di Elisabetta Pittino
ROMA, sabato, 3 marzo 2012 (ZENIT.org) – Leggi Scorsese, pensi ad uno dei grandi registi contemporanei, pensi a violenza, crudezza, redenzione. Ed ecco Hugo Cabret: vincitore di 5 premi Oscar su 11 nomination, presentato in anteprima in Italia alla 6ª edizione del Festival Internazionale del Film di Roma.
Uno Scorsese nuovo – lui stesso Oscar come miglior regista – ma non per il virtuosismo: la padronanza della macchina da presa con cui gioca a meraviglia, la capacità di raccontare che sono sempre le stesse, sempre migliori. È diverso dalle precedenti opere, soprattutto le più recenti, in cui Scorsese rifletteva sul male, sul senso di colpa, sulle contraddizioni della società. Se sia il capolavoro assoluto del regista si vedrà, di sicuro è l’opera più personale, nella quale convergono insieme gli elementi essenziali del suo cinema: invenzione, sperimentazione, suggestione, evocazione, ma anche ricerca e memoria.
Hugo Cabret, il protagonista della storia, è dietro il tempo. “Il tempo è tutto”, dice lo zio ubriacone, introducendolo nel mondo degli orologi della stazione. Hugo è un bambino orfano, figlio di un orologiaio (Jude Law), che si occupa della manutenzione degli orologi della gare Montparnasse di Parigi, dove abita di nascosto. È questo il primo messaggio rivolto al cinema che, in qualche modo, è padrone del tempo. Il saper raccontare è la qualità essenziale di un film che lo fa durare sempre.
Hugo conosce Isabelle, orfana pure lei, ma figlia adottiva del giocattolaio, Georges Méliès. Isabelle strappa Hugo alla solitudine e iniziano insieme un’avventura. Siamo in una Parigi anni Trenta fascinosamente ricostruita grazie alla fotografia satura di Robert Richardson e alle scenografie imponenti di un magnifico Dante Ferretti che sembra un allievo di Mèliès.
“Il cinema era il nostro posto speciale – dice Hugo a Isabelle raccontandole del padre, introducendola nella magia del cinema – per non sentire la mancanza di mamma”. E qui c’è il vero Scorsese che ha passato la sua infanzia dentro i cinema, insieme al padre.
Hugo ha un talento per la meccanica, sa aggiustare le cose. Nel suo nascondiglio, tra gli ingranaggi della stazione, ha un automa, l’ultima cosa rimastagli del padre, da aggiustare. “Credevo che se l’avessi aggiustato non mi sarei sentito così solo”, dice Hugo, e, con l’aiuto di Isabelle, ci riesce.
Qui si snoda un’altra avventura. “Il cinema è un nuovo mezzo per raccontare delle storie”, spiega il bibliotecario Labysse (Christopher Lee) ai due bambini: “I film avevano il potere di catturare i sogni”. Scoprono l’altra faccia di Georges Méliès, oggi giocattolaio, ieri il primo cineasta, che ha girato oltre 500 film.
Di fronte agli adulti, un po’ egoisti e chiusi nel loro dolore, come Méliès e la moglie Jeanne, nelle loro regole vuote come il poliziotto, il bravo Sacha Baron Cohen, o nella loro deriva come lo zio di Hugo, o un po’ indifferenti come gli altri, sono due bambini, segnati dal dolore, a risvegliarli dal loro torpore e a richiamarli al senso. L’inno al cinemaè un paradigma per richiamare l’uomo, lo spettatore, al senso della vita, e a ritornare bambini, nel senso evangelico del termine.
“Ogni cosa ha uno scopo – dice Hugo Cabret – forse per questo mi fanno tristezza i meccanismi che si rompono… Se perdi il tuo scopo è come se fossi rotto”. E non è solo al cinema che si rivolge Scorsese.
“Mi chiedo quale sia il mio scopo – continua Isabelle – forse se avessi conosciuto i miei genitori lo saprei”.
“Mi piace immaginare che il mondo sia un unico grande meccanismo – spiega Hugo a Isabelle -. Sai, le macchine non hanno pezzi in più. Hanno esattamente il numero e il tipo di pezzi che servono. Così io penso che se il mondo è una grande macchina, io non posso essere in più, devo essere qui per qualche motivo. E questo deve valere anche per te!”.
La centralità della famiglia, quella vera, viene fuori con semplicità, ma con forza. Scorsese, cattolico, newyorkese, figlio di figli di immigrati italiani, che si porta dietro innumerevoli fallimenti matrimoniali, non ha dubbi.
Mentre l’Ispettore ferroviario, anche lui orfano, afferma con la disperazione e il cinismo della nostra società che si può “sopravvivere senza una famiglia perché non ne hai bisogno”, i ruoli vengono ritrovati.
Soprattutto il ruolo del padre. “Io non capisco perché mio padre è morto, perché sono solo – dice Hugo – e questa è la mia unica occasione di scoprirlo”. La ricerca di Hugo del proprio padre ha risvegliato Georges Méliès, lo ha strappato dall’oblio; Mèliès si ritrova, riscopre il suo essere padre, del cinema certo, ma non solo. “Lui fa parte della mia famiglia”, dice il ritrovato Melies e accoglie Hugo come figlio adottivo. Ritorna al cinema, ritorna alla vita.
In tal senso l’ultima opera di Scorsese, adattamento del romanzo di Brian Selznick La straordinaria invenzione di Hugo Cabret del 2007, è molto più che avventura.
Sono innumerevoli rimandi e le citazioni più o meno esplicite (non solo dei film di Méliès, ma dai fratelli Lumiére con L’arrivo del treno alla stazione, ad Harold Lloyd, al mondo di Narnia).
«Dentro a questa storia c’è Dickens, Truffaut, Méliès – ha detto Selznick, rampollo di una delle più antiche famiglie del cinema hollywoodiano – ma anche Jules Verne e Jean Vigo». “Ho visto le mie pagine prendere vita e diventare qualcosa di diverso: un’opera d’arte, firmata da uno dei più grandi maestri del cinema”, ha affermato Selznick.
È il primo film di Scorsese in 3D, in cui il regista abbandona il dialogo classico per passare alla tecnologia, tuttavia tridimensionalità o computer grafica non sono un limite per il regista che ci regala inquadrature originali e lunghi e spettacolari piani sequenza.
Un’estetica “perfettissima”. Non solo il 3D secondo Scorsese riesce a dare profondità alle immagini, ma nei primi piani, emergendo dallo schermo, i personaggi si fanno più vicini allo spettatore, costringendolo a un legame più forte, quasi intimo.
Ecco il cinema fedele a se stesso: l’avanguardia delle nuove tecnologie applicate ad un film dal sapore antico e nostalgico che racconta la storia delle origini della settima arte, dell’immaginifico Georges Méliès, un ispirato Ben Kingsley, azzeccatissimo nella parte del riparatore di giochi e genio del cinema, che per primo rese possibile un Viaggio nella Luna (1902).
Méliès inventa la fiction, poi gli effetti speciali, poi un certo montaggio, la dissolvenza e persino il colore anche se in modo empirico; colorando a mano i fotogrammi, inventa anche la fantascienza. Soprattutto inventa il sogno.
Un invito alla conoscenza, al piacere ingenuo e stupefacente della scoperta proprio dei bambini – Hugo e Isabelle, i bravi Asa Butterfield e Cloë Grace Moretz – che qui sono protagonisti.
Hugo Cabret è un inno alla settima arte, una dichiarazione d’amore al cinema da parte di Scorsese e nel contempo un richiamo forte perché ritrovi la sua identità. Scorsese è un po’ Hugo Cabret, un po’ Georges Méliès, un po’ Labysse, un po’ Isabelle.
Curiosità: tra i produttori c’è Johnny Depp, che ha anche una piccola parte del film… trovatelo!
È una favola, ma come dice Chesterton le favole sono una delle espressioni più vere della realtà.
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Per prenotare il DVD, disponibile dal 1 maggio 2012, si può cliccare sul seguente link:
http://www.amazon.it/Hugo-Cabret/dp/B007708Z9Y/ref=sr_1_4?ie=UTF8&qid=1330787111&sr=8-4&tag=zenilmonvisda-21