di Mariaelena Finessi
ROMA, mercoledì, 6 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Lo scorso 31 dicembre l’alta Corte di Kuala Lumpur ha annullato l’ordinanza del Ministero dell’Interno che impediva alla Chiesa cattolica di pubblicare la parola “Allah” per riferirsi al Dio cristiano nel settimanale cattolico, Herald.
Sulla polemica ancora in corso (messa in atto da numerose organizzazioni musulmane e da gruppi nati su Facebook) interviene il vescovo Paul Tan Chee Ing della diocesi di Melaka-Johor concedendo una intervista a ZENIT.
Il gesuita, 69 anni, ritiene che la Chiesa in Malesia debba continuare a lottare per i diritti dei non-musulmani promuovendo il dialogo interreligioso nel Paese.
Per molti secoli musulmani e cristiani hanno convissuto in pace in Malaysia e l’utilizzo della parola “Allah” non è mai stato motivo di contrasto. Cosa pensa del divieto fatto ai cristiani di dire “Allah” per chiamare il proprio Dio? E’ solo una battaglia linguistica?
Mons. Paul Tan Chee Ing: «Lei ha ragione ed è solo in tempi recenti che non solo “Allah” ma anche altre parole e frasi di origine araba – ad esempio “rasul”, “baitullah” ecc. – sono state vietate ai fedeli non musulmani. Non è allora una battaglia linguistica. É invece una battaglia per i voti, dunque politica. L’UMNO – United Malays National Organisation – teme di perdere contro il partito d’opposizione PAS (Islamic Party) il quale si è espresso invece a favore dei non musulmani e sull’uguale diritto che essi hanno di usare la parola “Allah”. L’UMNO, partito malese musulmano dominante all’interno della coalizione Barisan Nazional, ha cioè paura di perdere il voto dei malesi i quali rappresentano circa il 60% della popolazione. E in Malesia, purtroppo, i malesi si identificano con i musulmani – unico paese al mondo in cui, nella Costituzione, si lega la religione alla etnia.
Nel Sacro Corano, alla Sura 5,69 e alla Sura 22,17, anzi più esplicitamente alla Sura 2,62 si dice che gli ebrei, i cristiani, i sabei e i musulmani hanno il culto di Allah. Come può dunque un musulmano andare contro il suo Sacro Corano? Non è possibile. E se lo fa è per mera ignoranza o per ragioni di opportunità politica. Qualsiasi studioso obiettivo può infatti confermare che la parola “Allah” è pre-islamica ed ha la sua radice nella lingua semitica. Musulmani arabi e musulmani indonesiani ricorrono tutti al termine “Allah”. Non si pensi però che tutti i malesi musulmani siano contrari a che i cristiani facciano uso del termine “Allah”, anzi. Ad esempio, il consigliere spirituale del PAS, Datuk Abdul Aziz Nik Mat, si è espresso così sul The New Straights Times: “Fino a quando la parola non viene abusata, i non-musulmani possono farne uso”.
I malesi-musulmani sono dunque divisi sulla questione e, secondo un commentatore politico, questo è esattamente ciò che vuole l’UMNO, cioè è questa la sua strategia per vincere le prossime elezioni generali. L’UMNO si trova tra l’incudine e il martello, come si suol dire. Se permette ai non-musulmani di usare il termine “Allah”, potrebbe perdere i voti Malesi; se non consente ai non-musulmani di usare il termine “Allah”, perderà il voto di coloro che invece non sono malesi ma che sono tuttavia importanti in alcune circoscrizioni».
Diverse organizzazioni non governative e gruppi nati su Facebook hanno protestato contro la decisione della Corte di permettere l’uso del termine “Allah” nell’Herald, il settimanale cattolico. Che opinione si è fatto in merito a queste crescenti campagne atte a fare pressioni sul Governo perché intervenga?
Mons. Paul Tan Chee Ing: «Ma chi sono queste 26 organizzazioni musulmane non governative, chiamate Wehnah, ecc? Non sono allineate con la posizione dell’UMNO? Se esse sono sincere, allora la mia risposta alla prima delle sue domande vale per loro: a muoverli è l’ignoranza, i pregiudizi politici o meri interessi personali».
Nonostante la decisione della Corte, il National Fatwa Council ha emesso una fatwa in cui è detto che il nome di “Allah” è esclusivo all’Islam. Suona come una contraddizione…
Mons. Paul Tan Chee Ing: «Anche la dichiarazione pubblica del PAS (Islamic Party) secondo cui i non musulmani possono far ricorso alla parola “Allah” è una contraddizione rispetto a ciò che il National Fatwa Consiglio ha stabilito. Contraddire è un altro gioco per fare politica».
Il Ministero dell’Interno è ricorso in appello contro la sentenza del giudice Lau Bee Lan. Qual è la risposta della Chiesa?
Mons. Paul Tan Chee Ing: «Il Ministero non solo ha già fatto appello alla Corte Suprema, ma ha persino presentato la richiesta di sospensione dell’ordinanza emessa dall’Alta Corte. Quanto alla Chiesa, essa deve dirsi tranquilla, ferma nella difesa dei diritti dei non-musulmani, così come sancito nella nostra Costituzione federale, e collaborare con tutte le persone ragionevoli, cercando di mantenere l’armonia, non provocando l’altro con parole o azioni e non lasciandosi abbattere. Certo, si tratta di un cammino difficile».
Qual è lo “stato di salute” della Chiesa locale in Maslaysia e il suo ruolo nel futuro della Chiesa universale?
Mons. Paul Tan Chee Ing: «Poiché sono malese, potrei essere di parte. Ma ho grandissima esperienza maturata in molti Paesi al mondo, compreso l’Italia dove ho soggiornato per 10 anni. Personalmente ritengo la Chiesa malese molto stabile, unita e forte. Il nostro movimento ecumenico e la cooperazione interreligiosa finora sono stati buoni, nonostante qualche difficoltà qua e là.
Le statistiche della popolazione cattolica hanno mostrato una stagnazione numerica per molte ragioni:
1 – I cattolici cinesi e indiani tendono ad avere meno figli rispetto ai malesi.
2 – I loro bambini vengono mandati a studiare all’estero a causa della discriminazione nei loro confronti nelle università, e molti di essi non tornano in Malesia proprio per via della paura di essere discriminati.
3 – Molti genitori seguono i figli che hanno scelto di sposare una persona di un altro Paese, e vanno a vivere lì, dove si sentono a proprio agio e possono salvarsi.
A dispetto di tutto questo, le chiese sono in genere piene di uomini, donne e bambini. Si tratta di una Chiesa vibrante. La Chiesa locale ha cercato di aiutare altre diocesi più povere in altri paesi. Faccio l’esempio della nostra diocesi di Melaka-Johor: abbiamo accantonato ogni anno, a dispetto del fatto che non siamo ricchi, 100.000 ringgit malesi da dare alla Chiesa in Kenya, alla Chiesa in Myanmar soprattutto all’Arcidiocesi Taunggyi e alla Chiesa in Loas. Questo imitando la prima chiesa cattolica del tempo degli Apostoli.
Abbiamo anche collaborato con i protestanti, i buddisti, i sikh e gli indù. Il contributo che noi malesi possiamo offrire alla Chiesa universale è la difesa della verità e dei diritti delle persone contro ogni pronostico, perché sappiamo che Dio, che è il Signore della storia, vede e sa ogni cosa. E la comprensione di ciò che è sbagliato non tarderà ad arrivare, secondo i Suoi tempi e seguendo le Sue vie. Occorre avere pazienza!».