di Chiara Santomiero
ROMA, giovedì, 12 novembre 2009 (ZENIT.org).- “Questo congresso ha avuto il merito di convocare in assemblea internazionale operatori provenienti da 86 nazioni dei cinque continenti e di tracciare una panoramica a 360 gradi sul mondo delle migrazioni”: mons. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti e degli itineranti, ha tratto alcune conclusioni riguardo al VI Congresso mondiale della pastorale per i migranti e i rifugiati su “Una risposta pastorale al fenomeno migratorio nell’era della globalizzazione” che è terminato questo giovedì in Vaticano.
“Sono state presentate situazioni di vita, difficoltà, problematiche emergenti e tentativi di risposta – ha aggiunto Vegliò – con particolare insistenza sul mondo giovanile e sulla realtà delle carceri, sul traffico di esseri umani e sulla tratta dei migranti”.
Un altro importante aspetto che va sottolineato è: “la presenza al Congresso di alcuni rappresentati delle altre comunioni cristiane. E’ emerso chiaramente che l’impegno di difendere i diritti del migrante e della promozione umana rappresentano l’occasione propizia per l’incontro ecumenico di collaborazione e di riflessione”.
“La persona – ha proseguito Vegliò – vale più di tutte le strutture e le istituzioni. Così, non possiamo tacere di fronte a chi specula sulle vite dei migranti e dei rifugiati, soprattutto alimentando il deplorevole traffico degli esseri umani, la tratta e il sequestro di chi si trova, suo malgrado, in condizioni di vulnerabilità”.
“Questa nostra assise – ha affermato il presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti e degli itineranti – presta la sua voce, con coraggio e determinazione, a chi non ha la possibilità di farsi sentire, affinché gli stati e i loro governanti, le istituzioni civili, sociali e formative, in stretta collaborazione con le comunità cristiane e con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, siano sensibili ai fenomeni delle migrazioni e del rifugio, anche sollecitando l’adozione e la ratifica delle normative internazionali che tutelano e promuovono la persona umana, creata ad immagine di Dio e redenta dal sangue di Gesù Cristo”.
“Ognuno deve fare il suo dovere – ha dichiarato a ZENIT mons. Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per la pastorale dei migranti e degli itineranti -, portando avanti il suo ideale di servizio nella concretezza della propria vita o responsabilità istituzionale. Lo specifico della Chiesa è porre alla base della sua azione l’amore per Dio che porta a riconoscere l’altro come fratello, immagine di Cristo povero. Questo cambia la sostanza dell’agire, anche se concretamente si fanno le stesse cose di molti altri e insieme agli altri”.
Marchetto è tornato sulle nuove possibilità per il dialogo ecumenico offerte dalla presenza di molti migranti appartenenti alla Chiesa ortodossa: “La presenza di altri fratelli cristiani in paesi a maggioranza cattolica – ha affermato – ravviva la tensione ecumenica e aiuta a sviluppare un dialogo che non è solo quello della vita, ma anche tra le Chiese, sul servizio, l’offerta di luoghi di culto, il confronto teologico”.
A proposito del concetto di integrazione, Marchetto ha ribadito che non può trattarsi di una strada a senso unico: “i migranti non possono diventare una specie di copia della società di accoglienza. Anche questa deve fare un cammino di integrazione con le altre culture presenti sul territorio. L’obiettivo dovrebbe essere l’interculturalità, preferibile alla multiculturalità per la quale ogni comunità culturale procede per conto proprio, sia pure rispettando le altre”.
E’ un processo che va sostenuto: “occorre riconoscere le paure della gente verso lo straniero, il diverso, senza scandalizzarci ma aiutando ad evitare gli stereotipi e le generalizzazioni. E’ proprio della concezione della chiesa cattolica promuovere una logica di ‘e/e’ piuttosto che di ‘o/o’”.
“Sia il Santo padre che la Conferenza episcopale italiana – ha spiegato Marchetto – hanno più volte ribadito che l’aspetto della sicurezza deve essere coniugato all’accoglienza. Quando l’equilibrio si sposta a danno dell’accoglienza, la Chiesa interviene perché ama l’uomo, soprattutto quello più povero e vulnerabile. Ai sacrifici di tante persone – specialmente donne – che vengono a lavorare nei paesi occidentali lasciando le proprie famiglie con gravi ripercussioni negli equilibri di queste, vanno riconosciute attenzione e sollecitudine fraterne”.