di Paolo Lorizzo*
ROMA, mercoledì, 12 settembre 2012 (ZENIT.org).- Un vento d’oriente ha spesso soffiato su Roma, fin dalla sua nascita. La cultura greca, presente fin dall’VIII secolo a.C. per scopi puramente commerciali nell’area di quello che poi diverrà il Foro Boario (i resti dell’Ara Massima di Ercole al di sotto della chiesa di S. Maria in Cosmedin stanno a testimoniarlo) è solo il primo di una serie di elementi culturali di tipo orientale che caratterizzeranno la storia di Roma antica. Costruita tra l’Aventino e il Celio, in quella porzione di territorio nota come ‘Piccolo Aventino’ sorge il complesso di S. Saba, un tempo formato da una chiesa e da un monastero, completamente isolato rispetto al nucleo urbano fino a quando, con il nuovo piano regolatore di Roma del 1909, venne edificato un nuovo quartiere (a cuila Basilicadà il nome) e il complesso religioso integrato ad esso.
L’antica costruzione prende il nome da S. Saba, personaggio di grande rilevanza storico-religiosa che tutt’oggi rappresenta uno dei capisaldi della cultura cristiana orientale. Di famiglia benestante, Saba ebbe la fortuna di studiare e formarsi nel contesto religioso monasteriale di Flavianae nei pressi della cittadina di Cesarea in Cappadocia e di maturare la consapevolezza di voler trascorrere una vita nella preghiera e nella meditazione. A soli 18 anni infatti giunse in Terrasanta e conobbe le asperità della vita anacoretica e la sua guida spirituale identificato nel monaco Eutimio, che lo iniziò ai concetti della religiosità più austera e all’importanza del vivere comune e della condivisione. Lui stesso, in seguito alla morte del maestro, ne fonderà una stabilendosi in una grotta nei pressi di Gerusalemme, intorno alla quale si formerà nel tempo una piccola comunità fino addirittura a raggiungere il numero di centocinquanta monaci. Questa comunità detta ‘lavra’ (dal greco ‘cammino stretto’) rappresentò per Saba uno dei momenti di grande crescita spirituale, basandosi sui principi del ritiro spirituale e dell’anacoretismo durante la settimana e sull’incontro e la comunione durante il sabato e la domenica per la condivisione eucaristica.
Nel 492 Saba venne ordinato sacerdote ‘archimandrita’ (a capo di tutte le unità monastiche anacoretiche palestinesi), un personaggio austero, talvolta severo ed intransigente, elementi che lo costrinsero ad allontanarsi per un periodo dalla sua comunità salvo tornarci su richiesta del patriarca. Morì nel 532 ultra novantenne e con la fama di aver compiuto lo straordinario miracolo contro i danni prodotti da una grande siccità.
L’edificio romano venne a lui dedicato alla luce delle grandi imprese compiute durante la sua vita, probabilmente l’unico luogo dell’area che venne abitato per secoli riutilizzando antiche preesistenze di epoca romana. Si ipotizza infatti che alcuni monaci eremiti, fuggiti dalla Palestina nel VII secolo, perché dilaniata da guerre e carestie, abbiano riadattato le rovine di una caserma della IV coorte dei vigili, situata in un luogo strategico per il controllo del territorio circostante. Prima ancora, nel VI secolo, era stato costruito un complesso formato dalla chiesa e dal monastero, la cui tradizione vuole sia stato il rifugio per un certo periodo di San Gregorio Magno e di sua madre Santa Silvia.
A partire dall’VIII secolo e per tutto il secolo successivo il complesso di S. Saba divenne il monastero più importante di Roma, soprattutto perché venne considerato il tramite ideale tra l’Autorità Ecclesiastica e Costantinopoli, mediante l’invio di ambasciatori (ruolo spesso ricoperto dagli stessi egumeni o abati). Ricoprire questo importante incarico diplomatico rappresentò per il complesso un periodo di grande ricchezza, che portò all’abbellimento degli interni con arredi mobili ed immobili di grande pregio. Il declino avvenne a partire dall’XI secolo quando la comunità di monaci sabaitici venne sostituita dapprima dai benedettini di Montecassino e successivamente dai cluniacensi attraverso l’applicazione del rigido protocollo della riforma religiosa cluniacense.
L’edificio religioso che ammiriamo oggi risale al XII/XIII secolo sorto sulle strutture della chiesa precedente, i cui resti sono attualmente visibili nei sotterranei. Da allora furono numerosi gli interventi di ristrutturazione e restauro che ne alterarono quasi integralmente l’aspetto originario di epoca medievale. E’ il caso del portico del XVIII secolo che occlude completamente la facciata della chiesa e che ha sostituito una più armoniosa costruzione fatta di colonne al piano terra e di bifore al piano superiore, irragionevolmente sostituiti rispettivamente da pilastri e finestrelle. Gli interventi di restauro del 1901 e del 1943, atti a ripristinare l’antico aspetto, non hanno però alterato il contesto architettonico d’ingresso, lasciando probabilmente in piedi una ‘bruttura’ che doveva essere migliorata. L’interno, diviso in tre navate da quattordici colonne di riuso, riassume quel clima di misticismo proprio delle prime comunità monastiche che soggiornarono nel luogo.
Il complesso venne acquisito nel 1573 dal Collegio Germanico Ungarico ed è tutt’ora gestito dai gesuiti.
* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.