L'eterno conflitto tra capitale e lavoro (Seconda parte)

Qualche considerazione sull’immigrazione

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In secondo luogo, il lavoratore immigrato non solo produce, ma consuma beni e servizi e ciò forse dovrebbe aumentare i consumi stimolando la produzione interna del paese che lo ospita. Ma quali beni e che servizi l’immigrato consuma? Bene, anche qui gli effetti sono controversi. Infatti, l’effetto espansivo sulla domanda genera certamente un incremento di importazioni su beni non tradizionalmente prodotti nei nostri Paesi, e moltiplica gli scambi di beni e servizi di bassa qualità. L’effetto quindi è duplice: da una parte si rendono più appetibili per i nativi le produzioni “labour intensive” minacciate dalla concorrenza dei paesi in via di sviluppo (dove il costo del lavoro è basso) dall’altro, però, tale attività -a nostro modo di vedere- distrae risorse su produzioni di livello ed a maggior valore aggiunto; in definitiva, anche in tale caso il beneficio per il Paese di immigrazione non è alto. Si aggiunge, inoltre, il problema delle “rimesse degli emigrant”, ovvero, nella parte di reddito percepito dall’immigrato che viene inviato alla famiglia!  Vediamo meglio la questione.

Il fenomeno è molto difficile da calcolare. Gli emigranti, infatti, utilizzano diversi canali per far pervenire nel paese di origine i loro risparmi: trasferimenti di denaro attraverso banche; trasferimenti di denaro attraverso canali privati (connazionali che rientrano in patria, propri rientri temporanei nel paese di origine, ecc.); trasferimento diretto di beni ai parenti e amici in patria; trasferimento diretto di denaro all’interno delle lettere inviate in patria .  Il fenomeno è comunque di grande rilevanza. I dati del Rapporto World Bank, 2006, ad esempio, stimano che nel 2005 le rimesse dei migranti verso il complesso dei Paesi in via di sviluppo sono state pari a circa 167 miliardi di dollari USA (circa 138 miliardi di Euro dell’epoca), in crescita del 73% rispetto al 2001. Qualunque sia il modo utilizzato, tuttavia, l’effetto è che parte del reddito percepito non va ad alimentare né il consumo né finanzia gli investimenti all’interno del Paese ospitante.

Si pone, in sostanza una questione – che riteniamo, tra le tante, maggiormente contribuisca all’effetto impoverimento di un Paese – conseguente al massiccio e rapido afflusso di nuova popolazione: il c.d. effetto “diluizione del capitale ” e “redistributivo”. Infatti, la maggiore pressione sui beni capitale aumenta i prezzi dei beni e dei servizi, è quindi favorisce gli stessi beni capitale posseduti dai nativi (effetto diluizione). Tuttavia, la pressione sui prezzi svantaggerà tra i nativi i meno ambienti. Infatti, i nativi possidenti registreranno un aumento del valore del loro capitale grazie all’arrivo degli immigrati (effetto ridistributivo). E’ un po’ quello che succede sul prezzo degli affitti, dove la maggior richiesta di locazioni aumenta il prezzo degli affitti e favorisce i proprietari di casa, penalizzando chi casa non la ha o, la deve acquistare.

Spieghiamoci con un esempio; supponiamo che l’affitto di una casa del valore di 1000, sia normalmente di 10 e, ipotizziamo, un repentino aumento della domanda di case in affitto. Nel breve e brevissimo periodo la pressione sull’offerta comporterà la crescita dei canoni d’affitto, poniamo fino a 20. L’incremento di redditività delle case ha come conseguenza, una pressione sul valore capitale delle vecchie case e sui mutui per acquisto di nuove case; ne segue un aumento del livello dell’incremento del costo del denaro, con un effetto negativo sul sistema economico in generale. E’ evidente che le statistiche ufficiali possono rilevare soltanto i flussi di denaro che utilizzano il primo dei canali sopra indicati mentre, per ciò che riguarda gli altri canali, il flusso è destinato a rimanere ignoto.  

Un’analoga pressione l’aumento della popolazione che segue al fenomeno immigratorio esercita sulle finanze pubbliche, in termini di nuova spesa sanitaria ed altri servizi offerti ai residenti. Qui il problema è assai complesso, perché la questione dei costi va rappresentata, innanzitutto, in termini di lavoro nero e presenza clandestina sul territorio, costituita integralmente da soggetti che, usufruendo dei servizi sociali  e non pagando alcuna imposta diretta, rappresentano un costo secco per il Paese che li ha accolti; tale questione, purtroppo, non sembra voglia essere affrontata dalla politica. Viceversa, l’immigrato tipo risultante dalle statistiche, risulta: giovane; all’inizio della sua vita lavorativa; con un numero di figli relativamente basso. Se le cose stanno effettivamente così, questo comporta un relativamente basso utilizzo di prestazioni sanitarie, previdenziali, scolastiche ed assistenziali ed un uso dei servizi nazionali, inferiore rispetto sia alla loro consistenza demografica, sia rispetto alle risorse che versano nelle casse pubbliche. Purtroppo, i contratti di lavoro al minimo ed il frequente uso di contratti stagionali fanno si che anche i contributi versati, se confrontati alla massa occupata in attività al nero e/o sottopagata, siano in realtà poca cosa e da qui nasce un effetto negativo sui conti pubblici.

Il fenomeno dell’immigrazione è stato studiato, in definitiva, troppo poco e  con forti condizionamenti culturali. Forse un nuovo modo di affrontare la questione potrebbe aiutare a risolvere il problema e, forse a comprendere, almeno, una delle cause del declino dell’Occidente.

(La prima parte è stata pubblicata ieri, mercoledì 10 luglio)

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Enea Franza

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