Monsignor Shomali è tra i firmatari del comunicato diffuso la settimana scorsa dall’Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa (Aocts) in cui si condanna il percorso previsto per il muro e si nega «categoricamente l’esistenza di un accordo esplicito o implicito tra il Vaticano, la Chiesa locale e le autorità israeliane». Lo scorso 16 ottobre l’organizzazione non governativa «Israel Project» aveva accusato apertamente la Santa Sede di aver concesso a Tel Aviv di costruire il muro in un terreno di proprietà ecclesiastica.
Oltre a smentire le insinuazioni, ventidue tra prelati e sacerdoti delle varie denominazioni cattoliche – tra cui monsignor Fouad Twal, patriarca latino di Gerusalemme, padre Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa, e monsignor Giorgio Lingua, nunzio apostolico in Giordania e in Iraq – sottolineano come i provvedimenti di confisca «verranno a gravare sul villaggio di Al Walaja e su 58 famiglie – per l’80% cristiane – di Beit Jala, il cui sostentamento dipende principalmente da questo terreno». Nel documento – inviato ad Aiuto alla Chiesa che Soffre dal Patriarcato latino di Gerusalemme – si esprime inoltre il timore che l’ulteriore pressione esercitata dalla “barriera di sicurezza” sui cristiani che vivono a Betlemme possa alimentare l’esodo di fedeli dalla Terra Santa. Lì dove la presenza cristiana – stimata nel 1947 attorno al 20% – rappresenta oggi appena il 2% della popolazione. «Senza un reddito fisso e un futuro per i loro figli, molti di loro prenderanno la decisione di lasciare la regione».
Parlando con ACS, Monsignor Shomali ricorda che nel 2004 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha dichiarato illegale la costruzione del muro – iniziata da Israele nel 2003 per difendersi da eventuali attacchi terroristici – che corre per oltre l’80% dei suoi circa 750 kilometri di lunghezza oltre la linea verde: demarcazione stabilita dagli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949. «Se la barriera fosse stata eretta entro i confini precedenti l’occupazione della Cisgiordania – dichiara il vicario patriarcale – nessuno avrebbe potuto opporsi. Ma il tratto che attraversa la Valle di Cremisan è aldilà di questa linea, in terra palestinese».
Oltre alle rimostranze legate alla violazione del diritto internazionale, il presule ritiene possibile tracciare un percorso alternativo che comporti una minore sottrazione di terreno per gli abitanti dell’area. Le ultime speranze sono ora riposte nella sentenza che la Corte suprema d’Israele pronuncerà il prossimo febbraio. Si tratterà dell’epilogo di un’azione legale intrapresa nel 2006 dalle famiglie di Beit Jala – a cui nel 2010 si sono aggiunte anche le religiose salesiane – per bloccare la costruzione del muro nell’area. «Noi chiediamo una decisione giusta. Non un provvedimento adottato per accontentare la Chiesa», dichiara monsignor Shomali che confida nei magistrati «indipendenti dalla politica».
Tuttavia non è possibile escludere la confisca delle terre – «di fatto un’espropriazione» – e il presule pensa già a come aiutare le famiglie private delle proprie risorse. «Dobbiamo iniziare a muoverci, insieme alla Caritas ed alle altre organizzazioni umanitarie. Ma temo che i nostri mezzi non saranno sufficienti».