A trentacinque anni dalla vicenda dolorosa di Aldo Moro e dei cinquantacinque giorni che cambiarono la nostra storia repubblicana è di grande importanza e luce personale tornare a leggere quelle Lettere dalla “prigione del popolo” che hanno trovato una sistemazione storiografica di eccezionale valore nell’opera di Miguel Gotor (A. MORO [a cura di M. GOTOR], Lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino 2008).
Si tratta di testi che insieme al cosiddetto Memoriale, hanno saputo animare il dibattito ad ogni livello, includendo tutte le gradazioni dell’interpretazione, compresa tra gli estremi di chi ha voluto trovarvi le chiavi di decifrazione del decadimento e della corruttela del nostro sistema politico e chi ha voluto confinare le carte di Moro a simbolo drammatico ma neutro della deriva violenta del decennio degli Anni di piombo.
Eppure, al di là dell’agone della lettura storico-politica, è possibile rintracciare in quelle carte, con grande emozione ed impareggiabile concretezza, la statura dell’uomo e del cristiano Moro, specie in quei passi delle Lettere dove il “prigioniero del popolo” trova la forza e il coraggio del dialogo tenero e carezzevole con i familiari negati, in primis con l’adorata moglie Noretta.
Si tratta di momenti di forte commozione e umanità (inspiegabilmente travisati da un lettore lucido come Leonardo Sciascia nell’immediato Affaire Moro dell’autunno del 1978) che forse più di tutti i martirologi postumi riescono a rendere giustizia e onore al lascito di Moro. Nella primissima lettera (recapitata il 29 marzo), scritta il giorno di Pasqua, oltre agli auguri «con tanta tenerezza» alla «carissima Noretta» e in particolare «al piccolo» ovvero il nipotino Luca, Moro accarezza la moglie raccomandandole la compagnia notturna della figlia in un momento tanto duro.
Nella lettera recapitata tre giorni dopo, la concomitanza della Pasqua è il motivo per sottolineare come sia «la prima volta dopo trentatré anni che passiamo la Pasqua disuniti», ma soprattutto che «dopo il trentatreesimo di matrimonio sarà senza incontro tra noi». Il ricordo corre alla «chiesetta di Montemarciano ed il semplice ricevimento con gli amici contadini» che salutò il matrimonio fra i due coniugi avvenuto nell’aprile del 1945 in provincia di Ancona: dettagli forse insignificanti per il mondo ma che «quando si rompe così il ritmo delle cose, esse, nella loro semplicità, risplendono come oro nel mondo».
Anche nei momenti più duri, quando nel prigioniero si fa certa la consapevolezza che non tutte le lettere vengano recapitate, il pensiero della moglie è di sostegno per Moro «ricordando, immaginando, ripercorrendo gli itinerari, che ora si scoprono splendidi della nostra vita, spesso tanto difficile, di ogni giorno».
Le missive stesse di testamento che il prigioniero scrive in più versioni ci parlano del valore immenso delle piccole cose in un momento di buio totale: Moro decide a chi destinare gli amati libri ma anche «il braccialettino dono di nozze per Anna sul comodino» e i «filmetti e le foto del piccolo nel cassetto della mia scrivania in studio». Non di meno il pensiero per i figli è costante con più lettere personali ad ognuno di essi.
Aldo Moro il padre è capace di autocritica verso la figlia Maria Fida («Forse in qualche momento sarò stato nervoso o non del tutto capace di comprensione. Ma l’amore dentro è stato grande in ogni momento con un desiderio profondo della vostra felicità sempre in una vita retta, quale voi conducete»), di premura delicata impreziosita dai ricordi verso la figlia Agnese («Gioisco nel ricordarti piccola, sulla gamba del cuore con il dottor Tanè del tuo libriccino di bimba») e verso la figlia Anna Maria («Tempi felici. Niente ha potuto annullare la grandezza dell’amore. A qualsiasi età i figli sono i nostri piccoli. E tu sei la mia piccola. Come vorrei veder nascere il tuo bimbo»).
Gli stessi sentimenti vengono ribaditi più volte verso il figlio Giovanni («Ti devo trattare da uomo, anche se non riesco a distaccarmi dalla tua immagine di piccolino, tanto amato e tanto accarezzato»). Ma è infine nelle ultime tragiche giornate che il colloquio d’amore tra Moro e la famiglia raggiunge il vertice della tragica dignità. Nella lettera scritta presumibilmente prima del 5 maggio, a quattro giorni dall’epilogo di via Caetani, Moro è consapevole del destino che lo attende, reso ancora più tragico dall’illusione di un esito diverso («Mia dolcissima Noretta, dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo»).
Ciò che passa in quegli istanti e strappa senso ad un destino incomprensibile e inaccettabile è la tenerezza infinita verso la propria famiglia: «per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e ciascuno, un amore grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi».
Ma è ovviamente la moglie Noretta il tramite ultimo di un uomo che si prepara ad affrontare una morte ingiusta, prolungamento ideale dell’anima di Aldo, è la sposa ad accompagnare l’uomo nel trapasso doloroso tra terra e cielo: «Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli.
A ciascuno la mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo» (5 maggio 1978).