ASSISI, martedì, 30 ottobre 2012 (ZENIT.org) – Nella mattina di lunedì 29 ottobre si è svolto ad Assisi un incontro promosso dai Frati minori per ricordare la giornata di preghiera per la pace tenutasi ventisei anni fa nella città umbra alla presenza di Giovanni Paolo II e quella convocata un anno fa da Benedetto XVI. «Lo spirito di Assisi: pellegrini della verità, pellegrini della pace. La consegna del 27 ottobre» è il tema sul quale ha parlato mons. Gerhard L. Müller, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.
***
1. Vi è un profondo legame fra la città di Assisi e la figura di San Francesco: perciò si scelse nel 1986 questo luogo per il primo incontro fra i rappresentanti delle principali religioni. Francesco d’Assisi è stato uomo di pace e la città – che ha dato i suoi natali a questo grande Santo e ne custodisce le spoglie mortali – in qualche modo, grazie a lui è divenuta un luogo simbolico per la pace. Francesco è stato maestro della pace. Egli poteva parlare con autorevolezza della “pace”, perché la portava nel cuore e la diffondeva intorno a sé, con parole ed opere. La pace che Francesco aveva dentro di sé nasceva da un’intima comunione in Gesù Cristo, di cui Francesco era divenuto, nello stesso tempo, testimone e mendicante.
Così il beato Giovanni Paolo II ha voluto che proprio Assisi rendesse testimonianza al fatto che il dono della pace è profondamente connesso con la domanda religiosa che sgorga dal cuore di ogni uomo e che gli uomini, nella loro ricerca religiosa, devono impegnarsi fattivamente per la pace, offrendo un contributo prezioso per la causa della pace. Egli aprì quel primo storico incontro con una accorata invocazione che risuona ancora oggi in mezzo a noi: “Possa la pace venire a noi e riempire i nostri cuori!”.
Spesso il Santo di Assisi è ricordato anche per il Cantico delle creature, per quel poema con cui, dal riconoscimento commosso della bontà delle creature, egli s’innalza alla bontà ancor più grande del loro Creatore. Ma non sempre si ricorda anche che Francesco compose quel Cantico, solo dopo aver ricevuto il dono tremendo delle “stimmate”. Ciò significa che la limpida gratitudine di quella lirica è sorta in cuore a San Francesco soltanto dopo che egli ha talmente fissato il suo sguardo e immerso il suo cuore nel Crocifisso da esserne anche fisicamente segnato, cioè “stigmatizzato”.
Strada maestra per la pace, per Francesco, è stata dunque la via della Croce di Gesù Cristo. La Croce, non a caso, segna l’inizio e il compimento della sua vocazione: egli si converte davanti al Crocifisso e muore totalmente immedesimato con lui. È stata dunque la Croce che ha deposto nel cuore di Francesco un seme di pace e lo ha fatto fiorire in un canto di gratitudine a Dio.
La vita di San Francesco documenta efficacemente come la contemplazione e l’immedesimazione col mistero dell’Incarnazione e della Redenzione – che culminano nella Croce – siano la sorgente di quella luce che permette all’uomo di cogliere la ricchezza del creato e del suo stesso destino. Da qui sgorga anche la vera pace, che inondava il cuore di Francesco. Questa è la profondità a cui ci conduce Francesco e che rimane come un orizzonte luminoso per la riflessione attorno allo “spirito di Assisi”.
Lo “spirito di Assisi” non può non riprendere il carisma di San Francesco e la spiritualità di quel cantore della creazione e ammiratore attraverso il creato di quel Dio, che si è definitivamente rivelato nell’Incarnazione del Verbo. La spiritualità del più illustre figlio di Assisi è cristica e incarnatoria nel senso che si nutre continuamente della contemplazione del mistero del Natale di Gesù e della passione e morte del Salvatore.
2. Nell’incontro di Assisi, tenutosi il 27 ottobre del 2011, il Santo Padre Benedetto XVI si propose di fare il punto sulla “causa della pace” a partire dal raduno del 1986. Egli disse: “che cosa è avvenuto in seguito? Purtroppo non possiamo dire che da allora la situazione sia caratterizzata da libertà e pace…”. E, annoverando fra i principali nemici della pace anche “il terrorismo motivato religiosamente”, ribadì con forza che la violenza “non è la vera natura della religione”. Quindi aggiunse: “qui si colloca un compito fondamentale del dialogo interreligioso”, e pose a tema un interrogativo radicale: qual è “la vera natura della religione?”(1). La riflessione su questa rinnovato messaggio consegnatoci il 27 ottobre scorso non può dunque prescindere dal rispondere a questa domanda fondamentale.
3. Che cosa è la religione? Anzitutto cerchiamo di comprendere a quale livello nasce il senso religioso nell’uomo. Guardando, con animo aperto, la realtà creata, l’uomo può riconoscere l’esistenza di Dio, come “principio e fine di tutte le cose”(2). Egli inoltre desidera vedere quel Dio di cui riconosce l’esistenza e da cui, come creatura, dipende. Insita nella religiosità vi è quindi anche una certa qual dichiarazione dell’identità metafisica dell’uomo. Per natura, l’uomo è religioso e, scoprendo l’esistenza di Dio, scopre che il suo ultimo destino trascende questo mondo. Proprio per questo egli si indirizza verso Colui che è il Creatore di tutta la realtà e cerca di entrare in rapporto con Lui. Questa prospettiva – ampliata, custodita e coltivata attraverso gli atti religiosi – esprime la naturale apertura dell’uomo all’Assoluto e gli offre un’asse morale che lo spinge a superare continuamente i suoi limiti.
Nella religiosità vi è poi anche un’altra percezione: la percezione di una dimensione “provvidenziale” presente nel cosmo. Tale riconoscimento, quando diviene consapevole, inclina l’uomo ad un atteggiamento di fiducia nei confronti del suo Creatore, specie nei momenti di difficoltà. Vi è qui dunque un punto di appoggio e di equilibrio che la religiosità naturale offre alla psiche umana immersa nel travaglio degli eventi. Perciò la religiosità può essere anche un elemento importante per la maturazione di un autentico umanesimo.
La ragione umana – o l’intellectus, come direbbe San Tommaso – scopre di essere aperta ed attratta dalla verità, e che la volontà s’indirizza naturalmente verso il bene. L’uomo desidera, anzi, in pienezza la verità e il bene, per un impulso inestirpabile che cova nel suo cuore. A tal livello, la ricerca dell’ultimo e sommo verum et bonum rivela che la religiosità è un fenomeno strutturante della persona umana.
4. Proprio a partire da questo sguardo sull’uomo – ponendosi sul piano di una mera antropologia filosofica – il beato Giovanni Paolo II ha impostato il primo incontro di Assisi, dove pronunciò le seguenti parole: “Con le religioni mondiali condividiamo un comune rispetto e obbedienza alla coscienza, la quale insegna a noi tutti a cercare la verità, ad amare e servire tutti gli individui e tutti i popoli … Noi tutti siamo sensibili e obbedienti alla voce della coscienza … Potrebbe essere diversamente, giacché tutti gli uomini e le donne in questo mondo hanno una natura comune, un’origine comune e un comune destino?”(3). “Due cose sembrano avere suprema importanza e l’una e l’altra sono comuni a noi. La prima … è l’imperativo interiore della coscienza morale, che ci ingiunge di rispettare, proteggere e promuovere la vita umana, dal seno materno fino al letto di morte, … l’imperativo di superare l’egoismo, la cupidigia e lo spirito di vendetta. La seconda cosa comune è la convinzione che la pace va ben oltre gli sforzi umani”(4).
Queste asserzioni attirano l’attenzione sulla universale dignità umana e sulla coscienza personale, nella quale è custodito il nucleo della responsabilità morale dell’uomo e della sua dignità. La scoperta del carattere contingente delle creature infatti può condurre all’affermazione che Dio è dis
tinto dal mondo. Il carattere teleologico del creato permette inoltre di parlare con ragione di un destino per l’uomo, inscritto nel suo stesso essere “creatura”. In quanto creatura di Dio ed a Lui somigliante, l’uomo beneficia di una natura spirituale, che reca in sé – come abbiamo accennato sopra – un anelito alla pienezza della verità e del bene, al rispetto dell’altro ed alla pace. Nello stesso tempo, però, lasciando spazio a questo anelito, l’uomo può scoprire dolorosamente che la pienezza della verità, del bene e della pace si trova fuori delle sue risorse naturali. Proprio su questo sentiero “interrotto” verso la plenitudo veri et boni fiorisce nell’uomo il riconoscimento della necessità di un “oltre” che va ben aldilà delle sue possibilità.
Affermare tutto ciò significa che una filosofia leale nel guardare alla condizione umana permette già di attingere ad alcune verità fondamentali per l’uomo. L’uomo, infatti, rivela in sé una dimensione religiosa, che è condizione per la ricerca di una base comune nel dialogo con i rappresentanti delle religioni non-cristiane. Giovanni Paolo II era cosciente di questo fatto ed era proteso a evidenziare tutto ciò. Contemporaneamente è possibile però notare che non tutte le religioni condividono gli stessi punti di partenza di questa riflessione. Ad esempio, una religione che non afferma la creazione e, al suo posto, insegna l’emanazione della realtà da Dio, non possiede lo stesso contesto culturale e le medesime categorie concettuali per affermare l’universalità della dignità umana. Così, se i diversi gradi sociali sono intesi come “caste”, la cui importanza dipende dal livello della loro emanazione dalla stessa divinità – alcune originarie ed altre più tardive e dunque peggiori – la scoperta e la difesa della dignità di ogni uomo e del suo destino saranno molto più difficili. Ancora, possiamo osservare che il panteismo e il manicheismo non generano quello stesso clima intellettuale da cui il Cristianesimo è condotto a credere che il mondo è creato, è buono, ed è dotato di un destino proveniente da un Dio personale e buono.
Similmente il riferimento alla coscienza è differente nelle diverse religioni. La coscienza, definita come atto della ragione pratica, appartiene alla natura spirituale dell’uomo. Nella prospettiva cristiana, dove si rispetta la coscienza personale che cerca la verità, le si attribuisce un locus etico primario e la dignità della persona eccelle. Invece, in una religione che dà prevalenza in modo indiscusso alla lettera dei propri testi sacri e in cui non vi è spazio per un intellectum quaerens, la stima della coscienza personale non potrà che risultare diminuita. E laddove la difesa contro il male non proviene da un giudizio della coscienza personale, ma solamente da un ambito estrinseco ad essa – magari imposta anche con violenza – per affermare uno specifico modello di vita, sarà indebolito, insieme alla coscienza, anche lo sviluppo della dignità personale e di una vita sociale libera.
Pur cosciente di queste differenze e di questi limiti, Giovanni Paolo II, confidando in una comune ed indelebile natura umana, non ha temuto di bussare alla porta delle religioni e degli uomini religiosi, chiedendo il rispetto della coscienza personale, dell’universale dignità umana, nonché della vita e della pace.
5. Bussare alla porta dell’umanità che esiste in ogni uomo e che si esprime nella sua religiosità, non significa che tutte le religioni sviluppatesi storicamente possano essere trattate come un’indistinta espressione della stessa esperienza umana. La Rivelazione di Dio non è la descrizione della universale esperienza religiosa umana. Le teorie pluralistiche delle religioni che si dirigono in questa direzione non sono dunque teologie fondate sulla Parola di Dio, e spesso cominciano con un a priori ingiustificato, secondo cui tutte le religioni in fondo sarebbero simili, negando o dubitando della possibilità di una reale comunicazione fra Dio e l’uomo. Vi è chi nega la possibilità stessa della Incarnazione, dell’assunzione della natura umana da parte di una Persona divina. Così, l’Incarnazione del Figlio di Dio, che è il cuore della fede cristiana, sarebbe ridotta ad una metafora poetica, bella ma irreale. Coloro che ragionano in questi termini negano l’a posteriori del fatto della Rivelazione storica e dell’Incarnazione stessa, in nome di un a priori metafisico che non consente di considerare la kenosi di Dio verso l’uomo come una realtà(5). Così, dopo aver parlato di un “Dio ignoto”, l’apostolo di Cristo compie il proprio annuncio: “Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (At 17,23).
Perciò una teologia autenticamente cristiana delle religioni non può accettare simili posizioni. Il riconoscimento del Dio Creatore, il fatto della Rivelazione storica e dell’Incarnazione, che culmina nel Mistero Pasquale di Gesù Cristo, non cancella le verità sull’uomo che la ragione può conoscere anche senza l’aiuto diretto della grazia e non impedisce che le religioni possano esprimere un senso morale ed una religiosità naturali. Il rispetto di questa religiosità può essere mantenuto insieme con la fede cristiana, perché la fede non è contro la ragione e lascia dunque spazio anche alla morale e alla religione naturali, riconoscendo però i limiti della natura laddove non è illuminata ed elevata dalla fede. Rispettare la coscienza religiosa dell’umanità non significa infatti dimenticare che le religioni storiche presentano anche ostacoli, come pure forme malate e disturbate di religione.
6. Dopo aver rilevato il valore e l’universalità della religiosità naturale, insieme ai suoi limiti, occorre poi notare anche la relazione e la differenza fondamentale tra questa e la fede. La fede è distinta dalla religiosità naturale(6). Essa è un dono, una virtù teologale ricevuta da Dio. Non è un prodotto della natura umana e anche se permette il perfezionamento della natura umana. La fede è una realtà soprannaturale, cioè un dono della grazia che viene da Dio ed ha per oggetto Dio che si rivela, il quale è l’origine e il compimento della stessa fede. Oggetto della religiosità naturale sono gli atti di culto a Dio, compiuti nel rispetto dovuto a Dio Creatore, che la ragione naturale può conoscere. Essenzialmente, il contenuto della fede è ricevuto attraverso la Rivelazione di Dio ed è trasmesso mediante l’insegnamento della Chiesa (cf. Ef 3,10). Gli atti di fede aprono alla potenza salvatrice di Dio (cf. Mc 5,30) e introducono alla vita soprannaturale, alla “vita eterna”(7).
Dio si nasconde nel mistero e può essere conosciuto solamente con la fede, non perché Egli sminuisca il valore dell’intelletto naturale umano, bensì perché la fede, con la forza della grazia, offre alla ragione maggiori certezze su Dio e la aiuta a riconoscerLo, ad avere fiducia in Lui, ad aprirsi alla Sua presenza. Nella fede Dio si rivela come un Dio personale, che ama come un Padre. Egli non si lascia confinare nel solo concetto di un Assoluto astratto, che la ragione magari percepisce, rispetta o teme. Da ciò si comprende quanto sia scorretto confondere la fede cristiana con la religiosità naturale e usare il termine “fede” per il credo delle religioni non-bibliche(8). Con ciò non si vuol negare la possibilità che Dio conceda di credere a coloro che non conoscono la Parola rivelata, né conoscono Cristo e la Chiesa, ma credono che Egli “esiste e ricompensa coloro che lo cercano” (Eb 11,6). In questo caso, bisogna però sottolineare che il credere, se non è nutrito dalla Parola di Dio e dai sacramenti della Chiesa, vive in una situazione di pericolo e rischia di essere deformata.
La fede illumina il valore della religiosità naturale, la quale offre l’humus adeguato alla prima, anche se soltanto la vita teologale donata da Dio attribuisce agli atti religiosi una profondità spirituale e un valore inattingib
ili con le sole forze e progresso umani. Dunque da quel centro interiore che è la religiosità, la religione può e deve essere valutata e purificata. Non bisogna allora giustapporre la religiosità alla fede. La fede, come dono di grazia, si innesta sulle naturali facoltà umane e produce un cambiamento noetico ed etico. Essa cambia la religiosità dal di dentro, assicurandole una fecondità soprannaturale, ed ex parte sua, la religiosità naturale offre alla fede un contesto che l’accoglie, la indirizza e le permette di esprimersi a tutti i livelli della natura umana.
7. La Chiesa cattolica e il Cristianesimo non rifiutano, pertanto, il dialogo con le religioni, proprio perché dalla fede cristiana proviene un rispetto verso la naturale sensibilità religiosa degli uomini(9). Il rispetto dovuto alla coscienza – anche nel caso in cui questa sembra essere nascosta in una religiosità incapace di discernere i valori morali e di esserne responsabile – esige un dialogo da compiere con passi lenti, nella paziente attesa dall’apertura della ragione alla pienezza della verità. La Chiesa, pur nutrendo fiducia nella grandezza della ratio – che invita a non chiudersi in limiti troppo riduttivi(10) e ad aprirsi alla ricerca della verità – nello stesso tempo sa che la sola ratio raramente può arrivare a scoprire le verità fondamentali. Solitamente solo pensatori, onesti e profondi, di acume non comune, giungevano, sulla base della ragione naturale, alla piena e rispettosa scoperta della dignità e del destino umani, del valore della pace e della solidarietà. È tuttavia da rimarcare che, ben conoscendo i limiti della ragione naturale, la Chiesa non perde la fiducia nella ragione e non accetta il pessimismo veritativo, che distingue gli ambienti nichilisti o relativisti. Proprio in nome della fiducia nelle capacità naturali della ragione, e confidando in esse, la Chiesa può impegnarsi nel dialogo interreligioso.
In secondo luogo, occorre ribadire che lo scopo del dialogo non è il dialogo in sé stesso. Lo scopo del dialogo è la conoscenza della verità. Il dialogo è un metodo che aiuta nel cammino verso la verità. Già il dialogo socratico serviva in questo senso, come strada per la ricerca filosofica della verità e per liberare la mente così da non allontanarsi dalla verità. Talvolta questi allontanamenti, benché nascosti ed incoscienti, sono motivati dal fatto che la verità conosciuta si rivela esigente. Avendo scoperto la verità occorre accettarne l’autorità, e, proprio perché è vera, occorre seguirla, anche se non tutti sono pronti ad accettare il necessario sforzo. A volte, l’uomo si chiude in posizioni relativistiche o in una semplificante religiosità naturale per sentirsi libero dalle esigenze della verità. Il relativismo preferisce il dubbio permanente per non lasciarsi obbligare dalla certezza della verità. Così, le religioni naturali possono offrire qualche risposta alle domande fondamentali dell’uomo, placare qualche inquietudine intellettuale e spirituale ed offrire un certo orizzonte di vita, sebbene talvolta esonerino dall’obbligo di cercare la verità nella sua pienezza e di informare la coscienza ad essa. Il dialogo interreligioso serve dunque a provocare l’uomo, perché si incammini con coraggio nella ricerca della verità e si apra con fiducia alle sue esigenze.
Inoltre, nel dialogo interreligioso si crea un contesto dove è possibile anche testimoniare la fede in Gesù Cristo. La Chiesa è obbligata dal perenne impegno missionario, che viene da Cristo stesso (Mc 16,15-16), proclamare il buon annuncio di Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Per un cristiano, pertanto, il rispetto della religiosità altrui non significa, e non potrebbe significare, una rinuncia alla propria fede, alla propria identità e alla verità definitiva ricevuta, tramite la Chiesa, nella Rivelazione di Dio. Tale rispetto e il dialogo non significano il dissolvimento del proprio credo in una religiosità generica, fondata sull’assioma della inconoscibilità di Dio, né la riduzione della fede cristiana al livello di un’espressione generica, comune ad altre forme di religiosità. Anzi, la Chiesa può proporre un dialogo vero solo a partire della verità su se stessa. Sarebbe menzognero nascondere la fede autentica ed abbandonare l’unicità della Rivelazione e della Incarnazione del Figlio di Dio, in nome di un dialogo politically correct. È giustificato e corretto solamente un dialogo condotto nella verità e nell’amore. Perciò la nostra fede, indirizzata verso Cristo, e la verità su noi stessi devono sempre avere un posto privilegiato in ogni occasione di dialogo dei cristiani con coloro che non lo sono.
A tal proposito, la fede è diversa da una posizione ideologica, che cerca di imporre sé stessa agli altri con la forza, ed esige un atteggiamento di apertura verso il prossimo, simile all’apertura verso Dio, nella fede e nella carità. La fede è un dono di Dio, che esige una libera e personale adesione. L’insegnamento sul carattere personale della fede, che sottende una libera disposizione e collaborazione è una costante nell’insegnamento della Chiesa – dal Concilio di Trento(11) fino al Concilio Vaticano II – e proprio qui trova il suo fondamento la libertà religiosa(12). Per tal motivo, nella trasmissione della fede, nella evangelizzazione e nel dialogo interreligioso la Chiesa esclude ogni forma di proselitismo che si basi su manipolazioni e falsità, perché mancherebbe di rispetto all’altro e al suo cammino personale. D’altronde, è da respingere anche la posizione di coloro che negano a Dio il diritto di offrire il dono della fede secondo la Sua divina generosità e rifiutano qualsiasi dialogo e collaborazione con i seguaci di religioni non-cristiane, come di coloro che – sul lato opposto – cadono nel relativismo religioso, oscurando la verità della Rivelazione cristiana(13) e il ruolo unico di Cristo nei confronti delle altre religioni.
Il dialogo con i seguaci delle religioni non-cristiane è una forma di testimonianza della fede, che dev’essere sempre rispettosa verso l’altro e la dignità della sua coscienza. È un dialogo da praticare sempre nella verità, che include ed accetta la missione, ricevuta da Gesù Cristo, di predicare il Vangelo fino alla fine dei tempi e agli estremi confini della terra. La dimensione missionaria della Chiesa non può essere sospesa nel dialogo interreligioso. In questo dialogo, come in ogni predicazione, vanno sempre ricordati due elementi. Ogni predicazione, dialogo e conversazione sulla fede saranno fruttuosi solamente se basati sulla grazia dello Spirito Santo. Questa grazia, quando è ricevuta da una fede viva(14), precede l’opera del predicatore, del missionario o del dialogante, ed agisce sia in colui che parla, sia in colui che ascolta. La fede è un dono di Dio, che permette un contatto con Dio. Essa introduce perciò alla vita soprannaturale e può “provocare” la fecondità di Dio stesso. È così che il dialogo diviene fruttuoso. Da qui deriva anche – ed è il secondo elemento – che, nel dialogo, il cristiano è chiamato a testimoniare Cristo e non se stesso. Ogni cristiano coinvolto in una qualsiasi conversazione attinente alla fede, deve “nascondersi” spiritualmente dietro Cristo, appoggiandosi alla sua grazia e non a se stesso: non promuovendo se stesso, ma Lui solo.
Il cristiano è dunque un testimone e non un possessore della verità. Come recentemente ha detto il Santo Padre: “Nessuno può avere la verità. È la verità che ci possiede, [essa] è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei, solo se siamo, con lei e in lei, pellegrini della verità, allora è in noi e per noi”(15). Il cristiano è allora un pellegrino, un viator che cammina nella verità, ed è ben cosciente del fatto che essa è un dono in cui egli deve inoltrarsi sempre più. Si tratta di un cammino personale, che vive in un precis
o contesto comunitario, vale a dire nel contesto più ampio della Chiesa, donata agli uomini come “colonna e fondamento della verità” (1 Tm 3,15)(16).
8. Vivendo nella verità la sua fede, il cristiano non è autorizzato a modificarla per rendere il suo discorso più accettabile da parte di coloro che non credono, magari adattandola secondo criteri soggettivi. Il punto di partenza di una corretta teologia cristiana delle religioni è l’Incarnazione del Logos eterno di Dio: Egli si è fatto “carne”, “kai o logos sarx egeneto” (Gv 1,14), offrendosi per la salvezza dell’uomo nel Mistero Pasquale. “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia” (Gv 1,16). Egli ci ha offerto “un nuovo regno di pace”(17). Infatti, l’Incarnazione del Verbo non è un’idea, uno schema, una categoria, ma un evento unico e concreto nella storia (cf. Eb 1,1-2).
Il principio ermeneutico che Cristo stesso offre ai due discepoli sulla strada di Emmaus si riferisce al progetto eterno del Padre: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26). Solamente quando si accetta nella fede il mistero di Cristo Crocifisso e Risorto, tale quale Egli è, questo rapporto vivo con Cristo diventa una luce nella quale si può interpretare tutto. La saggezza ultima è un dono dello Spirito Santo ed è data a chi crede in Cristo. Ogni dialogo, e soprattutto il dialogo interreligioso non deve dunque nascondere questo principio fondamentale.
Vale la pena ricordare il fatto che questo principio è stato alla base degli incontri di Assisi. La preghiera dei rappresentanti delle diverse religioni, riuniti nel 1986 non era una preghiera “comune” – che sarebbe una manifestazione di sincretismo – ma una preghiera pronunciata simultaneamente. Giovanni Paolo II, in quell’occasione, disse: “Andremo … ai nostri separati luoghi di preghiera … Poi … ciascuna religione avrà di nuovo la possibilità di presentare la propria preghiera, l’una dopo l’altra. Dopo aver così pregato separatamente, mediteremo in silenzio sulla nostra responsabilità di operare per la pace”(18).
9. La pace è un bene stimato da tutti. Tutta l’umanità aspira alla pace. Tuttavia “la pace, [essendo] così cagionevole di salute, richiede una cura costante e intensiva”(19). Essa, come ci insegna la tradizione della fede, è frutto della giustizia ed ancor più della carità. Le negoziazioni politiche per la pace, pur necessarie, possono solo risolvere alcuni problemi, stabilendo accordi e convenzioni. La pace autentica, che supera l’ingiustizia, che ama la verità e si apre all’universale solidarietà, è un dono che viene dall’alto(20) ed esige un’apertura a Dio. Essa si nutre di un rapporto vivo con Dio e di un rapporto con un Dio vivo e presente in mezzo a noi. Per noi cristiani la pace “porta il nome di Gesù Cristo”(21), di un Dio che è morto sulla Croce per noi. “La Croce di Cristo è per noi il segno del Dio che, al posto della violenza, pone il soffrire con l’altro e l’amare con l’altro. Il suo nome è ‘Dio dell’amore e della pace’ (2 Cor 13,11)”, ci ha ricordato Benedetto XVI proprio qui, ad Assisi, il 29 ottobre 2011.
In questa prospettiva – riconsegnataci dal Santo Padre – ritroviamo il nostro punto di partenza, vale a dire quel messaggio che sta al cuore della testimonianza e della vita di Francesco, il poverello di Assisi: nella Croce di Cristo vi è l’origine e il compimento della pace, di una pace autentica. “Vi lascio la pace, vi do la mia pace, non come la dà mondo io la dò a voi” (Gv 14,27): così Gesù ci ha insegnato la strada verso la pace vera, offrendo la sua vita per noi, con amore. “Egli infatti è la nostra pace” (Ef 2,14). Seguendo Lui, anche noi diveniamo operatori efficaci di pace e di unità fra gli uomini. In Cristo, Crocifisso e Risorto, dimora in pienezza il dono dello Spirito Santo, che è lo Spirito di pace. A questo Spirito si attinge e si vuole attingere, a piene mani, quando ci si richiama allo “spirito di Assisi”. Proprio questo Spirito di Dio ci invita a guardare con fiducia alla Croce di Cristo, perché là si trovano la testimonianza e l’ermeneutica più eloquenti della pace.
*
NOTE
(1) – Benedetto XVI, Discorso, Assisi, Basilica di Santa Maria degli Angeli, 27 ottobre 2011, cfr Lettera in occasione del XX anniversario dell’Incontro Interreligioso di Preghiera per la Pace, 2 settembre 2006.
(2) – Concilio Vaticano I, Cost. Dei Filius, 2; DH 3004.
(3) – Giovanni Paolo II, «Operatori di pace nel pensiero e nell’azione, con la mente e con il cuore rivolti all’unità dell’intera famiglia umana», Assisi, 27 ottobre 1986, n. 2: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IX, 2 (1986), p. 1266. Cfr Discorso alla Curia Romana per gli auguri di Natale, 22 dicembre 1986.
(4) – Ibid., n. 4, p. 1267.
(5) – Cf. G.L. Müller, «Le basi epistemologiche di una teologia delle religioni», Unicità e universalità di Gesù Cristo, ed. M. Serretti, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 35-64.
(6) – Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 81, a. 5.
(7) – Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIa-IIae, q. 4, a. 1: «Fides est habitus mentis, qua inchoatur vita aeterna in nobis, faciens intellectum assentire non apparentibus».
(8) – Cf. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Dominus Iesus sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, n. 7.
(9) – Concilio Vaticano II, Dichiarazione Nostra aetate, n. 2; cfr Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Post-sinodale Verbum Domini sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, n. 117; Discorso per l’Incontro con le Organizzazione per il Dialogo Interreligioso, Gerusalemme, 11 maggio 2009.
(10) – Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Fides et ratio, n. 56.
(11) – Decreto sulla giustificazione, c. 7, DS 1528-1531.
(12) – Dichiarazione Dignitatis humanae, n. 2, 9-10.
(13) – Costituzione dogmatica Dei Verbum, n. 2-6.
(14) – Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 106, a. 2: «Unde etiam littera Evangelii occideret, nisi adesset interius gratia fidei sanans».
(15) – Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa a conclusione dell’incontro con il “Ratzinger Schülerkreis”, 2 settembre 2012.
(16) – Cf. G.L. Müller, op. cit., pp. 60-61.
(17) – Cf. Benedetto XVI, Udienza generale per la preparazione dell’Incontro di Assisi, 26 ottobre 2011.
(18) – Giovanni Paolo II, «Nel nostro comune impegno di preghiera rendiamo questa giornata anticipazione di un mondo pacifico», Assisi, 27 ottobre 1986, n. 4: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IX, 2 (1986), p. 1253.
(19) – Ibid., n. 8, p. 1269.
(20) – Cf. Ibid., n. 10, p. 1270.
(21) – Ibid., n. 4, p. 1267.