Cosa insegna la Chiesa giapponese a quella italiana?

di padre Piero Gheddo*

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ROMA, venerdì, 16 settembre 2011 (ZENIT.org).- In una “Nota pastorale“ della CEI (marzo 2007) si legge (pagg. 7-8): “Desideriamo che l’attività missionaria italiana si caratterizzi sempre più come comunione-scambio tra Chiese, attraverso la quale, mentre offriamo la ricchezza di una tradizione millenaria di vita cristiana, riceviamo l’entusiasmo con cui la fede è vissuta in altri continenti. Non solo quelle Chiese hanno bisogno della nostra cooperazione, ma noi abbiamo bisogno di loro per crescere nell’universalità e nella cattolicità…. Abbiamo molto da imparare alla scuola della missione. Chiediamo pertanto ai Centri missionari diocesani di far sì che la missionarietà pervada tutti gli ambiti della pastorale e della vita cristiana”. Parole forti e chiare, ma che non è facile applicare nella vita ecclesiale italiana. Bisogna “leggere il libro della missione”, ascoltare i testimoni. Eccone uno.

Nel luglio scorso, intervistando a Milano dov’era in vacanza, padre Alberto Di Bello, missionario del Pime da 40 anni in Giappone, gli chiedo cosa la giovane Chiesa giapponese può insegnare alla Chiesa italiana. Il tema è complesso, mi dice, parla solo della sua esperienza. “Posso dirti che i cattolici giapponesi hanno un forte senso di identità cristiana e di appartenenza alla Chiesa e danno una bella testimonianza di fedeltà a Cristo. Le nostre parrocchie, avendo poche centinaia di battezzati, diventano davvero comunità unite nella fede. C’è una bella abitudine. Dopo la Messa domenicale, i fedeli si incontrano nelle sale della parrocchia, parlano, si informano di varie cose. In Italia non vedo questo: finita la Messa domenicale ciascuno va per conto suo. In Giappone c’è proprio questo incontrarsi e formare una comunità, una grande famiglia, aiutarsi a vicenda. Non solo, ma parlano della parrocchia, vedono cosa c’è da fare, si impegnano nelle opere parrocchiali, sanno di dover aiutare la casa comune. Sono esemplari, hanno un forte senso di appartenenza e quindi di responsabilità verso la parrocchia. Non è del parroco, ma di tutti i battezzati”.

Gli chiedo com’è la sua vita di prete in Giappone. Risponde: “Una volta pensavo che, rispetto ai preti italiani, noi missionari facevamo grandi sacrifici abbandonando la patria, andando in terre lontane con fatiche, pericoli, difficoltà per le lingue e le culture. Adesso penso che veramente sacrificati e stressati sono i preti italiani. Conosco alcuni parroci e altri sacerdoti milanesi.  Spesso non hanno davvero tempo libero. In Giappone io sono parroco e pur lavorando molto, mi rimane tempo libero. L’importante è essere presente in parrocchia, ma non sono assediato come i preti in Italia. Ho tempo di pregare e studiare, creare rapporti umani con molte persone, coltivare amicizie e curare la vita spirituale mia e delle mie pecorelle. Io mi trovo veramente bene. Certo non ho molte cose e comodità che avete in Italia, ma ho tempo per tutto e sono circondato da cristiani che mi vogliono bene”.

“In Giappone –  continua padre Alberto – per una tradizione secolare nata durante i secoli di persecuzioni feroci e terribili, la Chiesa era sopravvissuta praticamente affidata ai laici. Anche oggi diamo molta fiducia ai laici, fanno tante cose che in Italia fanno i preti.Èvero che in Giappone è difficile che vengano fuori atteggiamenti eretici o esagerati. I credenti sono meno intellettualmente complicati che in Italia.  La fede è vissuta con più entusiasmo e semplicità”.

“Durante quasi tre secoli di persecuzioni e di clandestinità la Chiesa è riuscita a sopravvivere anche senza il sacerdote o vedendo il prete una volta l’anno o anche meno. Questo grazie anche all’organizzazione e distribuzione delle competenze. Così è anche oggi e persino i lavoratori immigrati cattolici (filippini, brasiliani, peruviani, gente di lingua spagnola) hanno i loro rappresentanti, partecipano ai vari consigli e per quanto possono si impegnano. Forte il legame col Vescovo, col quale noi preti ci incontriamo ogni mese, nonostante le distanze. Purtroppo, a causa della difficoltà della lingua, i fedeli giapponesi non possono ricevere con tempestività i vari interventi del Papa, che usciranno poi unificati in volumetti: le traduzioni richiedono tempo. I giapponesi hanno fin dai primi tempi una forte devozione alla Madonna e recitano il Rosario. La chiesa e i locali della parrocchia vengono spesso usati per iniziative anche non strettamente religiose, con lo scopo di avvicinare i lontani”.

“Il punto debole della Chiesa giapponese è la trasmissione della fede ai figli. Spesso uno dei genitori non è cristiano e i ragazzi passano quasi tutta la giornata a scuola, dove nella classe sono gli unici cattolici. Anche la domenica spesso non possono venire in chiesa, perché impegnati in attività cui non possono sottrarsi. La mancanza di riferimenti alla fede nella società e nei mass media rende difficile renderli coscienti dell’importanza della fede”.

“I cattolici giapponesi si danno più da fare per la ricerca delle vocazioni e in effetti in percentuale sono molto più numerose di quelle in Italia, anche se non si possono prospettare loro i vantaggi che possono attirare le vocazioni in Italia. Nella mia regione di Shizuoka è presente un giovane prete che aiuta le chiese vicine, tra cui la mia, nella pastorale dei ragazzi. Nelle chiese dove ho lavorato fino ad ora ho visto nascere diverse vocazioni sia maschili che femminili. Mi sembra che in Italia si potrebbe fare di più, ma non sono abbastanza al corrente della situazione”.

Chiedo a padre Alberto com’è la predicazione nelle Messe domenicali in Giappone. “I preti giapponesi dicono a noi preti italiani che siamo troppo teorici nelle prediche. Loro sono molto pratici e intuitivi, vanno per intuizione e commozione. Se presenti la predica in modo commovente, loro si commuovono subito. Se non metti anche una parte più solida, di dottrina, loro vanno a finire nei sentimenti e sono contenti. Ci vogliono tutte e due le cose. Ci vuole il cuore che si commuove e ci vuole la dottrina che ti spiega perché le verità della fede ti fanno stare bene”.

“Il giapponese ha poca tendenza ai problemi speculativi, filosofici. Sceglie il cristianesimo perché vede che produce buoni frutti nella vita quotidiana: ti rende sereno, pieno di speranza e di gioia, caritatevole, impegnato nel tuo dovere, ti toglie la paura degli spiriti cattivi. Nella predicazione ci vuole la dottrina, ma poi bisogna anche incarnare quella verità nella vita, raccontare un esempio, un fatto che tutti capiscono. Come faceva Gesù con le parabole. Prediche non lunghe e basate sulla Bibbia attualizzata. Per esempio, se oggi parlo adesso del Buon Samaritano, parlo dei volontari che sono andati ad aiutare i terremotati travolti dallo tsunami di Fukushima. Oppure citando certe notizie di cronaca conosciute da tutti”.

“L’importante è che il prete racconti la vita di fede in modo convinto, che commuova, tocchi il cuore di chi ascolta. Certe prediche che sento in Italia, astratte, teoriche oppure semplice proclamazione delle verità di fede, in Giappone non funzionano. Io vivo la vita dei miei cristiani e parlo in modo familiare e concreto”.

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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1964) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l’Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.

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ZENIT Staff

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