L'Eucaristia ha contribuito a plasmare il popolo italiano

Al Congresso eucaristico di Ancona i 150 anni dell’Unità d’Italia

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ROMA, lunedì, 5 settembre 2011 (ZENIT.org).- L’Eucaristia in quanto fonte e culmine della vita della Chiesa ha contribuito a plasmare l’identità del popolo italiano ancora prima che raggiungesse l’unità nazionale. Lo ha detto questo sabato il Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo Metropolita di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), durante l’incontro al Teatro delle Muse di Ancona.

“Nell’anno in cui il nostro Paese fa memoria dei suoi 150 di unificazione nazionale – ha affermato il Presidente della CEI –, è importante esplicitare la forza rigenerante dell’Eucaristia, che ha contribuito a plasmare l’identità profonda del nostro popolo ben prima della sua stessa identità politica”.

“L’Eucaristia, essendo il centro vitale della Chiesa, ha avuto sempre, nella vita dei centri grandi e piccoli disseminati nella nostra Penisola, una indubbia centralità, di cui oggi si avverte ancor più il bisogno di ribadire il primato di Dio e per ritrovare insieme la strada di un bene condiviso”.

“Si comprende allora, in questa logica”, ha proseguito, “il tema del Congresso Eucaristico – ‘Signore da chi andremo? L’Eucaristia per la vita quotidiana’ – che aiuterà tutti a ritrovare la profondità dell’incontro con Gesù Eucaristia e insieme l’impegno a tradurre questa esperienza in una coerente azione personale e comunitaria. Se infatti ‘nel sacramento dell’Eucaristia Gesù ci mostra in particolare la verità dell’amore, che è la stessa essenza di Dio’, compito della Chiesa è quello di rivolgersi all’uomo, invitandolo ad accogliere con gioia e coraggio il dono di Dio (cfr. Sacramentum caritatis, 2)”.

Nel suo intervento, lo storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, riprendendo quanto detto dal Cardinal Bagnasco ha sottolineato che sebbene lo Stato italiano sia nato “all’insegna della laicità, contrapposto al papato, con una politica di laicizzazione della società, attuata da leggi che riducono drasticamente la presenza della Chiesa”, “la Chiesa sentiva la nazione italiana ben prima dell’Unità politica”.

E infatti, “negli anni tra il 1861 e il fascismo, più saggio apparve ai governanti riconoscere il cattolicesimo come religione degli italiani, ma ridurne lo spazio sociale, comprimendolo nel culto, quasi fosse una cappellania della società. Il cattolicesimo segnava tradizionalmente l’orizzonte quotidiano degli italiani, che accorrevano i massa ai riti della Chiesa. Era un grande fattore di italianità”.

“Non c’era unità di sangue né d’arme. L’Italia non era ‘una’ linguisticamente. All’Unità, 600.000 parlavano italiano su 25 milioni. Il cattolicesimo (l’altare per Manzoni) invece univa tutti”.

Ripercorrendo velocemente la storia dell’intreccio tra vicende politiche e religiose del nostro Paese, Riccardi è quindi giunto agli anni intorno al ’68, “caratterizzati da un processo di soggettivizzazione dei comportamenti” a cui fecero seguito la “contestazione nella scuola e nella Chiesa, le trasformazioni della famiglia, la crisi politica, giungendo – sul finire degli anni Ottanta – alla fine dei partiti che hanno creato la Repubblica”.

“Dagli anni Novanta è cominciata una stagione di transizione, non ancora conclusa, caratterizzata da incertezza politica, difficoltà di rinnovamento della cultura e dell’ethos. Le parole messianiche della politica ormai tacciono. Non siamo in anni di dolore come quel ‘78, ma certo di grave incertezza”.

La sfida odierna, invece, è quella di una visione: “dopo tanta e faticosa storia, per far maturare una visione non si può restare abbagliati dai fuochi d’artificio della cronaca, ma ci si deve aprire la strada tra i segni. Segni che portano in profondità, ma anche indicatori del futuro. Segni da leggere nel nostro tempo, ma pure fonti di un ethos rinnovato”.

E contro gli araldi di “una storiografia riduzionista, incapace di indagare sulle correnti profonde della storia”, Riccardi ha incoraggiato a guardare alla “dimensione spirituale della storia”, che spiega come, “nonostante i limiti, il mondo del cattolicesimo italiano sia una risorsa per il futuro. E’ tanto mescolato alla storia e alla quotidianità del Paese, ma la sua vitalità sta in altre fonti”.

Citando padre David Turoldo, Riccardi ha quindi detto: “Qui c’è il cuore della Chiesa, il baricentro del mondo, della storia; qui è il passaggio all’eterno. Ed è solo silenzio. Un nulla di ostia, dentro. Meno ancora che nell’arca dov’erano la verga di Mosè e il libro della legge. Un’ostia che non dice niente e non sa di niente. E tuttavia è un punto che se fosse un solo luogo della terra, tutta la terra graviterebbe verso quel luogo, attratta da questa misteriosa forza di attrazione”.

Nel prendere la parola, il dottor Marcello Bedeschi, Segretario generale del Congresso eucaristico nazionale, ha ricordato gli insegnamenti di un grande scienziato marchigiano, il professor Enrico Medi, che ebbe come fonte del suo impegno di docente universitario e di uomo pubblico l’Eucaristia.

“Egli – ha raccontato Bedeschi – con molta semplicità parlando, nei primi anni Settanta, ad un gruppo di giovani mamme anconetane (ebbi la fortuna di essere presente a quell’incontro), così spiegò l’Eucaristia: mamme, quando avete messo al mondo un figlio e l’avete stretto forte fra le braccia, quali parole gli avete detto? Ti mangerei tutto. Perché grande è stato il vostro desiderio di riprenderlo, di riformare una sola carne in un immedesimarsi sostanziale di un amore consumante: questa è l’Eucaristia”.

Il Segretario Generale del Congresso eucaristico nazionale ha quindi espresso l’auspicio che attraverso questo Congresso “ogni uomo possa comprendere con la semplicità ma anche con la finezza intellettuale del servo di Dio Enrico Medi il dono che ci ha lasciato Gesù con la Sua ultima cena”.

Dal canto suo monsignor Edoardo Menichelli, Arcivescovo di Ancona, ha detto che “in ogni città di mare, il porto è luogo di passaggio, di lavoro, di incontro e di scambio; è luogo in cui si incrociano i dialetti dei popoli, le loro storie cariche di attese e di speranze, di inquietudini e di paure in cerca di un approdo sicuro”.

“A fronte di questa umanità – che è la nostra, accomunata dalla domanda disarmante ‘Signore, dove andremo?’ –, ci risulta ancora più facile sentirci contemporanei dei commercianti e dei pescatori di Cafarnao, fra le cui reti è rimasta impigliata la Parola di Gesù, il Suo proporsi come pane della vita”.

“Siamo consapevoli che, ieri come oggi, basta poco per scansarla, per saziare d’altro la fame del nostro corpo e andarcene raminghi, esuli provati da una carestia interiore degna delle annate più cattive”.

“Ma quella Parola si è rivelata per ciascuno anche seme che, se accolto e custodito, misteriosamente cresce, fiorisce in spiga, si fa frumento che profuma nel pane del perdono ed è misura della nostra capacità d’accoglienza e di condivisione, condizione perché non diventi pane raffermo e indurito”.

“Nell’Eucaristia quella presenza torna nella sua fragranza, quale nutrimento offerto ad ogni uomo, orizzonte di senso per la vita quotidiana, raccolta nella sua dimensione di eternità”.

“Dal riconoscere la nostra appartenenza al Signore, dal nutrirci di Lui fino a rimanere in Lui, nascerà la fiducia che ci consentirà di uscire da ogni meschino cabotaggio e di tornare a prendere il largo sul mare della storia”.

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ZENIT Staff

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