L'ottimismo della fede contro i profeti di sventura

A 50 anni dal Concilio Vaticano II

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di Bruno Forte, 
Arcivescovo di Chieti-Vasto 

ROMA, lunedì, 15 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo di seguito una riflessione firmata da monsignor Bruno Forte, arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto, e pubblicata sull’edizione di domenica 7 ottobre del quotidiano Il Sole 24 Ore. 

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È la sera dell’11 ottobre 1962. Volge al termine la giornata di apertura del Concilio Vaticano II. Giovanni XXIII – inizialmente titubante, come testimonierà il suo fedele segretario, Mons. Loris Francesco Capovilla – decide di affacciarsi alla finestra dell’appartamento pontificio. Toccato dallo spettacolo della folla raccolta in Piazza San Pietro, le rivolge alcune parole, passate alla storia come il “discorso della luna”: “Cari figlioli – dice il Papa -, sento le vostre voci. La mia è una sola, ma riassume tutte le voci del mondo; e qui di fatto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera – osservatela in alto – a guardare questo spettacolo… Noi chiudiamo una grande giornata di pace… Sì, di pace: ‘Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà’… La mia persona conta niente: è un fratello che parla a voi, un fratello divenuto padre per volontà di Nostro Signore… Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene così, guardandoci così nell’incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c’è, qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà… Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: ‘Questa è la carezza del Papa’. Troverete forse qualche lacrima da asciugare. Abbiate per chi soffre una parola di conforto. Sappiano gli afflitti che il Papa è con i suoi figli specie nelle ore della mestizia e dell’amarezza… E poi tutti insieme ci animiamo: cantando, sospirando, piangendo, ma sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, continuiamo a riprendere il nostro cammino”.

Sin dal primo momento queste parole suscitarono un’ondata universale di tenerezza commossa, che a distanza di anni pare ancora non spegnersi. Con Giovanni XXIII la Chiesa sembrava farsi vicina a tutti, amica di tutti, pronta a condividere con tutti la gioia e la fatica di vivere. Una Chiesa dell’amore, della speranza e della pace, offerte a ogni cuore. Quelle parole erano il frutto di una consapevolezza profonda, che lo stesso Papa aveva espresso al mattino dello stesso giorno in un discorso, cui aveva lavorato personalmente con grande impegno, fino a limarlo più volte. Si trattava dell’allocuzione inaugurale del Concilio, intitolata “Gaudet Mater Ecclesia” – “Gioisce la Madre Chiesa” dalle parole con cui si apriva. Pronunciato in latino, il discorso non ebbe l’effetto immediato di quello “della luna”. Ne costituiva, però, la premessa, il quadro ragionato, l’impostazione programmatica di fondo. A cinquant’anni da quel giorno – che sarà solennemente commemorato da Benedetto XVI e dai rappresentanti dei vescovi di tutto il mondo riuniti nel Sinodo sulla nuova evangelizzazione – le parole di Papa Giovanni suonano più che mai attuali, capaci di suscitare ancora gioia e stupore.

In primo luogo, il Pontefice incoraggiava tutti alla fiducia e all’ottimismo della fede, pronunciando un “no” tanto convinto, quanto netto a ogni genere di profeti di sventura, di allora, come di ogni tempo: “Alcuni, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori… A noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo”. Se di questo sguardo ottimista c’era bisogno allora, ai tempi della guerra fredda e della divisione del mondo in blocchi contrapposti, è innegabile che ce ne sia bisogno anche oggi: la crisi che attraversa il “villaggio globale” appare di una gravità con pochi precedenti e la tentazione del pessimismo rischia di farsi strada nei cuori. La storia sembra aver dato ragione alla fiducia del Papa buono con l’impensabile evoluzione che ha portato alla fine dei totalitarismi ideologici e della fin troppo scontata contrapposizione ad essi. Così è presumibile che il futuro darà ragione a chi continua a scommettere sull’uomo, a credere nelle vie misteriose della Provvidenza e a seminare un seme oggi, anche dinanzi a quanti sembrano prevedere che il mondo finirà domani…

Un secondo punto toccato da Papa Giovanni nel discorso del mattino dell’11 Ottobre 1962 riguardava la natura e la finalità del Concilio: si trattava di intraprendere un coraggioso lavoro di “aggiornamento” dell’intera comunità ecclesiale, che in nessun senso voleva essere un abbandono della secolare ricchezza della fede, aprendosi alla riforma e al rinnovamento della Chiesa nell’obbedienza ai segni dello Spirito operante nella storia. Diceva Giovanni XXIII: “Altro è il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale”. La Chiesa intendeva parlare il linguaggio del suo tempo, per comunicare con tutti, per lanciare a tutti ponti di amicizia e di dialogo su cui far passare il tesoro della bellezza di Dio custodito nella sua fede. La finalità pastorale non poteva non presupporre la profondità teologica e questa si lasciava sollecitare dall’urgenza di offrire a tutti i tesori del Vangelo, raccogliendo una sfida non così diversa da quella che oggi chiamiamo “nuova evangelizzazione”.

Infine, il Papa buono confessava il suo sogno: promuovere l’unità nella famiglia cristiana e umana, al di là di ogni steccato. “La Chiesa Cattolica – diceva – ritiene suo dovere adoperarsi attivamente perché si compia il grande mistero di quell’unità che Cristo Gesù con ardentissime preghiere ha chiesto al Padre nell’imminenza del suo sacrificio; essa gode di pace soavissima, sapendo di essere intimamente unita a Cristo in quelle preghiere; di più, si rallegra sinceramente quando vede che queste invocazioni moltiplicano i loro frutti più generosi anche tra coloro che stanno al di fuori della sua compagine”. In un abbraccio veramente universale, il cuore del grande Pontefice si dilatava a voler raggiungere tutti. A distanza di cinquant’anni quest’ansia non è meno bella e attuale. Oggi, come allora, ha abitato e abita il cuore dei grandi protagonisti della storia cristiana, a cominciare dai Papi che sono seguiti a Giovanni XXIII. Oggi, come allora, esige una scelta di vita da parte di tutti, per cercare uniti il bene comune, al di là di ogni corta visione di parte, con speranza e impegno fiducioso, ben sapendo che – come diceva l’umile e grande Pontefice – siamo ancora soltanto all’aurora: “Il Concilio che inizia sorge nella Chiesa come un giorno fulgente di luce splendidissima. È appena l’aurora: eppure, già toccano soavemente i nostri animi i primi raggi del sole nascente!”. Oggi, come allora: “Tantum aurora est!”. E questo basta per impegnarsi a quanti si riconoscano “prigionieri della speranza” (Zaccaria 9,12) e vogliano tirare nel presente degli uomini qualcosa della futura, promessa bellezza di Dio.

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ZENIT Staff

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