Prigioniero della speranza

Omelia per la S. Messa in suffragio del Caporale Tiziano Chierotti

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ROMA, domenica, 28 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell’omelia tenuta oggi da monsignor Vincenzo Pelvi, Ordinario militare per l’Italia, durante la Messa celebrata nella Basilica romana di Santa Maria degli Angeli in suffragio del Caporale Tiziano Chierotti, caduto in Afghanistan.

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Signor Presidente della Repubblica,
Carissima mamma Gianna, papà Piero, Daniele, Alissya, Eleonora.
Cari amici,

il brano evangelico ascoltato presenta un cammino esemplare di fede più che il racconto di un miracolo. Siamo tutti come Bartimeo dei ciechi mendicanti di luce. Possediamo occhi e non scorgiamo la bellezza, abbiamo mani e non facciamo altro che manipolare e distruggere, abbiamo piedi e preferiamo restare seduti, abbiamo un cuore ma amiamo così poco.

Noi pure sul ciglio della strada della vita possiamo sentire l’approssimarsi di Cristo attraverso la percezione del calore che emana al suo passaggio, come un raggio di sole che ci raggiunge a occhi chiusi. E, mentre le forze vengono meno e lo spirito sembra smarrirsi, stasera gridiamo la nostra disperata speranza: «Gesù, abbi pietà di me».

Gesù si ferma tra noi, è lui che soffre qui, ascolta il pensiero che impazzisce e il buio che soffoca dentro. Come a Bartimeo ripete: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E noi gli rispondiamo: Dona senso a questa straziante sofferenza, aiutaci a comprendere che l’offerta della vita di Tiziano non è un fallimento nella costruzione della pace, vogliamo credere a un amore che non viene meno di fronte alla malvagità e alla morte.

Dinanzi alla morte di Tiziano ci affidiamo a Dio con l’atteggiamento di un bambino che corre tra le braccia della madre. Anche se ingiusta e innocente, questa morte risveglia l’audacia di uscire non fuori dalla ragione ma tuffarci dentro una ragione più grande, aprendoci «al senso profondo che sostiene me e il mondo, che noi non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere come dono, e che è il fondamento su cui possiamo vivere senza paura» (Benedetto XVI).

Il possibile non si misura sulla forza dell’uomo ma sulla grandezza del dono di Dio. La fede è un cammino di illuminazione: parte dall’umiltà di riconoscersi bisognosi e giunge all’incontro personale con Cristo, che chiama a seguirlo sulla via dell’amore.

Bartimeo ha avuto fede e questa fede lo ha salvato. Credere in Gesù significa in qualche modo esporsi, affrontare un rischio. A dispetto delle apparenze, che sembrano testimoniare il contrario, noi ci esponiamo in questo modo all’incomprensione degli uomini, al ridicolo. Ma ancora di più, avere la fede ci espone a Gesù e alla sua onnipotenza.                                             

Gesù è onnipotente, ma è soprattutto debole di fronte alla fede dell’uomo. La fiducia che qualcuno gli accorda lo rende ancora più vulnerabile. Egli abbandona la propria onnipotenza al potere della nostra fede.  

Tutto è possibile per colui che crede (Mc 9,22). La fede è abbandono colmo d’amore, fiducia inalterabile di sapersi amato, è forza nella debolezza estrema.

La fede è stendere le braccia e afferrare la mano di Dio; è la certezza di questa mano sempre tesa, la serenità che si instaura nel fondo del nostro essere e cancella a poco a poco le tracce del tumulto, i sussulti dell’ansia, lo strepitio della nostra agitazione.         

Là dove l’uomo si ferma, Dio riparte: Io sono la risurrezione. Io ridesto ciò che dorme nell’uomo; ridò bellezza a ciò che è appassito; giovinezza a ciò che è stanco. Con Cristo nessuno è morto per sempre.            

La tua vita, Tiziano, non è morta, solo dorme. E questa speranza converte il nostro istinto di morte in istinto di vita.          

La vita di Tiziano, come il diario che quotidianamente scriveva, ha pagine che si possono girare, non strappare. Per leggere e interpretare anche le pagine oscurate dalla sofferenza, occorre la luce della fede, riscoprire la presenza di Gesù, che passa accanto per lenire le ferite e continuare il cammino con noi. Non ci addita scorciatoie e sentieri privilegiati. L’unica strada rimane quella faticosa che egli ha percorso, ma che porta alla pace.

Una pace non per dormire, ma per vivere. Non per anestetizzare le proprie sofferenze, bensì per poterle offrire e renderle feconde. Non per dimenticare i bisogni degli altri, ma per servirli.

Tiziano è stato prigioniero della speranza. Non una speranza pura proiezione dei propri desideri, ma quella che conduce a vivere l’insperato verso i deboli ed emarginati, persino nelle situazioni senza via d’uscita. Tale speranza genera uno slancio di creatività che rovescia i determinismi dell’ingiustizia, dell’odio, dell’oppressione. E’ una speranza quella di Tiziano che può reinventare il mondo.           

Tiziano ha saputo uscire dalle proprie sicurezze e schemi mentali per spargere generosamente il seme della fraternità, dell’amicizia e del calore umano. Appassionato custode della dignità umana, pronto a dare ragione di una professione dove la solidarietà viene spesso pagata con la consegna della vita. Lontano dalla Patria, ha messo la sua tenda nel deserto, dove nulla è garantito e tutto è ancora da costruire, credendo all’amore che lo ha avvicinato a coloro dai quali poteva anche stare lontano.

Tiziano ha lasciato i suoi angoli bui, la vita seduta, le vecchie strade e per lui si sono aperte le ali che non sapeva di avere.

Nel servire l’uomo non abbiamo alcun interesse da salvaguardare o da conservare. Non abbiamo potere tra i fratelli afghani della montagna e quelli della pianura ma siamo in quella terra martoriata come a casa di un amico, di un fratello bisognoso a cui stringere la mano fidandoci della delicata vibrazione del cuore.

Non possiamo abbandonare i popoli che soffrono. All’altare del Signore anche parole di odio e di inimicizia per chi uccide svaniscono dall’animo perché chi uccide non sa quello che fa; chi ammazza rimane l’amico dell’ultimo minuto.

L’umanità intera è chiamata a costruirsi come una famiglia di popoli che, mentre si riconoscono e si accettano sulla base della verità, vivono rapporti di mutuo sostegno, ossia vivono con gli altri, per gli altri, negli altri e grazie agli altri.                                   

Lo sviluppo nel bene della famiglia umana, ovvero la pace, opera complessa ed eroica, esige persone con mente e cuore nuovi, trasfigurati, a servizio di una progressiva integrazione europea e mondiale.

Affidiamoci alla materna intercessione della Vergine santa, ci ottenga dal Signore di rafforzare la nostra fede nella vita eterna; ci aiuti a vivere bene il tempo che Dio ci offre con speranza. Una speranza cristiana, che non è soltanto nostalgia del Cielo, ma vivo e operoso desiderio di Dio che ci rende pellegrini infaticabili, alimentando in noi il coraggio e la forza della fede, che nello stesso tempo è coraggio e forza dell’amore. Amen.       

+ Vincenzo Pelvi
Arcivescovo

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ZENIT Staff

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