di Mariaelena Finessi
ROMA, lunedì, 22 febbraio 2010 (ZENIT.org).- A quattro mesi dalla II Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, tenutasi a Roma nell’ottobre del 2009, Aimable Musoni – salesiano ruandese che all’incontro ha partecipato nella veste di esperto – traccia per ZENIT un bilancio delle conquiste sociali registrate nel continente negli ultimi 15 anni anche grazie al cattolicesimo.
Consultore nella Congregazione delle Cause dei santi e la Congregazione per la Dottrina della fede, Musoni spiega inoltre i prossimi passi per rendere concrete le conclusioni a cui sono giunti i Padri sinodali.
Partiamo dal tema del II Sinodo, celebrato a Roma nell’ottobre scorso: “La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”.
Musoni: Si tratta di un tema molto attuale che coinvolge tutti, dai pastori fino all’ultimo dei fedeli. In particolare, sono stati chiamati in causa dai Padri sinodali i membri della vita consacrata, perché ci si aspetta molto dalla loro testimonianza e dal loro ruolo profetico per non rassegnarsi e non smarrire i valori cristiani in tutte quelle circostanze di estrema pressione che attanagliano il continente, quali le guerre, la povertà, le malattie e la fame.
La convinzione è che, solo riconciliati con Dio possiamo riconciliarci tra di noi ed essere testimoni-ministri della riconciliazione nella società. Di conseguenza, è stata sottolineata la necessità di una testimonianza personale convinta e convincente da parte di tutti i membri della Chiesa. In tale ottica, l’annuncio del Vangelo in Africa non può che andare di pari passo con il processo di riconciliazione. Un aspetto, quest’ultimo, su cui si è voluto per altro richiamare l’attenzione anche dei politici cattolici affinché agiscano nella società, e per la società, guidati da una coerenza al dettato cristiano così da facilitare anche il buon vivere collettivo.
Nonostante alcuni progressi registrati nell’ambito socio-politico, economico e culturale, resta difficile sapere in che modo i risultati del Sinodo trovino o abbiano trovato una reale applicazione in Africa.
Musoni: Si, è difficile quantificare in modo preciso i risultati. Ad ogni modo, rispetto al 1994, anno del I Sinodo, si è registrata una crescita notevole del cattolicesimo nel continente, i cui membri sono passati da 102 milioni (pari a 14,6% della popolazione africana) a 164 milioni (17,5%). Così come sono aumentati, ad esempio, i consacrati, i missionari laici, i catechisti e i seminaristi nonché le strutture ecclesiastiche per l’evangelizzazione, gli ospedali, le scuole, i seminari e le radio cattoliche, passate – quest’ultime – da un numero di 15 a ben 163.
Approfondita anche la riflessione teologica sebbene restino problemi legati all’inculturazione nella misura in cui non si hanno dappertutto libri liturgici e catechismi nelle diverse lingue locali. Ecco perché bisogna continuare l’opera di traduzione, nonché incrementare il repertorio dei canti liturgici, seguendo i canoni della tradizione consolidata in Europa, sì, ma incoraggiando anche la creatività del genio africano.
Nell’Instrumentum laboris si chiede espressamente di supplire alla mancanza di un sistema di follow-up, specie nei settori concernenti la famiglia, la dignità della donna o la missione della Chiesa.
Musoni: Per mettere a punto un metodo sistematico di valutazione, il II Sinodo ha cercato di interpellare innanzitutto il Simposio delle Conferenze Episcopali d’Africa e del Madagascar (Secam) perché possa fungere da centro di coordinamento della solidarietà pastorale organica, dunque sintetizzando le diverse esperienze sul piano continentale, regionale, nazionale, delle diocesi e delle parrocchie stesse. In altri termini, ci si augura di concepire, ad ogni livello, un meccanismo di valutazione continua proprio per vedere se c’è una ricezione pratica e concreta di ciò che è stato detto nei Sinodi.
La realizzazione toccherà innanzitutto al Secam che fisserà delle scadenze, un’agenda precisa e un ordine del giorno; quindi alle Conferenze episcopali regionali e nazionali, alle diocesi, invitate – quest’ultime – a celebrare Sinodi, il cui fine non è di far parlare i soli vescovi tra di loro, o i vescovi con il clero. Piuttosto, è tutto il popolo di Dio che deve essere informato e coinvolto. Sono i sinodi diocesani, dunque, le occasioni migliori per fare una programmazione puntuale.
Poiché, come già spiegato, il tema è quello della “riconciliazione, giustizia e pace” si è anche chiesto che ad ogni livello si istituiscano le cosiddette Commissioni Giustizia e Pace. A partire dalle parrocchie, perché solo muovendo da una fattiva consapevolezza della realtà comunitaria si potranno prendere decisioni mature nei settori sociali ed ecclesiali riguardanti la famiglia, la dignità della donna, la missione della Chiesa, la comunicazione sociale, l’autosufficienza.
Se i dati parlano di una crescita dei cattolici, il dialogo ecumenico e interreligioso rimane tuttavia una sfida delicata di fronte alla proliferazione delle sette, il cui fascino non accenna ad arrestarsi…
Musoni: Il Vangelo non è arrivato ovunque e là dove non ci sono i cattolici, ci sono le cosiddette “religioni tradizionali africane” che con la modernità e la contemporanea presenza, molto spesso, dei cristiani protestanti – per i quali, è noto, vale il principio del libero esame delle Sacre Scritture – hanno dato luogo a comunità ecclesiali indigene con una fisionomia di sette. Non più cristiane nel senso proprio ma nemmeno pagane.
Esperienze sincretistiche che danno vita alle “Chiese indipendenti africane”, le quali certamente non hanno una grande consistenza dal punto di vista dottrinale e disciplinare ma la cui esistenza si impregna di due significati: il primo evidenzia come l’africano sia incurabilmente religioso; il secondo sottolinea il perché ci si allontani dalle chiese ufficiali, nelle quali c’è il rischio dell’anonimato per via delle loro grandi dimensioni che non favoriscono il contatto personale.
Ci sono però già delle prime risposte da parte dei cattolici grazie alla nascita di movimenti giovanili e comunità ecclesiali di base, le cosiddette “piccole comunità cristiane”, organizzate per quartieri oppure per villaggi e nelle quali ci si ritrova per pregare e per scambiarsi informazioni sulla situazione della collettività, così da prendere iniziative comuni per aiutare chi è in difficoltà.
Sembrerebbe dunque esserci una iniziale distanza tra la Chiesa e gli africani.
Musoni: Direi piuttosto che è un problema che può presentarsi ovunque. D’altra parte il Vangelo non è nato in Europa ma nella cultura semitica, e quindi per arrivare in Occidente ha dovuto avere un qualche processo di inculturazione. Anzi, oggi che la cultura è sempre più secolarizzata e non più solo cristiana, occorre dialogare con la “modernità”. Ad ogni modo sì, per l’Africa c’è stata a volte questa mancanza di attenzione da parte dei missionari, perlopiù occidentali, che all’inizio avevano sospetti abbastanza pesanti sulla cultura africana, a volte sostenendo che non ci fosse affatto una cultura.
Ciò ha consentito di fare una sorta di tabula rasa, nel tentativo di “strappare al diavolo questi poveracci che crescevano nelle tenebre”, come dicevano i missionari del ‘500-‘800. Dalla evangelizzazione e contemporanea colonizzazione si è arrivati allora alla teologia dell’adattamento, cercando delle “pietre d’attesa”, ossia degli addentellati nella cultura africana.
L’inculturazione è stato il passo successivo per andare incontro all’eredità culturale africana, perché questa offrisse un proprio canale interpretativo del cattolicesimo ed è così, ad esempio, che si è avuta l’introduzione della danza nella liturgia. Oggi l’africano può esprimere il suo essere nella
Chiesa, anche attraverso la corporeità. L’inculturazione, in tal senso, ha aiutato a purificare i valori africani per assumerli come veicolo del cristianesimo.
In alcune culture africane la castità e la povertà non sono dei valori mentre lo è la ricchezza, segno della benedizione degli dei. Quanto alla sterilità – per lo più attribuita solo alla donna – legittima il divorzio, mentre morire senza lasciare una discendenza è segno di maledizione. Un’enfatizzazione di questo tipo di famiglia che conseguenza ha per la società?
Musoni: I cristiani e in particolare i religiosi africani vivono in una certa tensione rispetto ai valori e alle tradizioni culturali del proprio Paese. Ad esempio, la nostra concezione della vita ha un valore antropologico allargato: partendo dai più remoti antenati per arrivare fino ai nipoti attuali, la vita è intesa come “continuità”. Per l’africano – come qualcuno ha scritto – non esiste una vita che non sia concreta anche nell’oggi, quindi la trasmissione della vita tramite i figli significa anche la continuazione del vivere di chi non c’è più.
E per chi non può averli è come restare ai margini della società. In Ruanda, ad esempio, una delle maledizioni più pesanti è quella di augurare a qualcuno di morire senza sposarsi o senza avere figli, cioè senza lasciare una discendenza. Significa, praticamente, scomparire. Ma anche qui, in questa concezione africana della vita, c’è un senso religioso perché l’antenato ha ricevuto la vita da Dio e la trasmette a sua volta.
Ci sono poi però appendici negative perché per rafforzare la propria vita, ad esempio in Congo, si può toglierla agli altri (a volte si è parlato di “mangiatori di anime”). Così per la poligamia, che è vista come rafforzamento della famiglia: avere tanti figli significa avere forza lavoro ma anche forza difensiva nelle guerre tribali e, in tal senso, il matrimonio è un’alleanza con le famiglie delle spose. Una visione complessa, in altri termini, che spesso rischia di non mettere in luce l’eccellenza e il valore della vita cristiana e/o consacrata.
Proprio riguardo ai religiosi, il II Sinodo ha raccomandato un attento discernimento dei candidati alla vita consacrata mentre per gli Istituti internazionali che hanno presenze in Africa, i Padri Sinodali si sono augurati che la formazione iniziale – postulandato e noviziato – sia fatta in Africa. Perché questa richiesta?
Musoni: Personalmente penso che i religiosi e le religiose debbano imparare a gestire la naturale dimensione affettiva nella castità, intesa come celibato e verginità, dirottando il sentimento della maternità e della paternità, che per gli africani è particolarmente forte, su un altro percorso. Così, ad esempio, ci si può sentire “madri” e “padri” nel compito di educare alla fede i propri “figli”, ossia gli uomini e le donne del popolo di Dio.
Un aspetto da approfondire, quest’ultimo, perché qualche volta – senza dunque generalizzare – si sentono casi di “infedeltà al voto di castità” da parte di sacerdoti e suore. Il motivo, si può ipotizzare, ha tra l’altro radici in questa visione culturale della vita in Africa, che non sempre va nello stesso senso della visione cristiana. Serve allora una vera maturazione esistenziale tra vita cristiana e tradizione africana.
E perché non ci sia lo scontro, occorre convertirsi davvero, ma in terra africana, dove poter saggiare realmente la convinzione della vita religiosa, e farsi quindi carico delle responsabilità conseguenti alla scelta vocazionale liberamente assunta. Il dover adattarsi ad una nuova cultura, che è quella europea, e allo stesso tempo dover maturare la propria scelta vocazionale non aiuta infatti a fare dentro di sé una sintesi armoniosa.
Nell’Instrumentum laboris è scritto che le consacrate “contribuiscono a rivelare ancora di più una dimensione di Dio, mediante il loro genio femminile fatto di dolcezza, tenerezza e disponibilità”. In che modo la donna svolge questo ruolo privilegiato? E in che modo potrebbe ulteriormente contribuire alla missione evangelizzatrice?
Musoni: Sono le donne a portare avanti la famiglia in Africa, così come l’educazione. Un ruolo importante, il loro, che anche la Chiesa dovrebbe riconoscere. Sono già presenti nelle parrocchie e nelle comunità ecclesiali di base: si tratta di riconoscere ufficialmente questo ruolo valorizzandolo. E, andando oltre, si potrà contribuire in questo modo a far riconoscere e tutelare la dignità della donna nella cultura africana in generale.
Ad esempio la poligamia non onora certamente la donna, quantomeno nella visione cristiana. Quanto allo sfruttamento, è risaputo il ruolo subalterno delle spose nell’organizzazione familiare, che può essere invece riveduto per una collaborazione che se non è paritaria, perlomeno rispetta le personali capacità. La Chiesa, secondo l’augurio dei Padri Sinodali, dando alla donna delle responsabilità anche negli organi di decisione, potrebbe offrire l’esempio più bello.