In dialogo con Italo Mancini, vent'anni dopo (Seconda parte)

Intervento di monsignor Bruno Forte al seminario di studi svoltosi a Urbino

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Riportiamo oggi la seconda parte dell’intervento di monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, al seminario di studi “Giornata Italo Mancini”, tenutosi il 29 maggio scorso a Urbino.

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2. Incontro all’altro: un pensiero dialogico

È al monumentale volume L’ethos dell’Occidente, scritto “in tre roventi mesi di luglio” a Ischia, l’isola bagnata dal mare di Napoli e della Magna Graecia, che fu culla del più antico inizio del pensare, che Italo Mancini consegna il messaggio dell’incontro delle due anime della sua vita, quasi a sigillo della sua vicenda umana e spirituale. Se si vogliono delineare possibili convergenze per un ethos del futuro, che salvaguardi la dignità dell’umano e ci difenda dal rischio sempre incombente della barbarie, la linea del concetto, tesa a far coesistere nel mondo vita giuridica e vita morale, dovrà coniugarsi alla linea della speranza, aperta a riconoscere nel volto d’altri la misura su cui verificare la giustizia e il bene. Mancini avverte l’urgenza di questo dialogo per l’intera civiltà occidentale, più che mai bisognosa di anima e di senso per vivere e per morire, dopo l’esperienza di naufragio che è stato il crollo dei mondi ideologici. Memore delle sue stesse radici, non esita a chiamare questi due poli la “corrente fredda” della vita scientifica e la “corrente calda” della profezia e confessa di non potersi sottrarre al destino di tenerle insieme: “Non è questione di scelta, quello che fu detto e denunciato come volontarismo di significati, e neppure di gusti, come se si potesse scegliere e contrapporre tra il mantello del profeta o la toga dell’accademico; è la cosa stessa, la prassi, che chiede entrambi gli atteggiamenti, quello di leggere dentro e quello di leggere in prospettiva, concetto e progetto”1.

Contro il predominio dei principi astratti, contro il privilegio accordato ancora da Heidegger all’orgoglioso “essere-presso” rispetto all’umile “essere-con”, appare urgente riconoscere come norma e misura etica l’altro, così come s’incarna nella nuda concretezza della situazione vitale espressa dal volto. È la lezione di Lévinas, che Mancini ha fatto sua, cogliendone le profonde risonanze evangeliche: è il riscoprire l’altro nella sua irriducibile dignità, nella fondatezza dei suoi bisogni reali, che sono anche i suoi diritti nei confronti del chiuso totalitarismo dell’io. “L’Infinito non è il generico tutto, ma la radicazione assoluta di qualcosa come Altro… quello che permette a ogni altro, prossimo, volto, di avere consistenza e dignità, di porsi come norma di fronte a tutti gli altri… Porre l’infinito che non è il tutto, ma il sovranamente altro significa mettere da parte la logica dell’intero, che è l’identità, e assumere la logica della differenza, dell’altro termine, perché l’infinito… privilegia infinitamente l’altro e lo pone come legge e riferimento supremo. Se l’infinità dell’infinito vuol dire infinità dell’Altro, esso infinitizza il compito verso l’altro e non la ricerca sul sé, sulla medesimezza, sull’io”2.

Con la semplice presenza del suo volto l’altro fonda l’esigenza etica di non assolutizzare se stessi, di misurarsi in un esodo da sé senza ritorno che si faccia carico dell’altrui bisogno, fino alla sostituzione di sé all’altro nel portare il peso dell’indigenza, morale o materiale: in quest’accoglienza dell’altro viene a manifestarsi propriamente anche l’imperativo etico della giustizia. Essa porta la relazione di corrispondenza all’altro e di sostituzione dell’altro al suo compimento più alto, perché non si limita al rapporto fra i due che sono in gioco, ma si estende ad abbracciare i terzi. È così che l’etica, misurata dal volto d’altri, diviene anche e inseparabilmente il fondamento del diritto, la realizzazione cioè di una giustizia che non tocca solo i due, ma abbraccia le condizioni stesse del loro vivere insieme e del loro stare con altri, la comunità dei volti che è – nel senso più profondo – la socialità quale fondamento della società civile e dello Stato: “C’è anche il volto del terzo, dei terzi… Qui non basta la giustizia puramente unidirezionale, ci vogliono organismi come lo Stato e come la direzione economica, e di fronte a loro sta il compito della coesistenza dei volti, sta la necessità di garantire che sia resa possibile la dialettica del rapporto giusto o del mio potermi liberamente rivolgere ai volti, trattarli sovranamente, senza vincoli di preclusione”3. La più alta esigenza morale del diritto – imprescindibile da esso se non si vuol cadere nella barbarie – è dunque quella di “rendere giustizia ai volti”.

L’approdo cui l’analisi di Mancini perviene si apre così a un’ulteriore, esigente domanda, quella in cui si gioca veramente la possibilità dell’ethos futuro: “Che significa rendere giustizia a un volto? Come si presenta un volto e perché ha bisogno che gli si renda giustizia?”. Il volto si presenta nella sua irripetibile concretezza e coglierlo in essa è la condizione necessaria “perché non affoghi nella violenza del neutrale, non sia assassinato dal mettere al suo posto il generale; perché il linguaggio è sempre sul punto… di non mantenere fede al suo rivolgersi a un altro vero e proprio che ha dei diritti di fronte a me per l’esigenza infinita che lo sostiene”. Quando si guarda così al volto d’altri, esso appare nella sua duplice valenza, capace di fondare l’urgenza etica e il diritto: l’esigenza e il bisogno. “Il volto non si rivolge a me solo come esigente, ma come indigente. È radicale, ma anche nudo. Anzi, la sua nudità è la sua condizione”4. Corrispondere a questa nudità, farsene carico senza calcolo e senza misura, è l’atteggiamento che solo potrà rendere più vera e umana la convivenza fra gli uomini, e che solo giustifica nella sua esistenza lo Stato: ma giungere a questo punto è riconoscere che la sola, vera misura dell’essere l’uno per l’altro – in quanto realizzazione di diritto e di giustizia – è la misura della carità.

“Fare giustizia al volto, intendere il primato della responsabilità su ogni altra forma di essere presente, compresa quella veritativa, significa far passare la misura dell’accoglienza nella misura del dono”5. L’ultima parola cui l’Occidente s’affida per il suo destino presente e futuro, la sola che esso abbia ancora da dire al mondo e che possa ritenere capace di rinnovare tutto e di costruire il nuovo ordine mondiale, di cui il “villaggio globale” ha immensamente bisogno, è, dunque, secondo Mancini, una parola antica e sempre nuova, pronunciata una volta per sempre al livello più alto nell’eloquenza silenziosa della Croce del Figlio, e da pronunciarsi sempre di nuovo con la vita dovunque si voglia fare della convivenza umana a tutti i suoi livelli una socialità ordinata e liberante, costruita secondo giustizia e diritto. Questa parola ultima e prima, questa lingua in cui l’uno-per-l’altro si dice nella maniera più vera e realizzante in tutte le forme del dialogo e della comunione dei volti, è l’“amore”. L’incessante interlocuzione di Mancini con l’altro dai volti più diversi, il dialogo vissuto al centro e al cuore della sua ricerca fra le due grandi anime della sua ispirazione, la greca e la cristiana, culminano nella proposta di una via etica, che assuma le istanze più profonde della storia da cui veniamo e ne faccia sorgente di nuovo futuro. L’ethos dell’Occidente starà o cadrà con il ritrovamento del primato della carità rispetto a ogni altra pretesa. Il Vangelo è promessa di un avvenire redento, quello del possibile, impossibile amore, cui non arrivano le nostre forze, ma che ci viene offerto nel dono dall’alto in Cristo Gesù.

(La prima parte è stata pubblicata ieri, sabato 1 giugno. La terza e ultima parte segue domani, lunedì 3 giugno)

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NOTE

1 L’ethos dell’Occidente, o.c., 14.

2 Ib., 597.

3 Ib., 605.

4 Ib., 606.

5 Ib., 607.

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Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

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