"La cultura dello scarto" è una malattia sociale

Carlo Bellieni pubblica un libro in cui spiega cosa è e cosa implica quella “pratica” del rifiuto denunciata più volte da Papa Francesco

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

È appena arrivato in libreria il volume La cultura dello scarto, scritto da Carlo Valerio Bellieni, pubblicato dalle Edizione Paoline. Per conoscerne i contenuti ed approfondire le conoscenze di una “cultura” che sta diventando una malattia sociale, riportiamo di seguito l’introduzione al libro scritta dall’autore:

La genialità del richiamo del Papa a combattere la “cultura dello scarto” è la genialità del bravo medico, che colpisce al cuore la malattia. Troppo facile è invece limitarsi a colpire i sintomi come fanno in tanti anche animati da ottimi propositi ma tanto miopi.

Diventiamo noi stessi uno scarto, le cose più interessanti della vita diventano uno scarto: l’arte, i figli, e ovviamente tutte le persone e le occasioni che non sono conformi ai dettami della pubblicità diventano uno scarto. Senza che ce ne rendiamo conto le cose importanti (amici, cultura, senso religioso) diventano uno scarto, perché i nostri giudizi non sono più i nostri, ma dettati da interessi che ci passano sopra la testa.

Cari amici stressati e presi dal consumo e dallo shopping. Laggiù, lontano nel mare incontaminato sorge un’isola. E’ grande chilometri, una delle tante isole dell’oceano, anzi una di quelle grandi, solo che… l’abbiamo creata noi! E’ una megagalattica isola di rifiuti, un grumo di plastiche e idrocarburi che le correnti hanno portato a confluire, unirsi, inglobarsi l’un l’altro e crescere, crescere a dismisura. Immaginate una discarica grande più di due volte l’Italia, riempita con ogni tipo di pattumiera immaginabile e immaginatela mentre galleggia nel bel mezzo del Pacifico. Si chiama Great Pacific Garbage Patch, meglio nota come l’Isola dei Rifiuti, che veleggia tra la California e le isole Hawaii. Ma da dove arriva tutta questa immondizia? Sono le nostre città, le nostre navi, i nostri fiumi carichi di scarti che riversano tutto il liquame in mare; e dato che il mare è grande, anche il contenuto di una nave sembra sperduto e minuscolo spinto e inabissato dalle onde; ma non è così: i nostri sacchetti della spesa, il petrolio di un remoto oleodotto che perde liquido, si sommano, si sommano… e voilà l’isola della “monnezza”.

Ma i rifiuti generano isole anche sulla terra ferma. Simbolo di degrado, ma anche risorsa per migliaia di ‘catadores’ (raccoglitori di rifiuti) e’ stata chiusa nel giugno 2013 la discarica piu’ grande del mondo, il ‘Jardim Gramacho’, alla periferia di Rio de Janeiro. La decisione di interrompere definitivamente le attivita’ nella discarica ha subito un’accelerazione in vista della Conferenza internazionale dell’Onu sullo sviluppo sostenibile. Il Gramacho occupa un’area di 1,3 milioni di metri quadrati nel municipio di Duque de Caxias, ai margini di una delle principali cartoline postali di Rio, la Baia di Guanabara. Da ormai 36 anni riceveva quotidianamente duemila tonnellate di rifiuti. Ed e’ proprio grazie a questi che circa 1.800 ‘catadores’ riuscivano a sbarcare il lunario, attraverso la separazione manuale del materiale riciclabile. Un’operazione definita ”disumana” anche dalle principali organizzazioni mondiali legate alle questioni socio-umanitarie. Uomini, donne e bambini sono stati filmati in azione, in massacranti turni di lavoro, per racimolare quello che, nella maggioranza dei casi, costituisce l’unica fonte di sopravvivenza. Il tutto, in un luogo agghiacciante, che nel tempo ha collezionato numerose storie di tristezza e violenza.

Roba da Paesi lontani? Mica tanto. Quanti nostri panorami sono ingolfati di discariche, sia nelle belle campagne del centro Italia che nelle strade delle nostre città? Abusive o legali, proliferano, si moltiplicano, accumulano rifiuti che nessuno ormai sa più dove mettere, che debordano, straripano, ingombrano, inquinano… pur essendoci norme per creare una discarica meno dannosa. Ogni discarica viene progettata per accogliere determinati rifiuti (inerti, non pericolosi o pericolosi) e, salvo modifiche successive, deve accogliere solo quel tipo di rifiuti. Ogni discarica è progettata per accogliere un determinato volume di rifiuti e quindi ha una vita limitata, che può essere sì prolungata, ma non protratta indefinitamente. Anche le procedure di trattamento e di messa a dimora dei rifiuti devono essere eseguite in modo da non compromettere la sicurezza per chi vi opera e da non favorire fenomeni di inquinamento. La saturazione delle discariche, con la conseguenza di non potervi più conferire rifiuti, è questione attuale che tra l’altro rappresenta una delle principali cause del cosiddetto “turismo dei rifiuti”: lunghi viaggi di container tra una regione e l’altra o magari in viaggio “di piacere” all’estero in attesa dello smaltimento finale: l’«emergenza rifiuti» in corso da molti anni, ha esportato centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti in altre regioni italiane e all’estero.

Ma dove erano le discariche alla metà del secolo scorso? Perché è ovvio… da qualche parte i rifiuti dovevano buttarli, non potevano restare monti di cartacce, di spazzatura bruciante e fumosa, di plastiche malfamate! A meno che… già, a meno che i rifiuti non ci fossero proprio.

Come, possibile? Già: nell’epoca in cui il mercato non la faceva da padrone e la gente comprava la roba perché gli serviva e non perché indotta dalla pubblicità o dall’ansia amara di ostentare più del vicino di casa, la roba non diventava un rifiuto, si riusava. Non c’era da inventare scariche, discariche, riciclaggi, impianti vari: la sedia rotta si aggiustava e quando non si poteva aggiustare più ci si faceva il fuoco. Eccetera.

Poi è successo qualcosa e sono nati i rifiuti, come un asteroide caduto sulla terra, come un’invasione di marziani, come una mutazione genetica dovuta allo scoppio di una centrale termonucleare: è successo improvvisamente qualcosa. Se mi chiedete cosa è successo, lo capiremo nelle prossime pagine. Ma qualcosa deve essere accaduto, se una cosa mostruosa e mortifera che prima no esisteva ora è esplosa e si sta mangiando la terra!

E sono diventati nostri compagni di vita, i sacchetti della spazzatura: è più normale uscire di casa con lo scatolone o con il bianco sacco della spesa riusato per metterci le bottiglie da buttare, che uscire con il cane! Sono un amico, una convenzione, una consuetudine… una nostra appendice mentale, tanto che ci sembrano normali!

Cinquant’anni fa erano pochi ma presenti: arrivava lo “spazzino” e suonava la tromba all’ingresso del condominio; allora si usciva e si mettev fuori “il secchio”; lo spazzino col suo grosso sacco sulle spalle, simile allo spazzacamino di Mary Poppins, saliva le scale (l’ascensore era ancora una rarità) e svuotava i secchi, rivestiti da uno strato di carta di giornale; poi passava al condominio seguente. Un secchio al giorno per famiglia; oggi sacchetti e scatoloni tutte le mattine fuori di ogni casa, ogni condominio, ogni negozio per i quali non basta più lo spazzino, ma i camion, quelli che arraffano con le mostruose pinze metalliche gli enormi cassonetti (altro nome ormai diventato familiare) e li digeriscono a centinaia.

Dal nulla. Dal nulla è nata la spazzatura, l’immondizia, la “monnezza”, i rifiuti, lo scarto… li abbiamo inventati noi, la nostra generazione ha moltiplicato quello che avevano fatto mamma e papà, e che i nonni non conoscevano: inventare un prodotto prima ignoto. Il rifiuto.

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione