Tra le vicende eroiche della Seconda Guerra Mondiale è assai celebre quella del Servo di Dio Salvo D’Acquisto. Pressoché sconosciuta è invece la storia dei tre carabinieri che sacrificarono la vita a Fiesole durante l’occupazione nazista.
Ad essi è ispirata la fiction televisiva A testa alta, in programma lunedì 2 giugno su Raiuno, alle 21.15.
Prodotta da Sergio Giussani e diretta da Maurizio Zaccaro, la fiction vede tra i principali interpreti Giorgio Pasotti, Ettore Bassi, Marco Cocci, Johannes Brandrup, Andrea Bosca, Alessandro Sperduti, Giovanni Scifoni, Raffaella Rea, Nicole Grimaudo e David Coco.
Il film è stato scritto da Alessandro Pondi e Paolo Logli, in collaborazione con Giovanna Mori e Leone Pompucci.
A colloquio con ZENIT, il produttore Sergio Giussani ha raccontato come è nata la fiction di imminente trasmissione.
Che storia è narrata nella fiction A testa alta?
L’episodio dei martiri di Fiesole è quasi sconosciuto: quando me ne parlarono a suo tempo, decisi che era un’altra di quelle storie che andavano raccontate, in primo luogo perché parla di atti eroici compiuti da ragazzi di 20 anni: un esempio per i loro coetanei di oggi …
La storia è solo in parte simile a quella di Salvo d’Acquisto, che io stesso ho prodotto alcuni anni fa. Mentre Salvo D’Acquisto si trovava con gli ostaggi sotto la torre e, al momento della fucilazione, disse: “il colpevole sono io”, i tre eroi di Fiesole inizialmente non erano sul luogo del dramma; se ne erano andati per ordine del comandante per unirsi alla Brigata Partigiana che doveva liberare Firenze. Vennero a conoscenza della presa degli ostaggi soltanto dopo, tramite una comunicazione fatta loro da un sacerdote, quindi decisero di tornare indietro per andare a morire e non erano costretti a farlo, anche perché la popolazione in quel periodo sapeva che i carabinieri aiutavano i partigiani.
Qual è, a suo avviso, l’elemento più originale della fiction da lei prodotta?
L’originalità è innanzitutto nell’argomento, una forma didattica per far conoscere come in quel periodo così travagliato ci fossero ventenni che erano maturi come dei quarantenni d’oggi. In quegli anni ce ne furono tantissimi di casi simili. Oltre a Salvo D’Acquisto, un’altra figura di spicco è quella di Giovanni Palatucci che, sempre in quegli anni salvò circa 6000 ebrei dai campi di concentramento.
L’originalità sta anche nel fatto che A testa alta è una fiction raccontata con lo stile e le immagini di un film. Con questo approccio ho realizzato anche la storia di Giuseppe Moscati il santo medico napoletano, con Beppe Fiorello: quel film fu diretto da Giacomo Campiotti, un regista che, come me, viene dal cinema. Avendo io iniziato vent’anni fa con il cinema ed essendo la maggior parte della mia esperienza in questo campo, il taglio delle mie opere è essenzialmente cinematografico.
Secondo lei, a cosa è dovuto il successo di fiction a sfondo religioso come quella su Giuseppe Moscati, da lei citata?
Il film su Moscati non lo girai tanto per motivi religiosi o perché lui sia un santo: ho voluto raccontare l’uomo e il medico. Questo tipo di racconti, comunque, ha successo perché rappresenta la vita di tutti i giorni e nel corso della vita possono capitare fatti anche assai importanti. Parliamo di eroi che hanno sacrificato la vita ma anche di un medico che ha sacrificato se stesso per aiutare gli altri e poi è stato canonizzato per miracoli avvenuti dopo la sua morte. Queste fiction sono raccontate in maniera tale che vadano al cuore del pubblico e se il pubblico si commuove vuol dire che è entrato nel racconto, ha capito e ha partecipato al dramma e al sacrificio di personaggi che, dopo varie sventure, contribuiscono al ritorno alla normalità.
Si parla spesso della TV come un mondo spietato e competitivo, in cui i programmi rispecchiano quell’assenza di valori. Non mancano, tuttavia, produzioni che mostrano una realtà assai più positiva. Sono possibili una televisione e, in particolare, una fiction diverse?
La possibilità c’è, poi dipende da chi realizza i prodotti. Nel mio caso nascono dalla mia immaginazione e io li seguo personalmente nell’idea, nella scrittura, nella realizzazione e nel montaggio. Quando una copia arriva sullo schermo, io non ho perso un attimo della vita di quel prodotto, cercando di dargli il massimo.
Molte altre fiction, purtroppo, non hanno lo stesso risultato perché molti miei colleghi non seguono questa prassi: una volta che hanno ricevuto l’ok per la realizzazione, lo mettono in mano al regista e, a livello produttivo, all’organizzatore che segue il film. Il regista e l’organizzatore fanno il film, lo sottopongono al produttore il quale molte volte dice che va bene, perché gli interessa soltanto aver concluso un affare.
Invece i registi che lavorano per la televisione, chiunque essi siano, hanno bisogno di qualcuno che ne sappia un po’ più di loro. È il mio caso perché sono 50 anni che mi occupo di cinema e di TV.
Secondo me la fiction, come tutto quello che arriva dal piccolo schermo viene comunque recepita da quasi tutti come un insegnamento, un po’ come se ci fosse un professore in cattedra. Quindi certe storie, secondo me, non andrebbero raccontate perché sono deleterie e distorsive: penso a Gomorra, dove i camorristi, i banditi e gli assassini vengono presentati come fossero degli eroi. È un errore madornale perché la maggioranza del pubblico prende quel messaggio come fosse un esempio e l’esempio non deve essere mai negativo, anzi, sempre istruttivo. Quello che arriva in tutte le case viene percepito come una lezione, quindi io stesso cerco sempre di calibrare i miei prodotti in un’ottica positiva.