SPECIALE TEOLOGIA DEL CORPO: La cultura della vita

La teologia del corpo e la cultura della vita

Share this Entry

ROMA, sabato, 12 novembre 2011 (ZENIT.org).- Come secondo testo nel nostro Speciale, riportiamo la conferenza “La teologia del corpo e la cultura della vita”, di Giorgia Brambilla, professore a contratto presso l’APRA e redattrice della rivista Studia Bioethica.

***

Essere al servizio della vita non è per noi un vanto, ma un dovere,
che nasce dalla coscienza di essere «il popolo che Dio si è acquistato
perché proclami le sue opere meravigliose» (1 Pt 2, 9).
Nel nostro cammino  ci guida e ci sostiene la legge dell’amore: 
è l’amore di cui è sorgente e modello il Figlio di Dio fatto uomo.

(Evangelium Vitae n.79)

§ 1. L’emergenza corpo

Il corpo è cifra di cultura e genera cultura. “Dimmi come consideri il corpo e ti dirò chi sei”, potremmo dire parafrasando un vecchio slogan pubblicitario. Dal modo con cui una società valuta il corpo si intravede la percezione che essa ha di sé e il valore che attribuisce alla persona umana1. Ma del resto, la consapevolezza della nostra condizione corporea è il punto di partenza di ogni autentico sviluppo. Quando qualcuno vuole trasformare se stesso deve cominciare dal proprio corpo. Allo stesso tempo, un rapporto negativo con la propria corporeità equivale ad un rapporto negativo, per non dire distruttivo, con se stessi e con gli altri.

Ci si può chiedere, a riguardo, se tanti fenomeni di distruzione come la tossicodipendenza, il suicidio, le violenze sessuali (..), ecc. non dipendano in ultima analisi – seppur in diverso modo e misura – da una situazione di disarmonia “soma-psyche” (..).

Chi non rispetta il proprio essere-in-un-corpo e la sua propria unità spirituale-corporea difficilmente sarà in grado di rispettare la condizione corporea degli altri (..)2.

Parlare di corporeità non è mai, infatti, parlare di individualità, in quanto è proprio la condizione corporea a manifestare un aspetto fondamentale della persona umana: il suo essere come esse ad, un essere costitutivamente relazionale. Il corpo è il campo espressivo dell’io, è ciò che ci permette di manifestarci agli altri ed è, quindi, il luogo del riconoscimento.

L’essere umano, scrive Edith Stein3, sperimenta l’esistenza e l’umanità negli altri, ma anche in se stesso. In tutto ciò che l’essere umano sperimenta fa anche esperienza di sé. L’esperienza che egli fa di se stesso è totalmente diversa da quella che fa di tutto il resto. La percezione esteriore del proprio corpo non è il ponte per l’esperienza del proprio io. Il corpo viene sicuramente percepito esteriormente, ma questa non è l’esperienza fondamentale e si fonde con la percezione dell’interiorità, con la quale ogni uomo sente il corpo e sé in esso. Dunque il corpo umano differisce dal corpo non-umano, in quanto esteriorizzazione di qualcosa di essenzialmente interiore. Nel corpo umano, l’aspetto esteriore non è un termine dove finisce la nostra percezione, ma ci spinge oltre.

Eppure, non è possibile non accorgersi che la società attuale si trova di fronte ad una eclatante contraddizione. Di primo acchito, tutto farebbe pensare alla cultura occidentale come ad una cultura “somatocentrica”. Facendo un passo indietro, si pensi, ad esempio, alla contestazione giovanile del ’68 che denunciava il “corpo-oggetto”, finendo, poi, col ridurre il corpo ad un vero e proprio ingranaggio della società consumistica4. Per non parlare della presunta “riappropriazione del corpo” della donna per opera del femminismo, che, scivolando in bieche strumentalizzazione, ha perso di vista il fatto che la valorizzazione della donna, della sua corporeità, ma anche del suo ruolo intellettuale e sociale non può non passare attraverso una riappropriazione del corpo anche da parte dell’uomo e della società, dimenticando così la reciprocità dei due sessi. Infine, non possiamo non menzionare un vero e proprio “culto del corpo” che passa attraverso il boom di centri benessere, la varietà di discipline orientali che promettono un corpo rilassato, la grande offerta di diete di ogni tipo affiancate da aitanti personal trainer.
Uno sguardo più attento ci mostra, però, che la ricerca spasmodica della cura del proprio corpo è accompagnata da un prepotente rifiuto di esso, specie se malato o anche semplicemente “acciaccato” e che la visione di noi stessi come persone sia attraversata da una sottile, ma inequivocabile, visione dualistica che ci strappa da quel Lieb5, come corpo vissuto. Vediamo costantemente un corpo strumentalizzato dai media per veicolare messaggi erotici, violenti o diseducativi. Siamo bombardati di immagini che meccanicizzano il corpo contribuendo a farci pensare l’uomo nei termini di una specie di “macchina” vivente in cui non c’è niente di “misterioso” e il cui valore dipende direttamente dalle sue finalità.

Ci chiediamo: davvero ci siamo riappropriati del corpo? O forse – come si chiede Spinsanti6 – questa quasi ossessiva ricerca del corpo non è altro che un fenomeno illusorio paragonabile a quello dell’“arto fantasma”, per cui mai la percezione di un arto è così forte come dopo la sua amputazione?

Il punto è che si cerca di recuperare il valore del corpo attuando un’opposizione con quanto nella persona non è corporeo, in termini di spiritualità, affettività, libertà, ecc. Riteniamo, invece, che non sia possibile un’autentica riappropriazione del corpo se non all’interno di un’altrettanto autentica riappropriazione di se stessi come persone. Una visione dualistica, schizofrenica della persona umana, che valorizzi solo una dimensione – in questo caso quella corporea – finisce per non rispettarla.

§ 2. Corporeità e cultura della vita

Questa premessa era fondamentale per comprendere «l’inscindibile legame che intercorre tra la persona, la sua vita e la sua corporeità»7 a costruzione di una vera e propria “cultura della vita”.

Dobbiamo partire da una teologia del corpo per arrivare a una pedagogia del corpo. Un’educazione, anzi un’autoeducazione dell’uomo. Ciò acquista una particolare attualità per l’uomo contemporaneo, la cui scienza nel campo della biofisiologia e della biomedicina è molto progredita. Tuttavia questa scienza tratta l’uomo sotto un determinato “aspetto” e quindi è piuttosto parziale, anziché globale.

Conosciamo bene le funzioni del corpo come organismo (..), ma tale scienza, di per sé, non sviluppa ancora la coscienza del corpo come segno della persona, come manifestazione dello spirito. Tutto lo sviluppo della scienza contemporanea, riguardante il corpo come organismo, ha piuttosto il carattere della conoscenza biologica, perché è basato sulla disgiunzione, nell’uomo, di ciò che in lui è corporeo da ciò che è spirituale. Servendosi di una conoscenza così unilaterale delle funzioni del corpo come organismo, non è difficile giungere a trattare il corpo, in modo più o meno sistematico, come oggetto di manipolazioni; in tal caso l’uomo cessa, per così dire, di identificarsi soggettivamente col proprio corpo, perché privato del significato e della dignità derivanti dal fatto che questo corpo è proprio della persona. Ci troviamo qui al limite di problemi, che spesso esigono soluzioni fondamentali, le quali sono impossibili senza una visione integrale dell’uomo8.

Separare, per così dire, il corpo dalla persona significa separare l’essere soggettivo dalla realtà di fatto, non ritenendo sufficiente identificare la persona con la sua evidenza fisica di essere appartenente al genere umano. L’esito di questa dicotomia è la riduzione del corp
o ad oggetto senza soggettività e valore intrinseco; al corpo oggettivizzato è, poi, riconosciuta la possibilità di “sostenere” o meno la soggettività personale, ossia la manifestazione delle qualità che caratterizzano l’essere persona. Il problema è che se la persona non è il suo corpo, allora la distruzione della vita del corpo non è di per sé un attacco al bene intrinseco della persona umana. Così la vita del nascituro, del neonato, degli individui in “stato vegetativo persistente” e di molti altri, non sono più inviolabili. Anzi, il corpo, in questa visione, può diventare una prigione o un peso intollerabile sulla persona e, di fatto, proteggere il “diritto a morire”, procurando l’eutanasia o assistendo il suicidio, equivarrebbe a fare un favore alla persona9.

È come dire che sussiste la differenza tra un corpo che è il corpo di qualcuno e un corpo che può diventare il corpo di qualcuno. Dunque, ci sarebbe differenza tra la potenzialità di diventare una persona e le potenzialità di una persona. Riconoscere gli umani come entità spazio-temporalmente estese significherebbe, allora, vedere nella loro totale incarnazione loro stessi, solo finché tale incarnazione mantiene le capacità che costituiscono il substrato fisico degli agenti morali10.

Comprendiamo, quindi, che nel dibattito attuale sull’identità dell’uomo svolge una funzione primaria il chiedersi: l’uomo è riconducibile alla sua corporeità oppure la trascende? Tale questione mette in luce come il binomio corpo umano-persona umana ponga la corporeità ora come ostacolo, dal mito platonico all’autorealizzazione umana, ora come unica concreta condizione a cui ricondurre ogni manifestazione dell’umano. La filosofia contemporanea, dopo la lunga stagione del dualismo cartesiano, ha indotto a pensare un’anima spirituale, o meglio, ad un pensiero (la res cogitans) presente in un corpo materiale (la res extensa), posizione diametralmente opposta a quella aristotelico-tomista e cristiana che nega tale dualismo. Se, infatti, secondo questa posizione, l’anima è forma del corpo, essa è per sua natura unita al corpo e, per sua natura, non può, addirittura, stare senza il corpo di cui è atto, forma e determinazione. Se teniamo ferma questa impostazione, mentre è possibile distinguere il “corpo-oggetto” e il “corpo-vissuto”, tale distinzione non vuole essere una separazione dei due termini. Pur potendo, infatti, distinguere l’io dal suo corpo, tuttavia ciò non deve far pensare che si possa separare l’io dal suo corpo. Nessuno può incontrare, infatti, un altro senza incontrare anche il suo corpo. Persino, infatti, per interpretare gli atteggiamenti altrui come frutto dell’autocoscienza occorre interpretare il comportamento altrui, cioè entrare in merito della corporeità dell’altro. Ed è il rimando alla corporeità che dà spessore all’autocoscienza umana, per il semplice fatto che senza il riferimento al corpo altrui non c’è possibilità di alcuna relazione con l’altro: l’altro si presenta a me davanti a tutto il suo corpo, anche quando non è soltanto un corpo.

Del resto, l’io come corpo è proprio ciò che è violabile dalla volontà altrui: per questo nessuna tutela dell’io, della sua dignità e integrità può avvenire se non si tutela e si rispetta anche la propria e l’altrui corporeità. In fondo, qualsiasi prassi medica che operi sul corpo umano si giustifica in quanto tende proprio a salvaguardare l’esistenza e la salute di quell’io che, pur non essendo solo corpo, soffre con il suo corpo e per il suo corpo. Non sono mai le astratte qualità personali ad avere bisogno di interventi e di cure, ma le persone corporee.

Ora, non è necessaria una raffinata antropologia per poter affermare che il riferimento alla continuità corporea è ciò che empiricamente ci permette di riconoscere qualcuno e di porre il rispetto di quell’esistenza come condizione fondamentale per ogni riflessione morale e per ogni diritto11. E questo perché la corporeità dell’uomo, a differenza di quanto affermerebbe la tesi dualista, non è un’“appendice” che in qualche modo si somma alla sua essenza umana. Fin dal concepimento, quando inizia l’essere umano, l’esistenza umana e la sua incarnazione sono legate l’una all’altra. Questo modo specifico di esistere storicamente diversifica l’uomo dagli altri esseri. Lo spirito, in quanto principio costitutivo dell’essere umano, è originariamente incarnato, e in questo modo dà origine alla corporeità umana. L’uomo, quindi, grazie alla sua spiritualità e all’incarnazione, realizza la storia che semmai l’animale potrà attuare. L’uomo è, per essenza, trasformatore della natura e plasmatore della storia12.

Ora, sottolinea Pessina, «che cosa mi permette di dire che corpi umani differenti da me, corpi di uomini malati deformi, corpi percepibili al microscopio, come nel caso dello stadio embrionale, corpi inerti e privi di palesi segni di coscienza sono persone come me?»13. Prendere sul serio il semplice dato empirico della corporeità significa comprendere che la disarmante semplicità dell’argomento, con cui si afferma che l’uomo è sempre e comunque colui che nasce da altri uomini, è il punto di partenza e la condizione per procedere a qualsiasi ulteriore definizione di uomo e, quindi, a qualsiasi tematica bioetica.

Alla luce di queste considerazioni, la definizione di persona non è altro, allora, che la determinazione concettuale dell’essere umano realmente esistente, ovvero è la proposizione volta ad esprimere, verbalmente e linguisticamente, e a tematizzare, teoreticamente ed astrattamente, il significato del termine, elaborato a partire dalla considerazione della realtà14. In altre parole, la definizione di persona è lo sforzo speculativo di precisazione e di esplicitazione dei caratteri generali e delle proprietà specifiche dell’essere umano esistente, che si presenta a noi, hic et nunc, mediante il suo corpo.

Vediamo l’essere umano non solo come essere umano, non solo per quello che ha in comune con gli altri esseri umani e neanche solo per la posizione che occupa nell’ordine sociale. Con maggiore o minor forza, già al primo incontro ci parla di ciò che egli stesso è come persona individuale e di come è, della sua essenza, del suo carattere. Ci parla con i tratti del suo volto, con il suo sguardo e le espressioni del viso, con il timbro della sua voce e mentre ci parla ci tocca interiormente. Gli esseri umani sono persone, che hanno una peculiarità individuale e la concezione che hanno l’uno dell’altro non è solo una questione di ragione, piuttosto è una relazione interiore15.

Il corpo non è semplicemente qualcosa che l’uomo possiede; egli esiste nel suo corpo, come persona totale. Il corpo è il luogo espressivo e attuativo dell’essere umano ed è in esso che prendono forma e si concretizzano le sue potenzialità. Esso ha un’essenziale dimensione epistemologica, in quanto è in esso che l’uomo conosce e si conosce. Non esiste autoconoscenza ed eteroconoscenza umana che non si qualifichi in rapporto alla somaticità. La corporeità è il campo espressivo e attuativo dell’io personale. Completamente il corpo partecipa alla realizzazione totale della persona, la rivela e la compie ed è il primo ambito entro il quale l’essere umano sperimenta e compie la sua esistenza16. La struttura del suo corpo permette all’uomo di essere autore di un’attività prettamente umana, in cui il corpo esprime la persona. Il corpo è, perciò, in tutta la sua materialità, in certo qual modo penetrabile e trasparente, tanto da rendere evidente il suo essere uomo e la sua singolarità.

§ 3. La cultura della vita che si cos
truisce sulla valorizzazione della corporeità

La “rivelazione del corpo” ci aiuta in qualche modo a scoprire la straordinarietà di ciò che è ordinario. L’umana esperienza del corpo, così come la scopriamo nei testi biblici, si trova certo alla soglia di tutta l’esperienza “storica” successiva. Essa, tuttavia, sembra anche poggiare su di una profondità ontologica tale che l’uomo non la percepisce nella propria vita quotidiana, anche se nel contempo, e in certo modo, la presuppone e la postula come parte del processo di formazione della propria immagine17.

Nell’odierno contesto sociale, segnato da una drammatica lotta tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte”, occorre far maturare un forte senso critico,capace di discernere i veri valori e le autentiche esigenze18. I dati antropologici sono evocati in riferimento alla persona umana, che si manifesta e si esprime attraverso il proprio corpo. Perciò la legge morale naturale esprime e prescrive le finalità, i diritti e i doveri che si fondano sulla natura corporale e spirituale della persona umana. Ne deriva che ogni intervento sul corpo, coinvolgendo la persona stessa, comporta un significato morale e deve concorrere al bene integrale della vita umana, nel rispetto della sua dignità.

Giovanni Reale si chiede «come mai si è giunti a una dimenticanza della figura dell’uomo come persona? Si è giunti a tale dimenticanza per lo stesso motivo per cui sono caduti in oblio i grandi valori e si è diventati vittime del nichilismo»19. Ma del resto, l’annuncio di Nietzsche della “morte di Dio” è sempre stato correlato alla promessa della nascita dell'”oltre-uomo”, di colui che avrebbe potuto ritrovare in sé la risposta all’ansia di infinito che non può essere cancellata. Una cultura della vita, allora, ha oggi il compito di far scoprire il senso della finitezza umana, di ridirne la verità. Perché è dentro la finitezza che si manifesta la verità della vita e cioè che Dio partecipa della storia dell’uomo sia perché lo costituisce qui ed ora nella sua libertà, sia perché nell’Incarnazione si annuncia la “chiave dell’interpretazione dell’esistenza”20.

Una ricerca sistematica nel testo dell’Evangelium Vitae (EV) della parola “verità” e dei termini imparentati ci mostra in modo palese che il Santo Padre pone la verità come un elemento essenziale della teoria e la pratica della cultura della vita. Ci parla del valore fondamentale della verità nella diffusione del Vangelo della vita, perché è soltanto attraverso un profondo compromesso con la verità che l’uomo riesce a scoprire e a diffondere il rispetto per l’umanità di ogni essere umano. Dice il Papa, tra altre cose, che l’apertura sincera alla verità è una condizione necessaria affinché all’uomo venga rivelato il valore sacro della vita umana[EV 2]; che tutto rapporto sociale autentico deve basarsi sulla verità[EV 57]; che ora, più che mai, è necessario chiamare le cose per il suo nome, senza cedere alla tentazione dell’autoinganno[EV 58]; che nella storia sono stati commessi crimini in nome della verità[EV 70]; che la cultura nuova della vita è il frutto della cultura della verità e dell’amore[EV 77]; che il lavoro dei costruttori della cultura della vita deve esprimere la verità compiuta sull’uomo e sulla vita[EV 95]; che nei mezzi di comunicazione sociale deve essere rispettata una scrupolosa fedeltà alla verità[EV 98]21.

Del resto, la comprensione della totalità dell’uomo indica anche l’improrogabilità della ricerca della «verità dell’ethos dell’uomo in quanto uomo»22. Per questo, Veritatis Splendor scrive, in merito al posto occupato dal corpo umano nelle questioni della legge naturale:

La persona, mediante la luce della ragione e il sostegno della virtù, scopre nel suo corpo i segni anticipatori, l’espressione e la promessa del dono di sé, in conformità con il sapiente disegno del Creatore. È alla luce della dignità della persona umana — da affermarsi per se stessa — che la ragione coglie il valore morale specifico di alcuni beni, cui la persona è naturalmente inclinata. E dal momento che la persona umana non è riducibile ad una libertà che si autoprogetta, ma comporta una struttura spirituale e corporea determinata, l’esigenza morale originaria di amare e rispettare la persona come un fine e mai come un semplice mezzo, implica anche, intrinsecamente, il rispetto di alcuni beni fondamentali, senza il quale si cade nel relativismo e nell’arbitrio23.

Dunque, si chiude il cerchio: corpo, verità, cultura della vita. L’antropologia enunciata permette di cogliere la corporeità in tutta la sua spettacolarità. Di fronte al nostro corpo non si finisce mai di stupirsi. «Mi hai fatto come un prodigio» recita il salmista (Sal 139, 13). Per entrare in questa contemplazione, si deve risvegliare in noi il senso di meraviglia e di ammirazione per quello che siamo nella nostra concreta corporeità.

Scrive Thomas:

Se vuoi vivere di sorpresa in sorpresa, eccola qua la fonte di tutte quante. Una cellula si differenzia per produrre il massiccio apparato di miliardi di cellule, che ci è stato dato per pensare, immaginare e, come in questo caso, per rimanere stupiti davanti a una così formidabile sorpresa. Tutta l’informazione necessaria per imparare a leggere e a scrivere, per suonare il pianoforte, per discutere di fronte ad un Comitato del Congresso, per attraversare la strada in mezzo al traffico, o per eseguire quell’atto meravigliosamente umano come è stirare un braccio e appoggiarsi ad un albero: tutto questo è contenuto in quella prima cellula. In lei c’è tutta la grammatica, tutta la sintassi, tutta l’aritmetica, tutta la musica […]. nessuno ha la più minima idea di come succede questo, ma la verità è che niente in questo mondo sembra più interessante. Se prima di morire qualcuno dovesse trovare la spiegazione di questo fenomeno, io farei una pazzia: prenderei in affitto uno di quegli aerei che possono scrivere segnali sul cielo, anzi, una squadra completa di quegli aerei, e li spedirei per i cieli del mondo a scrivere segni di ammirazione, uno dopo l’altro, fino a non finire tutti i miei soldi”24.

1 *Dottore in bioetica – Professore a contratto presso Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” – Cultore della materia presso Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”.

Cfr. C.Rocchetta, Per una teologia della corporeità, Edizioni Camilliane, Torino, 1993, p.10.

2
 Ibidem.

3 Cfr. E.Stein, La struttura della persona umana, Città Nuova, Roma, 2000, pp.69-70.

4 Cfr. C.Rocchetta, op.cit., p.70.

5 La fenomenologia husserliana ha introdotto nel pensiero contemporaneo la distinzione tra “corpo-oggetto” (Körper) e “corpo-vissuto” (Lieb). Il primo termine corrisponde al corpo risultante da una considerazione puramente esterna, il secondo al corpo reale in quanto sperimentato dal soggetto. Questa distinzione permette di riflettere sul fatto che, allora, il corpo umano è lontano dall’essere una “cosa”, bensì appartiene all’esperienza del nostro io. L’antropologia filosofica attuale riprende questa distinzione coniando due specifiche accezioni: corpo e corporeità. “Corpo” richiama la scissione classica dell’uomo in corpo e anima, indicando, nel linguaggio comune, una ‘parte’ della persona umana, ovvero la componente corporea in quanto distinta da quella psichica. “Corporeità” indica, invece, l’intera soggettività umana sotto l’aspetto della sua condizione corporea in quanto costi
tutiva della sua identità personale. È grazie all’esperienza del Leib che ci rendiamo conto che il nostro corpo siamo noi stessi, piuttosto che trovarci davanti ad esso come davanti a qualcosa da possedere, da vestire e da sfruttare. Su questo si vedano: D.Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano, 1969, p.133 e P.Prini, Il corpo che siamo, SEI, Torino, 1991, p.67.
6 Cfr. S.Spinsanti, Il corpo nella cultura contemporanea, Queriniana, Brescia, 1983, pp.52-66.

7 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Evangelium vitae”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1995, n.81.

8 Giovanni Paolo II, Pedagogia del corpo, ordine morale, manifestazioni affettive, Udienza Generale, 8/4/1981, in “Insegnamenti di Giovanni Paolo II”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, vol. IV/1 (1981) pp.903-911.

9 W.E.May, Bioetica e Teologia: quale legame?, in Atti del Congresso Internazionale della FIBIP “Quale personalismo?”, Roma, Giugno 2003, in “Medicina e Morale”, 2004/2, p.285.
10 Cfr. Ibidem, pp.173-175.
<br>11 Cfr. A.Pessina, Bioetica, L’uomo sperimentale, Mondadori, Milano, 1999, pp.90-93.

12 Cfr. R. Lucas Lucas, Statuto antropologico dell’embrione umano, in AA.VV., Identità e statuto dell’embrione umano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1998, p.168.

13 A.Pessina, op.cit.,p.92.

14 L.Palazzani, Il concetto di persona tra bioetica e diritto, Giappichelli, Torino, 1996, p.224.

15 Cfr. E.Stein, op.cit., pp.68-69.

16 C.Rocchetta, op.cit.,p.118.

17 Giovanni Paolo II, I significati delle primordiali esperienze dell’uomo, Udienza generale, in “Insegnamenti di Giovanni Paolo II”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, Vol. II/2 (1979) 1378-1385.

18 Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica “Evangelium Vitae”, op.cit., n.95.

19 Cfr. G.Reale-T.Styczeń (edd.), Karol Wojtyla. Metafisica della persona, Bompiani, Milano, 2005.

20 R.Guardini,  Sul limite della vitaLettere teologiche a un amico, Vita e Pensiero, Milano, 1979, p. 42.

21 Cfr. G.Herranz, La cultura della vita: un impegno affermativo, in Atti della VII Assemblea della PAV, in http://www.academiavita.org/index.php?option=com_content&view=article&id=196%3Ag-herranz-la-cultura-della-vita-un-impegno-affermativo&catid=52%3Aatti-della-vii-assemblea-della-pav-2001&Itemid=66&lang=it [coll.eff. il 9/10/2011].

22 G.Russo, L’uomo e la ricerca di senso in bioetica, in G.Russo (ed.) Bioetica fondamentale e generale, SEI, Torino, 1995, p.590.

23 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Veritatis Splendor”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1993, n.48.

24L.Thomas, The Medusa and the Snail. More notes of a Biology Watcher, Bantam Books, New York, 1980, pp.130-131.

Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione