Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata questa sera dal Patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia, nel tempio del Redentore alla Giudecca (Venezia) in occasione dell’annuale e sentitissima Festa veneziana.
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Come ogni anno, la terza domenica di luglio, dopo aver attraversato il ponte votivo di barche, i veneziani si ritrovano nell’isola della Giudecca. Il motivo è la festa del Santissimo Redentore, una delle ricorrenze più care per Venezia. La storia ci riporta al sedicesimo secolo, ad un evento tragico: la peste che, negli anni dal 1575 al 1577, infierì crudelmente sulla città. Una volta constatata la loro impotenza, gli uomini – come ancor oggi accade – si volsero al cielo. E il Senato della Repubblica fece voto di erigere una nuova chiesa dedicata al Santissimo Redentore: era il 4 settembre 1576.
Si cercò, così, di ottenere – tramite l’intervento di Dio – quello che gli uomini non erano in grado di fare. La liberazione della città dal morbo – che aveva iniziato a mietere vittime l’estate precedente – avvenne solo l’anno successivo, nell’estate del 1577. Fu un’epidemia di proporzioni spaventose che provocò – in soli due anni – la morte di più di un terzo della popolazione.
Del progetto della chiesa fu incaricato Andrea Palladio, tra le personalità più geniali dell’architettura occidentale, allora, proto-architetto della Repubblica. Alla fine della pestilenza – luglio 1577 – si decise di festeggiare con cadenza annuale la liberazione della città allestendo, tra l’altro, il ponte votivo di barche che lega le Zattere al Sagrato della basilica palladiana.
Oggi, dopo quasi cinque secoli, la festa del Redentore è ancora viva tra il popolo che vi partecipa numeroso. Vi è, però, il rischio che il significato religioso della festa venga oscurato e la componente folcloristica prenda il sopravvento giungendo ad azzerare quella religiosa.
D’altra parte è evidente che una celebrazione religiosa entrata nel comune sentire della polis, in un contesto fortemente secolarizzato come l’attuale, rischi di veder compromesso l’originario senso religioso. Così è anche per la festa veneziana del Redentore.
Questa considerazione ci porta a riflettere su un tema più ampio – seppure a questo connesso – quello della laicità; e proprio su di esso desidero soffermarmi in questa festa del Redentore. Una sana laicità – vedremo in che senso – è fondamentale sia per il cittadino sia per il cristiano; essa, infatti, è legata alla struttura stessa della persona di cui l’umano e il creaturale sono dimensioni imprescindibili.
In altri termini, la persona – nella sua realtà antropologico-creaturale – viene temporalmente e ontologicamente prima dello Stato (quindi del cittadino) e dell’adesione a qualsiasi religione (quindi del credente). In tal modo la festa del Redentore – nella sua acuita problematicità, ovvero il religioso che entra nel tessuto socio-culturale sempre più secolarizzato della civis – domanda di considerare, in modo più ampio, il rapporto fra sfera sacra o religiosa e profana o secolare.
Riflettiamo, quindi, sulla laicità che sta sullo sfondo di quanto detto finora a proposito del rapporto sacro/profano, religioso/secolare. La laicità – per il cittadino e il credente – è realtà fondamentale. Ricordiamo, per esempio, che per la Chiesa la fede – ossia, il “sì” detto a Gesù Cristo – deve essere scelta libera e responsabile.
Non dimentichiamo poi che la sfera sacrale/religiosa o profana/secolare – prima di riguardare ambiti distinti della convivenza sociale e civile e, quindi, prima d’essere esteriore all’uomo – riguarda ambiti distinti “all’interno” dell’uomo, che appartengono all’uomo e lo costituiscono tale.
La risposta di Gesù, a coloro che domandavano se era lecito o no pagare il tributo a Cesare, indica un percorso sempre valido al di là di situazioni contingenti o singole epoche. Gesù pone una distinzione che è – ad un tempo – fondante e fondamentale; infatti, Dio e Cesare, nei loro ambiti specifici, sono interlocutori imprescindibili per l’uomo di ogni epoca.
Si tratta – lo abbiamo detto – di una distinzione fondamentale e fondante perché, fino ad allora, né lo Stato ebraico, con la sua teocrazia, né l’impero romano, con il culto a Cesare, erano pervenuti alla vera laicità, quella che Gesù indica.
La distinzione è fondamentale e fondante, poiché in essa c’è la vera novità da cui deriva la forma moderna dello Stato, ossia la possibilità d’essere sia leali sudditi del “re”, pur essendo uomini di fede, sia veri credenti ed insieme autentici cittadini impegnati a lavorare per il bene della civis.
Cito qui la figura luminosa e oggi attualissima – per l’obiezione di coscienza – di Tommaso Moro, primo ministro del Re che muore per difendere la sua libertà di credente. Tommaso Moro è stato canonizzato dalla Chiesa cattolica nel 1935 e dal 1980 il suo nome è inserito anche nel martirologio anglicano. È universalmente riconosciuto come simbolo di integrità ed eroico testimone del primato della coscienza al di là dei confini nazionali e delle confessionireligiose. Le sue ultime parole furono: «Muoio come buon servo del Re, ma anzitutto come servo di Dio». Un grande ideale per tutti coloro che dedicano la propria vita al servizio del bene comune (cfr. Atti del Giubileo dei Governanti e dei Parlamentari / anno 2000).
Ritorniamo alle parole di Gesù: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22,21). Si tratta di riflettere, in modo compiuto, sulla laicità considerata snodo essenziale sia nella vita del credente sia del cittadino. Credente e cittadino devono guardarsi dai differenti “confessionalismi”: religioso, scientista, laicista. Molte, infatti, sono le forme di confessionalismo: quello religioso, quello tecno-scientifico, infine, quello ideologico politico-partitico o culturale.
Oltre la forma di confessionalismo religioso si danno anche quelli tecnico-scientifico e ideologico politico-culturale che, a loro volta, sono opprimenti e pervasivi per la libertà di coscienza dei credenti e dei cittadini. La storia, in proposito, fornisce un amplissimo campionario che si dispiega lungo le differenti epoche.
Il tema della laicità – e non da oggi – è occasione di incomprensioni sia a livello culturale sia politico. E i molteplici significati che, di volta in volta, vengono attribuiti al termine “laico” e “laicità” dicono quanto sia necessario far chiarezza anche a livello di significato poiché il termine, attualmente, risulta in sé equivoco e ognuno finisce per intenderlo in modi diversi; il discorso meriterebbe d’esser approfondito secondo tale ampia logica ma stiamo, invece, su una prospettiva più ristretta, quella che riguarda il nostro ordinamento giuridico.
Nel nostro ordinamento giuridico – è bene ricordarlo – il termine “laicità” non compare nella legislazione ordinaria, né risulta utilizzato dalla Costituzione per qualificare l’atteggiamento dello Stato in materia religiosa; piuttosto, il principio di laicità è legato alla giurisprudenza della Corte Costituzionale. E’ la Corte Costituzionale che, in una famosa sentenza della fine degli anni Ottanta (la n. 203 del 1989), qualifica il principio di laicità come “principio supremo dell’ordinamento costituzionale” e come “uno dei profili della forma di Stato delineato dalla Costituzione”.
E’, questo, un principio di laicità inteso in senso “aperto” e “positivo”, che non indica o suggerisce l’indifferenza o, addirittura, l’ostilità dello Stato dinanzi alla religione (o alle religioni) ma piuttosto il compito di garanzia che spetta allo Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in un contesto ormai accentuato di pluralismo confessionale e culturale.
Lo Stato, insomma, non può essere indifferente o neutrale di fronte alla religione
e qui non è in ballo solo la religione cattolica; lo Stato deve garantire la tutela della libertà religiosa come diritto fondamentale e inalienabile della persona, un diritto valido per tutti.
Una sana laicità, allora, è in grado di riconoscere, di rispettare e di valorizzare tanto la sfera sacrale/religiosa quanto quella profana/secolare nell’interesse del cittadino, di ogni cittadino e di tutti i cittadini. Una vera laicità comporta, quindi, il riconoscimento delle molteplici dimensioni dell’uomo che – come ricorda la Lettera ai Tessalonicesi – è spirito, anima e corpo (cfr. 1Ts 5,23). E, quindi, l’uomo è immanenza e trascendenza, relazionalità verticale (o teologica) e orizzontale (o antropologica) e, ancora, interiorità e esteriorità.
L’uomo è l’insieme di tutte queste dimensioni; tra esse, vi è anche quella religiosa che va vissuta in modo “pienamente umano”, come ogni altra dimensione della persona. Appare, così, tutta l’incongruenza di chi, invece, vorrebbe rinchiudere la fede (la religione) nel recinto interiore della coscienza personale.
Viene, allora, spontaneo domandarsi: perché per una realtà così importante e universalmente diffusa come quella religiosa deve essere preclusa la dimensione pubblica, esterna e visibile? Alla fine: ciò a chi giova? Riprendiamo le parole del Vangelo che, ad un tempo, chiariscono e indicano la strada valida per ogni persona di buona volontà: “Rendete… a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22,21).
Il Concilio Ecumenico Vaticano II – al n. 36 della costituzione pastorale Gaudium et spes – ha parlato dell’autonomia delle realtà terrene affermando che, insieme alle leggi che regolano la vita delle società civili, godono di legittima autonomia ma che tale autonomia non è mai qualcosa d’assoluto.
Il diritto, infatti, non ha come sua unica sorgente e fondamento lo Stato; tutte le volte che ciò si è verificato, nella storia, abbiamo dovuto dolorosamente constatare come l’uomo sia stato sacrificato sul piano della ragione di Stato, qualunque essa fosse: confessionale-religiosa, ideologico-politica, tecno-scientista.
Si vuol dire, qui, che l’autonomia delle realtà terrene non è un assoluto ma sottostà ad una valutazione morale che non è di qualcuno ma è il riconoscimento di qualcosa che viene prima della sfera religiosa ma, non di meno, prima della sfera politica e della tecno-scienza; così, di fronte a questioni altissime come quelle della vita, non c’è legge degli uomini che tenga. E, in ultima istanza, per opporsi a un’ingiustizia altrimenti irreparabile, si dà la legittimità dell’obiezione di coscienza.
La festa religiosa e civile del Redentore diventi occasione – per i credenti e i non credenti – per riscoprire il senso di una laicità che porti a vivere nel rispetto delle prerogative antropologiche fondamentali e non miri a ridurre e costringere nel chiuso della coscienza individuale i propri convincimenti iniziando da quelli religiosi. Ricordiamo ancora le ultime parole di Tommaso Moro: «Muoio come buon servo del Re, ma anzitutto come servo di Dio».
La laicità sia un ponte – e il ponte di barche che unisce le Zattere al sagrato del Redentore ne è il simbolo – verso quanti non hanno il nostro modo di “sentire” ma hanno a cuore l’uomo, tutto l’uomo – e non solo una sua parte – e ancora, tutti gli uomini e, alla fine, il bene comune.