Nei giorni scorsi, alcuni giornali hanno messo in evidenza la presentazione del volume Chiese della periferia romana, dedicato alla edilizia sacra romana nel periodo 2000-2013 (a cura di monsignor Liberio Andreatta, Marco Petreschi e Nilda Valentin, Electa 2013) che ha avuto luogo il 14 maggio presso la Sala della Promoteca in Campidoglio. Sono state riportate, in particolare, le affermazioni del cardinal vicario Agostino Vallini, del prof. Marco Petreschi, ordinario di Composizione Architettonica e Urbana presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Roma “La Sapienza” e specialmente le parole del prof. Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani.
Il cardinal Vallini ha affermato: «In un’epoca in cui si parla di ‘società liquida’, c’è ancor più bisogno di luoghi che diano risposte alle grandi domande dell’uomo […] Non entro nel merito dell’arte ma indubbiamente una chiesa che sia anche bella, eleva lo spirito […] chi si occupa di architettura sacra, sia mosso da valori cristiani». Il professor Petreschi ha ricordato che « dopo il ‘68 parlare di spazio sacro era diventato una bestemmia»1.
Ma l’intervento che ha destato più interesse e che più fa riflettere è stato quello del prof. Antonio Paolucci: «Io invece, pur avendo visto e rivisto, letto e riletto questo volume non posso non rilevare quanta confusione regni sotto il cielo di Roma in materia di nuove chiese. E la situazione non può che generare preoccupazione. Chiese? Parrocchie? Ma qui siamo al massimo davanti a spazi museali, ambienti che non invitano alla preghiera e alla meditazione […] Niente a che vedere con le chiese barocche che da secoli “parlano” della fede cristiana con tabernacoli ben visibili, cupole, icone, immagini della vita della Chiesa che aiutano i parroci nelle loro catechesi. Persino le chiese ortodosse della Russia assolvono in pieno a questi compiti di formazione e di catechesi»2.
Raccogliamo seriamente l’invito alla riflessione proposto con chiarezza da Paolucci, che introduce profondamente nella questione di cosa sia arte sacra e quanto sia importante ancora oggi.
Come abbiamo argomentato più volte in queste riflessioni sull’arte, è fondamentale comprendere che esistono vari “sistemi d’arte” legati biunivocamente a “visioni del mondo” e che i sistemi di arte esprimono una visione del mondo, e non sono viceversa “forme libere” che volano nell’aria e che posso essere colte qua e là per rappresentare genericamente qualunque religione, come se fossero segni neutri. Questo discorso sui sistemi artistici, di fatto vale per ogni discorso sulle culture; le culture non sono neutre, ma ciascuna porta una visione del mondo. La reale dinamica dell’inculturazione consiste nel portare Cristo nelle culture altre per fecondarle e non viceversa.
La concezione che vuole che qualunque cultura passata, presente, pre-cristiana o anti-cristiana o ateista, possa, ex abrupto, senza alcuna riflessione o mediazione, senza alcun vaglio e senza alcuna fecondazione, rappresentare Cristo, di fatto concede alla cultura e all’arte, qualunque essa sia, un valore assoluto, sciolto da qualunque legame, e dunque neutramente coniugabile con tutto. Questa idea di arte intrinsecamente assoluta, circolante da oltre un secolo, da una parte è un effetto di una visione romantica (sotto certi aspetti hegeliana) della storia dell’arte e dall’altra è manifesto di una visone immanentista e materialista della stessa arte, che ha concepito il rapporto con il cristianesimo solo come funzionale o opportunista, senza riconoscere invece le profonde radici cristiane, ancor più cattoliche, che reggono il concetto stesso di arte.3
Il sistema d’arte cristiano si è formato lentamente ed efficacemente per dire Cristo, inventando e raffinando strumenti linguistici e sintattici, approntati ed apparecchiati nel corso dei secoli appositamente con il fine di rendere gloria a Dio, di rappresentare il mistero dell’Incarnazione, morte e Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo Salvatore del mondo.
È chiaro a tutti che il cordoglio per le rotture, le crisi, le discontinuità della modernità abbiano creato molti problemi – forse tanti quanti volevano risolverne – soprattutto nel campo delle arti, ed ancora ne creano, perché le ideologie del Novecento, pur essendo ormai da molto tempo tramontate, hanno prodotto una più tenace visione d’insieme, che rimane comunque ideologica e che domina apparentemente senza “imperare”.
Faccio riferimento a ciò che Benedetto XVI ha potentemente chiamato la “dittatura del relativismo”, secondo la quale in campo artistico tutto è ammesso tranne ciò che è veramente sacro, tranne ciò che è “cattolico”, tutto è permesso tranne ciò che è “bello” (ed anche vero e buono).
Di fatto, come le parole di Antonio Paolucci indicano, anche la cultura cattolica si è smarrita, rincorrendo qua e là cose che non le appartengono e rinunciando a ciò che le era più proprio.
Quell’idea – talvolta quel sentimento – che si è fatto strada negli ultimi due secoli, prima nel pensiero laicista, poi in quello ateista e poi anche all’interno (in varie forme più o meno gravi) in certe sfumature del pensiero cattolico, che la “storia è finita”, che la “verità è morta”, che la “Chiesa è sorpassata”, con le conseguenti ripercussioni in ambito artistico ed estetico che la “bellezza è superata” e che la “figurazione e la narrazione sono inutili”, ha di fatto messo sotto scacco il pensiero cattolico: da una parte snaturandolo e a volte costringendolo a contraddirsi, dall’altra parte portandolo per reazione a trincerarsi in strenui atti di difesa dell’immutabile forma passata.
Entrambi questi due movimenti, antagonisti a volte fieri e leali, altre volte subdoli e virulenti, hanno accettato di fatto che realmente la storia sia finita, da una parte affermando che il tempo abbia superato la Chiesa, dall’altra fissando la Chiesa nel passato fuori dal tempo, in entrambi i casi pensandola sterile, non più capace di una dinamica forza di auto generarsi, non più capace di essere guida nel tempo.
Benedetto XVI indicando l’ermeneutica migliore per comprendere il Concilio Vaticano II, ovvero l’ermeneutica della continuità, ha anche indicato come leggere la storia, gli eventi, con fede nei confronti dello Spirito Santo che guida sempre la Chiesa, mantenendo salda la nostra identità culturale in un saggio e proficuo spirito di “continuità” con tutta la nostra ricchissima tradizione, senza aver mai paura di fare passi avanti per tenere il passo della Chiesa, che è sempre attuale. Un grande pontefice dei primi secoli San Stefano I (III sec.) ha scritto «Nihil innovetur, nisi quod traditum est», ovvero non c’è possibilità di alcuna innovazione se questa non riposa sulla tradizione.
Quindi la soluzione più saggia non è quella dell’immobilismo infecondo, né quella della discontinuità rivoluzionaria straniante, ma sempre quella dell’innovazione nella continuità con la tradizione. L’aspetto più importante è non perdere la dimensione fondante dell’arte cristiana, che è il molteplice e infinito ripetere il gesto della Maddalena che unge di olio profumato i piedi di Gesù. Ed ad ogni ideologia che tradisce questo spirito dell’arte sacra, occorrerebbe rispondere con le parole usate recentemente da papa Francesco: «L’ideologo non sa cosa sia l’amore, perché non sa darsi»4.
Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Storico dell’arte, Accademico Ordinario Pontificio. Website: www.rodolfopapa.it Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com
e.mail: rodolfo_papa@infinito.it.
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NOTE
1 Cfr. http://www.zenit.org/it/articles/chiese-della-periferia-romana-2000-2013.
2 Cfr. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/05/16/le-chiese-degli-archistar-sembrano-magazzini.html
3 Cfr. Rodolfo Papa, Discorsi sull’arte sacra, Cantagalli, Siena, 2012, pp. 69-118.
4 Cfr. http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/francesco-francis-francisco-24823/