canone. La Sacra Scrittura nel senso dell’insieme dei vari scritti è l’opera della Tradizione della Chiesa, nella quale la sede del vescovo di Roma ha svolto un ruolo costitutivo. Anche da un punto di vista storico, il riconoscimento di Roma come «criterio della vera fede apostolica» è più antico «del canone del Nuovo Testamento, della Scrittura». Per questo, l’ecumenista cattolico Heinz Schütte ha definito il principio protestante della sola scriptura come «il problema cruciale dell’ecumenismo», poiché, pur basandosi di fatto su una decisione della Chiesa primitiva, non vuole riconoscere tale decisione dal punto di vista teorico. Questo paradosso dimostra che il tema della Chiesa come creatrice, trasmettitrice ed esegeta del canone biblico non può essere eluso, come pensa di poter fare la teologia riformata e a volte anche l’esegesi cattolica.
Detto ciò in merito al rapporto tra Sacra Scrittura e Chiesa va precisato che, da una parte, la Scrittura è Sacra Scrittura non senza o contro la Chiesa ma soltanto al suo interno e che, dall’altra, la Chiesa per essere veramente Chiesa deve rimanere fedele alla Sacra Scrittura come costante criterio verso cui orientarsi e che non può ergersi al di sopra della Parola di Dio, ma deve porsi al suo servizio, come chiaramente sottolineato dalla Costituzione Dogmatica sulla rivelazione. Ecco che la relazione tra Sacra Scrittura e Chiesa rivela la natura più profonda della Chiesa: Essa «ha il suo carattere più specifico non in quello che a lei appartiene, ma in quello che ha ricevuto». La Sacra Scrittura è e rimane un libro vivo solo se il suo popolo lo accoglie e lo fa suo. Viceversa, questo popolo non può esistere senza la Sacra Scrittura, poiché è in essa che trova il fondamento della propria esistenza, la propria vocazione e la propria identità. Da ciò è facile comprendere che l’ambito vitale nel quale il popolo di Dio incontra in modo particolare la Parola di Dio nella Sacra Scrittura è l’azione liturgica della Chiesa. A sottolineare il fatto che la liturgia è il luogo privilegiato dove risuona la Parola di Dio che fonda la Chiesa, Papa Benedetto XVI inizia la seconda parte della sua esortazione apostolica Verbum Domini con una riflessione sulla Parola nella sacra liturgia: «Ogni azione liturgica è per natura sua intrisa di Sacra Scrittura».
La questione del rapporto tra Chiesa e Sacra Scrittura, che costituisce il filo conduttore dell’esortazione apostolica sulla Parola di Dio Verbum Domini, non è soltanto controversa all’interno della Chiesa cattolica, ma rappresenta il problema ecumenico di fondo. Oggetto di discussione è infatti il rapporto tra la Parola di Dio e i ministri incaricati di testimoniare questa Parola all’interno della comunità di fede. A tal proposito, nell’incontro ecumenico con i rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali in occasione del suo viaggio in Germania nel settembre del 2005, Papa Benedetto xvi sottolineava che la questione ecclesiologica nell’ecumenismo riguarda il «modo in cui è presente nel mondo la Parola di Dio», e più precisamente il «rapporto tra Parola, testimone e regula fidei». Egli faceva altresì notare che la questione ecclesiologica deve essere considerata come questione relativa alla Parola di Dio, alla sua sovranità e alla sua devozione in cui «il Signore l’affida anche ai testimoni e a loro affida la sua interpretazione, la quale deve sempre avere come criterio la regula fidei e il rispetto della Parola stessa». Il primo fattore, a cui si è già accennato, è la formazione del canone della Sacra Scrittura, che è giunto a una sua configurazione più precisa verso la fine del secondo secolo, ma il cui sviluppo si è protratto ancora nel secolo successivo. Il fatto che ciò che noi oggi chiamiamo «Nuovo Testamento» sia il risultato di una selezione operata tra i vari testi letterari conosciuti in quel tempo e che il canone greco della Bibbia ebraica come «Antico Testamento» sia stato associato al «Nuovo Testamento» per formare insieme la «Sacra Scrittura» mostra non solo che la definizione del canone biblico è opera della Chiesa primitiva, ma anche che la formazione del canone biblico e la formazione dell’ordinamento ecclesiale della Chiesa primitiva in fondo sono due facce dello stesso processo.
La lettura della Sacra Scrittura e la professione di fede, nella Chiesa primitiva, sono innanzitutto azioni liturgiche delle comunità riunite intorno al Signore risorto. La Chiesa primitiva ha dunque creato anche le forme fondamentali della liturgia cristiana, che devono essere considerate come base permanente e punto di riferimento vincolante per ogni rinnovamento liturgico. La prima descrizione della Liturgia dell’Eucaristia, ovvero quella di Giustino martire verso la metà del secondo secolo, contiene già gli elementi fondamentali che sono rimasti immutati in tutte le grandi famiglie di rito fino ai nostri giorni. Secondo la Chiesa primitiva, la Parola di Dio, annunciata nell’azione liturgica della Chiesa, trova la sua prima espressione nei testimoni della fede che ne concretizzano la sua presenza. Poiché Parola e testimone sono inseparabili, nel senso non solo che il testimone vive per la Parola di Dio e vive di essa, ma anche che la Parola vive attraverso il testimone, nella Chiesa primitiva si è sviluppato il concetto della successione apostolica nel ministero episcopale.
La lettera di Clemente di Roma ai corinzi è prova del fatto che «la formazione, la fondazione teologica e il rafforzamento istituzionale de
l ministero episcopale» debba essere considerato come «uno degli sviluppi più importanti dell’epoca post-apostolica». Si tratta di una lettera redatta nel 96 a Roma, che diventerà presto la comunità guida in occidente, e rivolta a Corinto, che era una delle prime comunità fondate da Paolo e che accoglierà con gioia tale missiva. Questa lettera, che nella Chiesa dei primi secoli aveva assunto «un rango quasi canonico» e che veniva letta regolarmente dalla comunità di Corinto nel servizio liturgico, documenta il fatto sorprendente che già poco tempo dopo la morte degli apostoli e molto tempo prima che si completasse la formazione del canone in tutta la Chiesa, in occidente e in oriente, esisteva un unico ordinamento dei ministeri ecclesiali: ogni comunità aveva un vescovo e, se necessario, a seconda della grandezza, un collegio di presbiteri e di diaconi. «Relegare la Parola al passato, significa negare la Bibbia come Bibbia – scriveva nel 1990 l’allora cardinale Ratzinger – difatti un’interpretazione esclusivamente storica, esclusivamente orientata a “ciò che è stato” porta come intrinseca conseguenza alla negazione del canone e pertanto alla negazione della Bibbia come Bibbia». Accogliere il canone come canone significa dunque leggere la Parola di Dio oltre la sua contingenza storica e riconoscere il popolo di Dio come il vero autore nei diversi autori. Così facendo, incontriamo la Parola di Dio non solo come una parola pronunciata nel passato, ma come la Parola che Dio, attraverso gli uomini di un tempo passato, dona agli uomini di tutti i tempi come Parola sempre attuale. Per questo, i padri della Chiesa considerano la Sacra Scrittura come un Eden spirituale, nel quale si può passeggiare con Dio e ammirare la bellezza e l’armonia del suo disegno salvifico.
Proprio a far questo invita la lectio divina, nella quale il cristiano, che nella Parola della Sacra Scrittura ritrova in maniera diretta e sempre attuale il conforto e l’appello di Dio, incontra nelle parole della Sacra Scrittura la Parola di Dio stessa e, così, fa teologia nel senso più elementare del termine. Infatti, al di là di tutti gli sforzi cognitivi, pur necessari, l’incontro con la Sacra Scrittura è sempre un evento spirituale e dunque un vero incontro con la «Parola del Dio vivente». La teologia è pertanto autentica teologia quando non trasmette soltanto conoscenze intellettuali, ma una fede intelligente, in quanto «la fede è intelligenza e l’intelligenza è fede». La teologia deve assumere con particolare serietà questa funzione di ponte tra ragione e fede nell’odierna situazione pastorale, in cui non solo il linguaggio di fede della Chiesa ma anche il mondo della Bibbia è divenuto ormai estraneo a molti battezzati. Il biblista cattolico Walter Kirchschläger ha osservato giustamente che «nonostante i numerosi sforzi compiuti, la comprensione generale della Bibbia da parte dei battezzati non si è sviluppata così ampiamente come si era sperato al tempo del Concilio». A questo si aggiunge il fatto che la divulgazione dei risultati dell’esegesi storico-critica crea in non pochi fedeli l’impressione che siano soltanto gli esperti a poter davvero capire la Sacra Scrittura.
È necessario soprattutto individuare nuovi approcci alla Parola di Dio, affinché questa venga percepita dai fedeli non solo come Parola del passato, ma come Parola del presente, con la quale Cristo parla agli uomini anche di oggi. Cristo è infatti la Parola viva di Dio e spiega se stesso usando le parole della Sacra Scrittura. Pertanto la questione di come leggere la Sacra Scrittura e la fede in Cristo sono indissociabili, come osservava san Girolamo. Per conoscere Cristo occorre frequentare la Sacra Scrittura. E, viceversa, senza l’incontro personale con Cristo, la Sacra Scrittura rimane profana e rauca. Essa inizia a parlarci soltanto quando viviamo in un rapporto di amicizia con Cristo nella comunione della Chiesa. Nell’ascolto della Parola di Dio risiede pertanto una grande forza che può contribuire alla ricomposizione dell’unità dei cristiani. Poiché il grande scisma della Chiesa d’occidente nel XVI secolo è iniziato con una lettura controversa della Parola di Dio, soprattutto circa il rapporto tra Sacra Scrittura e Tradizione della Chiesa, ed «è giunto in un certo senso fin dentro la Bibbia stessa», il suo superamento sarà realizzabile soprattutto sul cammino di una lettura comune della Sacra Scrittura. In fondo, l’uomo trova nella Sacra Scrittura ciò che vi cerca. Se non vi cerca nulla, non vi troverà nulla. Se vi cerca solo eventi storici, vi troverà solo ciò che è storico. Se vi cerca Dio, là lo troverà e potrà testimoniarlo anche agli altri.
[L’OSSERVATORE ROMANO – Edizione quotidiana – del 3 dicembre 2010]