Il dialogo di vita tra cristiani e musulmani in Nigeria

Parla mons. John Onaiyekan, Arcivescovo di Abuja

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VENEZIA, mercoledì, 18 marzo 2009 (ZENIT.org).- Le violenze che da oltre 20 anni insanguinano la Nigeria non vanno lette in chiave religiosa quanto piuttosto in chiave etnica, sostiene mons. John Onaiyekan, Arcivescovo di Abuja, in una intervista ad “Oasis”.

“La Nigeria non è un paradiso, ma non è neppure l’inferno che viene descritto da certi vostri media – sottolinea il presule –. In Occidente arrivano solo le notizie relative alle violenze e ai problemi, ma non quelle che raccontano la vita di tutti i giorni, di condivisione nelle varie vicende quotidiane”.

“Si dovrebbe sapere che ad Abuja viviamo in una pace relativa tra comunità di religione diverse – aggiunge –. Che nei periodi delle feste religiose c’è un vero scambio e un reciproco coinvolgimento e rispetto tra comunità”.

“Che noi cristiani siamo liberi di manifestare pubblicamente la nostra fede, come lo sono i musulmani, e che sappiamo l’importanza di non usare quelle espressioni o parole che possano volutamente offendere la fede dell’altro”.

“Certo, nei villaggi la situazione è un po’ diversa – precisa –, più difficile perché più in balia di gruppi locali, con una visione più parziale, ma l’esperienza è di questa generale condivisione della vita quotidiana con i problemi e le fatiche di tutti”.

E infatti, in Nigeria, “l’origine della violenza non si può rintracciare nella diversa appartenenza religiosa, ma appunto in quella etnica”, che spesso “precede” l’appartenenza religiosa.

A favorire questo clima di scambio e dialogo è stato soprattutto il Consiglio per gli Affari Religiosi nigeriano, composto da 25 personalità del mondo musulmano e 25 della comunità cristiana.

“Tempo fa, in occasione delle nostre riunioni, facevamo due preghiere, una cristiana e una musulmana sia all’inizio che alla fine – afferma –. Ora invece abbiamo scelto di fare una sola preghiera all’inizio e una alla fine, rispettivamente cristiana e musulmana, o viceversa”.

“Questa pratica lascia intendere che, quando preghiamo, la nostra preghiera abbraccia tutti. Il fedele  – che sia cristiano o musulmano – quando prega, prega per tutti. Non preghiamo “insieme”, ma uno accanto all’altro, abbracciando però tutti”. Questa situazione è inoltre agevolata dal buon rapporto tra l’Ordine Supremo del Consiglio per gli Affari islamici, presieduto dal sultano di Sokoto, Sa’adu Abubakar, già colonnello dell’esercito nigeriano, e l’Associazione dei Cristiani di Nigeria, presieduta da mons. John Onaiyekan e di cui la Chiesa cattolica è membro.

Cristiani e musulmani si impegnano inoltre in programmi condivisi a favore del bene comune, come la battaglia contro l’Aids o contro la malaria, o le iniziative diverse per ridurre la mortalità delle donne a causa al parto.

“Collaboriamo su questioni concrete, perché quando ci troviamo di fronte ai bisogni fondamentali dell’uomo, le differenze tra di noi vengono meno”, sottolinea.

“Non tentiamo un dialogo ‘teologico’ che pensiamo non ci porterebbe da nessuna parte, ma ci incontriamo concretamente quando mettiamo in gioco queste implicazioni pratiche della nostra fede”.

Inoltre, in Nigeria, “la religione è ritenuta una risorsa che sa aiutare gli uomini a vivere bene, ad affrontare con uno sguardo di speranza la vita di tutti i giorni, a trovare vie concrete di espressione”.

E tra vicini di casa, cristiani e musulmani, “si vigila reciprocamente sulla fedeltà ai propri appuntamenti religiosi”. Un fatto del tutto normale, spiega, “perché la fede del mio amico, del mio vicino, sta a cuore anche a me. In questo senso diviene un fatto ‘pubblico’”.

La Nigeria conta circa 150 milioni di abitanti, divisi a metà tra musulmani e cristiani (di cui il 20 % cattolici, per il resto protestanti di diversi gruppi, anglicani, metodisti, battisti, evangelisti e di Chiese africane).

Nel 1999 dodici Stati federali nigeriani su 36 – soprattutto nella parte nord del Paese – hanno adottato la “Sharia” (la legge islamica).

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ZENIT Staff

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