Penitenza: Sacramento della misericordia

L’intervento di monsignor Rino Fisichella al XVII Convegno nazionale dell’Opera Romana Pellegrinaggi

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Riportiamo di seguito la relazione di monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione, al XVII Convegno Nazionale dell’Opera Romana Pellegrinaggi sul tema Il pellegrinaggio: tempo e luogo di riconciliazione e conversione (Roma, 8-11 febbraio 2015).

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Riflettere sul sacramento della riconciliazione equivale, in primo luogo, a toccare con mano la nostalgia di Dio e il desiderio di far parte della comunità cristiana. E’, infatti, alla luce di queste due prospettive che diventa più evidente il profondo valore che la confessione possiede. Spezzato il cerchio del rimanere rinchiusi in se stessi, il sacramento della riconciliazione permette di relazionarsi di nuovo con Dio e con i fratelli in una maniera sempre nuova, frutto dell’avere sperimentato la misericordia del Padre.

Il primato della misericordia

Misericordia. Questa parola non lascia spazio ad alcuna ambiguità. Essa non ha nulla di astratto, ma indica un fatto concreto, visibile e tangibile con il quale si sperimenta l’amore che giunge fino al perdono. Il termine ebraico al quale facciamo riferimento dice: rahamîn, e indica “il luogo tenero di un essere umano”. In qualche modo, si vuole esprimere, l’unità profonda con un’altra persona: “sentirsi o sapersi una cosa sola con un altro”. In modo ancora più esplicito, il termine rinvia al “senso di intima unione del padre e della madre col proprio figlio, dei fratelli, degli sposi tra loro” [1]. L’immagine più conosciuta, che rende plastico il significato di rahamîn, rinvia alle viscere della madre che si commuove per il proprio figlio. Un testo del profeta Isaia, nel nostro contesto, è con ogni probabilità tra i più eloquenti: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai" (Is 49,15). Al rifiuto, in cui spesso l’uomo cade, di non voler ascoltare Dio con il conseguente oblio del suo amore, corrisponde il “tempo della misericordia” (Is 49,1) con cui il Padre ascolta la voce e la supplica dei suoi figli. Nel termine misericordia, insomma, si ritrova la sintesi dell’agire di Dio e si scopre il valore della sua responsabilità verso di noi. Uno sguardo anche veloce alla sacra Scrittura, infatti, mostra con chiarezza che il termine è usato principalmente per indicare l’agire di Dio [2]. Dio è misericordioso e per questo è responsabile del suo popolo e di ogni sua creatura. Non esiste amore senza assunzione di responsabilità verso chi si ama. L’amore misericordioso del Padre, pertanto si presenta dinanzi ai nostri occhi come un amore fortemente e pienamente responsabile. Egli, in forza di questa responsabilità amorosa, assume su di sé il peccato, distruggendo la colpa originaria del primo Adamo (cfr Rm 5,6-21).

Tra i tanti testi della sacra Scrittura che parlano della misericordia, uno appare particolarmente prezioso per il nostro tema. Lo si trova nei Salmi quando si prega dicendo: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore” (Sl 103,8) [3]. La citazione di questo salmo ritorna diverse volte nel Nuovo Testamento. Il Magnificat ne è il richiamo testuale più forte, ma anche nel Benedictus ritornano espressioni similari. L’apostolo Giacomo lo cita testualmente nella sua lettera, quando richiama i primi credenti ad essere pazienti nell’attesa del Signore: “Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione” (Gc 5,11). Il salmo, con cinque secoli di anticipo, manifesta il progressivo e inarrestabile fiume della rivelazione che sfocerà nel testo giovanneo “Dio è amore” (1 Gv 4,8). Per la prima e unica volta in tutta la Sacra Scrittura, Giovanni attesta la natura di Dio come “agape”, amore che si dona completamente a tutti. Questa rivelazione trova il suo primo pallido riflesso anticipatore nel nostro salmo. Qui, in maniera esplicita e quasi letterale, viene riproposta la rivelazione del nome di Dio che troviamo nel libro dell’Esodo: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà” (Es 34,6). Più volte ritornano nel salmo le espressioni di fedeltà e misericordia, con l’intento di evidenziare la condizione dell’uomo peccatore e l’agire misericordioso di Dio. Il cuore dell’insegnamento di questo salmo, comunque, è centrato sul perdono del peccato. Agli occhi del salmista, infatti, questo rappresenta il dono più sconvolgente che Dio possa fare. La descrizione del peccato come un “curvarsi” su se stesso (v. 3), un “fallire” (v. 10) e un “ribellarsi” al volere di Dio (v. 12) non fanno altro che evidenziare al massimo il comportamento del Padre che va incontro al figlio debole, malato e peccatore liberandolo da tutte le sue colpe e da tutte le sue malattie. Le “viscere” della misericordia divina hanno la meglio sulla ribellione dell’uomo, conducendo alla conversione e al recupero pieno della figliolanza [4].

La riconciliazione necessaria

Queste considerazioni introducono a verificare il grande rilievo che il sacramento della riconciliazione possiede nella vita del credente. La profonda crisi di fede che tocca la Chiesa ha intaccato da molti anni ormai anche il sacramento della penitenza. Nell’impegno della nuova evangelizzazione, il rinnovamento della pastorale dovrebbe incidere fortemente per riportare a un posto centrale questo sacramento. Esso, infatti, richiede da parte dei Pastori un impegno ancora più grande, soprattutto se confrontato con l’esigenza di un nuovo linguaggio per l’annuncio e la professione di fede. Sono molti i motivi che hanno portato all’oscuramento del sacramento che più di ogni altro esprime il valore della misericordia di Dio. Da decenni la sua profonda crisi, è determinata non solo dalla sempre più grande diminuzione dei fedeli che vi si accostano, ma in modo ancora più drammatico dalle cause che ne hanno determinano l’allontanamento. Per paradossale che possa sembrare, si è in presenza di una “coscienza schizofrenica”. Da una parte, infatti, il credente ha maturato una sua coscienza individuale all’interno della quale giudica i suoi atti; dall’altra, però questa prescinde dall’insegnamento della Chiesa, che è sempre meno conosciuto e assunto come criterio di giudizio. Due aspetti, in particolare, sembrano importanti per entrare progressivamente nel tema e verificare la possibilità di un superamento della crisi.

1. In primo luogo, è venuto meno l’annuncio centrale della predicazione di Gesù: la metanoia come invito ad accogliere in noi il Vangelo e cambiare vita. L’annuncio è diventato teorico, senza un riscontro concreto come la presentazione di un’esperienza di gratuità e di gioia che proviene dall’abbandonarsi a Dio liberamente con la scelta di fede. E’ sintomatico dover verificare come la mancanza di saper “dare ragione” della propria fede, determinato da una ignoranza dei suoi contenuti, abbia portato alla crisi della confessione come una delle sue prime conseguenze. Di fatto, si è giunti all’incapacità di giustificare il sacramento della penitenza come quello di un incontro reale con il Signore nel momento della propria debolezza, causata soprattutto dalla sua assenza. In altre parole, l’annuncio a vivere nel mondo etsi deus non daretur, ha colto nel segno ed ha portato a sperimentare l’assenza di Dio come un fatto acquisito. Questa assenza, purtroppo, è stata identificata come il criterio per una raggiunta libertà e indipendenza personale che finalmente portava il credente alla sua autonomia di giudizio. Egli, quindi, si ritrova solo davanti alla sua coscienza, solo che questa è priva di ogni mediazione ecclesiale. Se a questo si aggiunge, ad esempio, l’assuefazione ad essere cristiani come
un fenomeno culturale, un paternalismo clericale coniugato con un serpeggiante pelagianesimo rivisto e corretto per i nostri tempi, un’esasperata visione moralista che riduce tutto al sesto comandamento, e una parziale presentazione del sacramento dell’eucaristia come apportatrice di perdono e di salvezza… questi e altri elementi sono sfociati nell’eclissare il valore della consapevolezza del peccato e dell’assenza di Dio nella vita personale. Se Dio doveva rimanere al di fuori dell’esistenza personale, perché il credente è diventato ormai adulto e in grado di condurre la sua vita in maniera autonoma e indipendente, è ovvio che il riconoscimento dell’assenza di Dio oltre che difficile, diventa superfluo. Forse aveva ragione M. Heidegger quando scriveva: “Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà, perché diventa sempre più povero. E’ già diventato tanto povero da on riconoscere l’assenza di Dio come assenza”.

Insomma, siamo dinanzi a un uomo che si è illuso sulla propria vita. E’ oggetto di una pubblicità tanto martellante quanto fastidiosa che gli impone una visione effimera dell’esistenza, allontanandolo dal profondo della sua coscienza e da una spiritualità che gli dia sostegno e forza. Incapace di trovare un orientamento che abbia a guidare la sua esistenza, si trova solo con se stesso, rinchiuso in un individualismo asfissiante e incapace di relazioni stabili alla luce dell’amore. Ingannato in ciò che vi è di più sacro nella vita come l’amore, cade facilmente preda di passioni passeggere che diventano veicolo per una tristezza ancora più grande. Instabile per la precarietà delle situazioni, attende il momento del divertimento di fine settimana come la porzione d’ossigeno sufficiente per riprendere poi da capo con la monotonia imposta del lunedì mattina. Per usare le parole di Papa Francesco, potremmo dire che: “Il processo di secolarizzazione tende a ridurre la fede e la Chiesa all’ambito privato e intimo. Inoltre, con la negazione di ogni trascendenza, ha prodotto una crescente deformazione etica, un indebolimento del senso del peccato personale e sociale e un progressivo aumento del relativismo, che danno luogo ad un disorientamento generalizzato, specialmente nella fase dell’adolescenza e della giovinezza, tanto vulnerabile dai cambiamenti” (Eg 64). Insomma, è necessario e urgente ricondurre il nostro contemporaneo all’incontro con se stesso, per permettergli di riscoprire la verità sulla sua vita. L’insegnamento di s. Agostino permane come la strada maestra da percorrere: “Noli foras ire. In te ipsum redi in interiore homine habitat veritas… et si naturam tuam mutabilem inveneris trascende te ipsum”. La confessione, da questa prospettiva, è strumento efficace che trasforma l’uomo. Essa lo riporta nel silenzio della sua coscienza e pone ognuno davanti alla verità della propria vita, senza illusione alcuna. In un periodo in cui il senso di onnipotenza pervade non pochi, e si confonde il sogno con la realtà, pensando che tutto possa essere acquistato o sia esclusivo possesso individuale, ritornare a fare i conti con chi si è realmente non sarebbe un danno, ma un’urgente necessità. In questo contesto, acquista un valore particolare educare all’esame di coscienza

2. Una seconda causa della crisi del sacramento della riconciliazione è la perdita del senso di appartenenza alla comunità. La supremazia del relativismo non è solo una questione di carattere filosofico che può soddisfare il dibattito tra gli specialisti. Una simile forma di pensiero è entrata inevitabilmente nei comportamenti delle persone creando una cultura conseguenziale. Ciò che si può verificare è certamente l’enfasi su un soggettivismo che rinchiude in se stesso, impedendo la relazione interpersonale e con essa il senso di responsabilità sociale. La riconciliazione, invece, avviene nella Chiesa, con la Chiesa e mediante la Chiesa. Sono significative, da questo punto di vista, le parole di Papa Francesco: “È la comunità cristiana il luogo in cui si rende presente lo Spirito, il quale rinnova i cuori nell’amore di Dio e fa di tutti i fratelli una cosa sola, in Cristo Gesù. Ecco allora perché non basta chiedere perdono al Signore nella propria mente e nel proprio cuore, ma è necessario confessare umilmente e fiduciosamente i propri peccati al ministro della Chiesa. Nella celebrazione di questo Sacramento, il sacerdote non rappresenta soltanto Dio, ma tutta la comunità, che si riconosce nella fragilità di ogni suo membro, che ascolta commossa il suo pentimento, che si riconcilia con lui, che lo rincuora e lo accompagna nel cammino di conversione e maturazione umana e cristiana. Uno può dire: io mi confesso soltanto con Dio. Sì, tu puoi dire a Dio ‘perdonami’, e dire i tuoi peccati, ma i nostri peccati sono anche contro i fratelli, contro la Chiesa. Per questo è necessario chiedere perdono alla Chiesa, ai fratelli, nella persona del sacerdote [5].

Questa dimensione ecclesiale, comunque, è la condizione per accedere con coerenza all’insegnamento della Parola del Signore quando istituisce il sacramento. Non si dimentichi che esso avviene nel giorno di Pasqua. Riprendere tra le mani il testo dell’evangelista non sarà inutile per scoprire il legame tra misericordia e sacramento della riconciliazione. “La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,19-23). Questo testo ha un’importanza capitale per la fede e per la vita della comunità. Dopo che il Risorto si è fatto vedere dalla Maddalena ora si mostra ai discepoli i quali sono ricolmi di gioia proprio per “vedere il Signore” (v 20). L’apparizione di Gesù risorto ha come sua prima conseguenza quella di liberare i discepoli dalla “paura” e dalla tristezza; essi non sono più soli, perché il Maestro è ritornato in mezzo a loro e li raccoglie intorno a sé come faceva in precedenza. Due gesti di Gesù sono determinanti in questa apparizione: il primo, è la missione di annunciare il vangelo; il secondo, è alitare su di loro, donando lo Spirito Santo per il perdono dei peccati. “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Con queste parole inizia ora realmente la missione dei discepoli che ripetutamente Gesù aveva annunciato loro in precedenza. Si crea una vera continuità tra la missione di Gesù di essere segno concreto dell’amore del Padre, e quella dei discepoli che ricevono il potere di perdonare i peccati come conseguenza della risurrezione. Non si dimentichi, tra l’altro, che la missione di Gesù comporta non solo l’annuncio del Vangelo ma, insieme ad esso, la salvezza attraverso il perdono dei peccati: “Dio non ha mandato il Figlio per giudicare il mondo, ma perché il mondo fosse salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17).

Alle parole del Risorto, fa seguito immediatamente l’atto di “alitare” sui discepoli. Il gesto viene spiegato dalle parole che indicano il dono dello Spirito Santo per il perdono dei peccati. Questo di alitare da parte di Gesù Cristo, è un gesto unico nel Nuovo Testamento [6]. Significa trasmettere la vita: Con questo segno, Gesù rende partecipi i discepoli della sua stessa vita come risorto. Nel trasmettere il potere di perdonare i peccati, l’evangelista si ricollega con tutta la tradizione sinottica. Fin dal vocabolario utilizzato, Giovanni mostra con tutta evidenza l’unità dell’insegnamento di Gesù che rende la sua Chiesa una comunità dove i peccati sono perdonati, anzi per tradurre letteralmente il verbo, “cancellati”. Ha ben co
mpreso la portata di questo “soffiare” di Gesù sui discepoli, sant’Agostino quando in commento a questo passaggio dice: “La carità che per mezzo dello Spirito Santo viene riversata nei nostri cuori, rimette i peccati di coloro che fanno parte della comunità ecclesiale; ritiene invece i peccati di coloro che non ne fanno parte. E’ per questo che conferì il potere di rimettere i peccati subito dopo aver detto: Ricevete lo Spirito Santo” [7]. A tutto questo significato, si aggiunge quasi come ulteriore conferma, il saluto di pace “shalom” ripetute ben due volte. Ora Gesù dona ai discepoli la sua pace come esperienza concreta per la loro vita futura quando non sarà più fisicamente con loro. Da questo momento, la pace non è più solo un saluto generico o l’auspicio di una benedizione; diventa, piuttosto, una realtà, un dono concreto, un vero stile di vita di cui essere responsabili. Insomma, il dono della pace è la vita di riconciliazione, di amore e di comunione che dovrà consentire di riconoscere i suoi discepoli nel futuro.

La scena pasquale descritta da Giovanni trova un suo riscontro nel vangelo di Luca dove si legge: “Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: ‘Pace a voi!’. Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: ‘Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho’. Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: ‘Avete qui qualche cosa da mangiare?’. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: ‘Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi’. Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse: ‘Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni’”. (Lc 24,36-48). Di questa pericope, che mostra molti contatti con quella del quarto evangelista, ci interessano solo i versetti conclusivi (vv 46-47) che parlano del mistero pasquale di Gesù e soprattutto della predicazione che i discepoli dovranno fare della metanoia e del perdono dei peccati. Come si può osservare esiste un collegamento diretto tra la predicazione e il perdono. L’annuncio del Vangelo di Gesù apre il cuore dei credenti per accogliere la grazia della conversione e riconciliarsi in questo modo con il Padre.

Queste riflessioni mostrano che la vita della Chiesa è segnata da un percorso che trova nel triduo pasquale il suo cuore pulsante. Il giovedì santo, infatti, quando Gesù istituisce la santa eucaristia, è presente anche Giuda. In questo momento, il Maestro promette di rimanere sempre con i suoi fino a quando non berrà di quel calice nel regno del Padre alla fine dei tempi (cfr Mt 26,29). Il giorno di Pasqua, invece, il dono dello Spirito per il perdono dei peccati vede la cerchia dei discepoli purificata. Lo Spirito che viene donato per il perdono ha già permesso che il peccato del tradimento di Giuda, di Pietro e la fuga di tutti i discepoli fosse perdonato. Il Risorto riunisce i dispersi, purifica i traditori, dà forza ai timidi e coraggio ai paurosi. La riconciliazione è la comunione pienamente restituita; la presenza del Risorto in mezzo ai Dodici è la conferma più evidente. Lo Spirito che scioglie e lega è impresso come un sigillo nel corpo del Collegio Apostolico. Questo, ormai, è una comunità di discepoli, non una somma di individui.

Il perdono è un evento comunitario, perché il peccato porta con sé la separazione dalla comunità. Per l’impegno della nuova evangelizzazione a cui siamo tutti chiamati, ciò significa che è vincolante mantenere intatta questo legame attraverso una prassi pastorale che sappia farsi carico di coniugare annuncio e perdono dei peccati nella loro unità sostanziale che trova riscontro nella misericordia di Dio offerta concretamente dal sacramento della riconciliazione. Senza l’annuncio della metanoia non si potrà avere coscienza del proprio peccato e senza il sacramento della riconciliazione non si potrà avere un’efficace azione evangelizzatrice capace di far percepire la profondità dell’amore di Dio che giunge fino alla misericordia. Certo, ognuno sa che cadrà ancora negli stessi peccati, ma l’esperienza della misericordia ricevuta sarà prodromo per comprendere la gioia maggiore che si riceverà nel confessare il peccato. Si potrebbe dire che la ripetitività dei peccati rende evidente la monotonia di una simile esistenza. Essa evidenzia quanto si trascini la vita verso forme di sterilità che non aiutano a crescere e progredire. Nonostante questo, ogni confessione è unica. I peccati, probabilmente, sono sempre gli stessi. La formula di assoluzione è sempre identica. Eppure, l’esperienza del perdono permane nella sua unicità. L’incontro con il Signore in ogni confessione è sempre nuovo e restituisce la vita come una vera rinascita, perché si sperimenta la sua misericordia.

In questo contesto, comunque, non si può dimenticare che non ci si improvvisa penitenti né confessori. Il sacramento inizia con una seria preparazione che immette il penitente in uno spazio di silenzio e solitudine. Solo con se stesso, per comprendere chi è realmente. La preghiera, deve pervadere questo momento per porsi dinanzi a Dio in sincerità di cuore e di mente. La consapevolezza della propria attuale condizione di peccatore e l’esigenza della conversione con le conseguenze che questa comporta, impone il silenzio della preghiera e della riflessione. L’esame di coscienza possiede il compito immane di far toccare con mano la verità sulla propria vita per giungere a un coerente giudizio. Non è un momento facile, perché ognuno è avvolto nell’illusione e nell’inganno offerto dal vivere quotidiano. Il penitente, per questo, dovrà essere aiutato a ritrovare se stesso e a vedere il momento del sacramento come spazio efficace in cui gli è garantita una genuina crescita di maturità personale. In questo modo l’esame di coscienza potrà andare oltre la composizione di un più o meno completo elenco di peccati, per giungere finalmente ad individuare la causa che li provoca. La vera conversione, d’altronde, si raggiunge proprio quando ho raggiunto la consapevolezza della causa del mio peccato e non la sua manifestazione. Sarà così anche per l’esperienza della misericordia. Questa non sarà solo una forma che dà certezza del perdono ricevuto, ma la causa del cambiamento che a partire da qui si sviluppa nell’orizzonte dell’amore e del perdono verso i fratelli. Nessuno che abbia avuto esperienza della misericordia di Dio, infatti, può chiudere il suo cuore nell’aprire se stesso per diventare a sua volta segno e strumento di misericordia.

È significativo, in questo contesto, riportare un brano di uno degli autori più fecondi dell’oriente nel IV sec. s. Efrem il Siro. Facendo da eco alla leggenda del pellicano, scrive: “Affliggiti per Dio, che per te Dio si affligge. Per il peccato la tua anima è morta: versa lacrime ardenti e svegliala così dalla morte: dà a Dio questa gioia, perché egli si rallegra se tu ridesti la tua anima. Vi è un uccello che risuscita i suoi figli; la sua covata se muore, egli la ridesta alla vita. Quando gli nascono i figli, egli se ne rallegra immensamente e blandendoli troppo li soffoca, tanto che quelli muoiono. Ma quando se li vede morti e vede che non si muovono più e non si agitano , allora se ne sta per tre giorni angosciato, affranto dal dolore; non prende né cibo né bevanda, ma non si allontana da essi; sta loro vicino e li custodisce. Alla fine si squarcia il corpo e li bagna
con il proprio sangue e allora, per disposizione di Dio, i corpicini morti tornano in vita. Se, dunque, un uccello riesce in tal modo a svegliare dalla morte i suoi piccoli, anche tu, o peccatore, sveglia alla vita la tua anima morta. E se Dio ha compassione del pellicano… quanto più Dio avrà compassione della tua anima” [8]. Con la confessione, insomma, ognuno scopre che finalmente può essere trasformato e rinascere a vita nuova. Il perdono donato trasforma la vita, e da peccatore si ritorna alla pienezza della grazia. Da escluso al banchetto, a purificato rivestito dell’abito nunziale (cfr Mt 22,8-10). Il sacramento della confessione, insomma, con la valenza antropologica che possiede, impone di cogliere la verità sulla propria vita, relazionando ad una comunità che, nel bene e nel male, mi considera sua parte. La vita fatta di idealità e contraddizioni ha bisogno del perdono come esperienza di amore e di misericordia. La confessione permette di cogliere l’uno e l’altro aspetto, permettendo di divenire strumento di perdono. Una società come la nostra che sembra aver dimenticato il perdono e suscita sempre più reazioni come violenza, rancore e vendetta ha bisogno di testimoni di perdono e di segni di misericordia. La nuova evangelizzazione, pertanto, si coniuga con l’esperienza della riconciliazione dove l’amore che giunge fino al perdono diventa annuncio concreto di come Dio ama e va incontro a chi si abbandona a lui nella fede.

[1] Cfr. R. Bultmann, “έλεος”, in Grande Lessico del Nuovo Testamento III,407.

[2] Nel linguaggio biblico l’aggettivo ελεήμων è essenzialmente utilizzato in riferimento a Dio; delle trenta volte in cui viene usato dai LXX, ben 25 è riferito per qualificare l’agire di Dio. La stessa cosa si deve constatare per il sostantivo έλεος e il verbo ελεέω nella stragrande maggioranza dei casi sono sempre in riferimento alla misericordia di Dio. Interessante notare che nei 326 casi in cui il sostantivo è usato, solo 60 volte la misericordia è riferita agli uomini, mentre i restanti 236 sono propri di Dio; la stessa cosa per il verbo su 130 casi, solo 30 sono in riferimento all’agire umano. Cfr. R. Bultmann, ” έλεος”, in GLNT III, 399-424; J. Dupont, Le Beatitudini, Alba 1977, II, 948-950.

[3] Nello stesso orizzonte significativo, bisogna comprendere altre formule simili, sparse qua e là nel salterio; ad es.: “buono e giusto è il Signore, un Dio misericordioso” (Sl 116,5); oppure: “Paziente e misericordioso è il Signore, lento all’ira e ricco di grazia” (Sl 145,8).

[4] Cfr. G. Ravasi, Il libro dei Salmi, III, 68.

[5] Udienza generale del 19 febbraio 2014.

[6] Più facile invece verificare la sua presenza nell’AT: Gen 2,7; 1 Re 17,21; Ez 37,9; Sap 15,11.

[7] Agostino, In Joh., 121,4.

[8] Efrem il Siro, Commento a “I peccati verranno portati via”, 1-6.

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ZENIT Staff

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