Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXIII.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C.
Di consueto, il presule propone anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA
Amare per non morire
Rito romano
XXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 8 settembre 2013.
Sap 9, 13-18; Sal 89; Fm 1,9b-10.12-17; Lc 14, 25-33
La rinuncia per amore è un dono gioioso.
Rito ambrosiano
II Domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore
Is 5,1-7; Sal 79; Gal 2,15-20; Mt 21,28-32
Santità non è fare grandi cose, ma obbedire come figli, cioè liberi.
1) Amare il Padre più del padre.
Alle numerose persone che camminano con Lui perché Lui è il senso della vita, Gesù rivolge l’invito a rompere tutti i legami, persino quelli con se stessi (Lc 14,25-26). L’Evangelista Luca è minuzioso e insistente nell’elencare i legami da rompere e, inoltre, conserva in tutta la sua paradossalità il verbo greco misein (odiare). San Matteo usa il verbo greco fileo[1] che qui si può tradurre con «preferire», e – penso – giustamente. Anche San Luca, ovviamente, non intende odiare nel vero senso della parola. Pur collocando il verbo «odiare» nel suo significato più proprio di posporre, subordinare decisamente, queste parole di Gesù mantengono intatta la propria forza. Egli sa bene che i genitori devono essere amati e rispettati. Si tratta, anche per lui, non di odio, ma di distacco, di preferenza del Regno: tuttavia egli ha conservato il verbo greco misein che indica, senza dubbio, un distacco radicale. Non si tratta soltanto di rompere i legami con la famiglia, né basta un generico distacco da se stessi: l’esempio di Gesù è molto concreto e preciso: occorre essere disposti a portare la croce (versetto 27), cioè essere pronti all’effettivo e totale dono di sé. Le parabole della torre e del re (14,28-32) insegnano che bisogna riflettere bene prima di buttarsi in un’impresa, occorre calcolare le possibilità e creare le condizioni che permettono di concluderla con successo
La sequela non è fatta per i superficiali, per gli irriflessivi, perché prima di intraprendere a seguire Gesù occorre «calcolare e riflettere». Questo non significa trovare i modi per sfuggire alla logica della croce, bensì trovare i modi per condurla fino alle estreme conseguenze. Questo è il calcolo richiesto al discepolo.
Ma che cosa significa in concreto «calcolare e riflettere?». Ce lo dice il versetto 33: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi non può essere mio discepolo”. Solo nel distacco dai beni è possibile essere discepoli, è possibile il dono totale. Come per costruire una torre è necessaria una sufficiente quantità di mattoni ed i soldi per acquistarli, così per seguire Gesù è necessario il distacco dai beni.
In effetti non si può amare il Bene se il nostro cuore è attaccato ai beni.
La differenza tra il cristiano e il non cristiano sta proprio in questa valutazione del sacrificio e della vita, fino a rinunciarvi perché come dice il Salmo 62,4 : “La tua grazia vale più della vita”.
Il sacrificio è redentivo, perché è la strada che Cristo ha percorso per salvarci e che ognuno di noi deve seguire per giungere alla sua vera casa.
Il sacrificio è educativo, perché ci impedisce di cullare l’illusione che la vita terrena debba durare indefinitamente; ci impedisce di scambiare la misera via del pellegrino con la luminosa ed eterna felicità della patria.
2) Seguire per amore e senza mezze misure.
Per raggiungere questa patria dobbiamo lasciare tutto per avere il Tutto, seguendo Cristo, che ci mostra che chi ama non muore, che solamente l’amore vince la morte. In effetti amando non si muore, si vive nell’altro o, meglio, si vive in Dio per sempre. Chiamati all’esodo dietro Cristo, Mosè definitivo, i cristiani sono chiamati a combattere le mezze misure. Due mezze misure fanno un intero solo in matematica. Cristo da noi vuole la misura intera, piena. Il nostro peccatto più frequente è, penso, il peccato di omissione: non è tanto il male che si fa, qunato il bene che non si fa o, piuttosto, il bene che si fa a metà. Nella vita cristiana la somme di due mezze misura dà come risultato la mediocrità[2]. Questa parola è eloquente: designa lo stato di chi si stabilisce nella mezza misura, di chi serve due padroni e che non può che essere tiepido, ma “Dio vomita i tiepidi” (Ap 3,16):
Seguire Cristo è una “mortificazione” (=fare morte) di ciò che è caduco per una vita liberata, redenta. La rinuncia non è nel cristianesimo fine a se stessa, è sempre la via per aprirsi agli altri e all’Altro per eccellenza. Per andare verso l’altro, bisogna prima uscire da se stessi.
Seguire Cristo, camminare con Lui esige un uscire da noi stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario. Per andare dietro a Gesù come Lui esige non basta la commozione del cuore ma bisogna assumere la sua logica d’amore che ha come vertice la Croce e come esito la Risurrezione. Il dono della vita che Cristo ha fatto fu ed è un dono che porta vita, per sempre.
Seguire Cristo è dedicarsi alla preghiera infatti “l’orazione, esercitando l’anima, la unisce a Dio e le fa seguire le vestigia di Cristo crocifisso; così Dio fa di essa un altro se stesso, per desiderio, affetto e unione d’amore” (Santa Caterina da Siena, Il Dialogo della divina Provvidenza, cap. 1). Con l’amore (agape) Dio stesso assicura in noi la continuità della sua presenza in noi. L’amore di due esseri ne fa uno.
In ciò ci sono di testimonianza le Vergini consacrate le quali offrono l’esempio di seguire Cristo abbandonandosi alla divina Provvidenza in un atteggiamento sponsale. Conformemente al Rito della loro Consacrazione quando il Vescovo chiede loro: “Volete seguire Cristo secondo il Vangelo in modo tale che la vostra vita appaia come una testimonianza d’amore e segno del Regno di Dio?”, “Volete essere consacrate al Signore Gesù Cristo, il Figlio del Dio altissimo e riconoscerlo come sposo”, esse rispondono: “Sì, lo vogliamo” (RCV, 17).
In effetti la consacrazione verginale implica una confidenza illimitata nel Figlio di Dio. “Chi si dona completamente a Dio non teme di abbandonare anche tutte le umane cose, per dedicarsi unicamente alle cose divine, per dedicarsi tutto a Dio, per cercare il Regno di Lui e la sua giustizia, per sgombrare dal suo cuore tutti gli affetti terreni, in una parola, per seguire Cristo, e stringersi alla beata nudità della sua croce, morendo su di quella alla terra, e vivendo solo al cielo: mentre dove sta il suo tesoro, ivi si trova pure il suo cuore” (Antonio Rosmini, Massime di perfezione cristiana, lezione V).
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LETTURAPATRISTICA
Sant’Agostino d’Ippona
Discorso 344
L’AMORE DI DIO E AMORE DEL MONDO.
Amore ai parenti ma piú a Dio.
2. A chi è acceso di questo amore a Dio o meglio perché vi si accenda è stato detto: Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me, e: Chi non prende la sua croce e non mi segue non è degno di me. Dio non ha tolto l’amore dei genitori, della moglie, dei figli ma lo ha messo in gerarchia di valori. Non ha detto: ” Chi ama “, ma: chi ama più di me. E` quello che la Chiesa dice nel Cantico dei Cantici: Ha messo in me un ordine nell’amore. Ama dunque il padre, ma non amarlo
più del Signore, ama chi ti ha generato ma non più di chi ti ha creato. Il padre ti ha generato ma non ti ha formato lui stesso come tu sei. Ignorava quando ti seminò chi e quale figlio gli sarebbe nato. Il padre ti alimentò ma non diede a te, quando avevi fame, un pane tratto da se stesso. Infine, qualunque cosa il padre tiene in serbo per te in terra, deve morire perché tu ne venga in possesso, deve far posto con la sua morte alla tua vita. Quel padre che è Dio invece ti tiene in serbo cose che ti dà insieme a se stesso; tu possiedi l’eredità insieme con tuo padre e scompare l’alternanza predecessore- successore; non devi aspettare che muoia ma sarai sempre con lui, che rimarrà per sempre, e tu rimarrai sempre in lui. Ama dunque tuo padre, ma non più del tuo Dio. Ama tua madre, ma non più della Chiesa che ti ha generato alla vita eterna. E dallo stesso amore che unisce figli e genitori giudica quanto tu debba amare Dio e la Chiesa. Se tanto vanno amati coloro che hanno generato un mortale, quanto più coloro che hanno generato chi giungerà all’eternità e in essa rimarrà! Ama la moglie, ama i figli ma secondo Dio, in modo da aver cura che anch’essi venerino Dio insieme con te. Quando sarai congiunto a lui non avrai più da temere separazioni. Perciò non devi amarli più di Dio e li ameresti male se trascurassi di condurli a Dio insieme con te. Può presentarsi anche l’ora del martirio. Tu vuoi far professione di fede a Cristo. Per questa professione puoi subire torture, puoi subire la morte temporale. Si può dare il caso che padre, moglie, figli insistano per strapparti alla morte, e con questi tentativi ti procurerebbero la morte. Se non riescono a procurartela, ecco allora ti verrà in mente questo monito: Chi ama il padre o la madre o la moglie o i figli più di me, non è degno di me.
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NOTE
[1] Il verbo philéôsignifica “amare” nel senso di “volersi bene, avere caro, trattare con affetto, baciarsi (fra amici), accogliere amichevolmente un ospite”. Philéô era il verbo che esprimeva l’idea di “affetto fra amici” (il sostantivo philós significa infatti in greco “l’amico”). Con philéô si indicava un rapporto interpersonale fondato sull’uguaglianza, sull’affinità all’interno di una comunità, di una città, di una razza. Infatti, come aggettivo, philós significa “caro” e veniva usato nella relazione fra genitori e figli o tra fratelli. Il verbo philéô ricorre 9 volte in Giovanni, 5 volte in Matteo, 1 volta in Marco, 2 volte in Luca; 2 volte nelle Epistole. Nel senso di “avere caro, aver affetto” Gesù usa talvolta questo verbo nei confronti di Lazzaro e di Giovanni (Gv. 11, 3, 36; 20,2), rivelando così una particolare tenerezza e preferenza.
Il verbo agapáô significa “amare” nel senso di “avere caro, tenere in gran conto, preferire, prediligere”: è usato per indicare l’amore verso Dio, il Cristo, la giustizia o il prossimo. Rispetto a philéô, il verbo agapáô ha una minore sfumatura affettiva o, per meglio dire, emotiva ed esprime un moto di benevolenza ideale, un tipo di amore che parte dall’alto o che all’alto si rivolge. Nel latino della Vulgata il verbo agapáô è tradotto con díligo, da cui l’italiano “prediligere”. Agapáô ricorre 37 volte in Giovanni, 13 volte in Luca, 8 volte in Matteo, 5 volte in Marco; si trova inoltre 25 volte nelle Lettere di Giovanni. Nel discorso dell’Ultima Cena riportato in Giovanni il Cristo usa sempre questo verbo: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi” (15,9), “amatevi gli uni gli altri” (15,18), fino a quell’ultima preghiera (Gv. 17) in cui il Cristo, donandosi completamente agli uomini, dice: “E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro”.
La differenza tra l’amore espresso da philéô e quello espresso da agapáô – differenza in realtà ignota ai Greci dell’epoca classica – risulta particolarmente chiara dal capitolo 21 (15-17) di Giovanni, dove il Cristo pone a Pietro per tre volte la nota domanda: “Mi ami tu?”. In realtà la prima e la seconda domanda recano il verbo agapáô:
“Dopo aver pranzato, dice Gesù a Simon Pietro: ” Simone di Giovanni, mi ami (agapâs) tu più di costoro?”. Gli risponde: “Sì, o Signore, tu sai che io ti voglio bene (philô). Gli dice: “Pasci i miei agnelli”. Gli dice per la seconda volta: “Simone di Giovanni, mi ami (agapâs) tu?”. Gli risponde: “Sì, o Signore, tu sai che io ti voglio bene (philô)”. Gli dice: “Pasci il mio gregge”. Gli dice per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi vuoi bene (phileîs)?””.
La terza volta il Cristo usa il verbo philéô perché, prima della Pentecoste, gli apostoli, compreso Pietro, vivevano ancora l’amore secondo rapporti di sangue, secondo affinità di gruppo o di famiglia: essi recepivano insomma il valore dell'”amore” secondo la connotazione espressa dal verbo philéô. Soltanto dopo la Pentecoste, quando sarà discesa su di essi la fiamma dell’amore cristico, gli apostoli comprenderanno appieno il valore universale dell’agápê, tanto che Paolo così potrà parlarne nell’“Inno alla carità” (1 Cor 13, 1-8).
[2] Mediocrità è parola che indica, per es, 1. La posizione intermedia tra due estremi; 2. la modesta qualità o lo scarso di una cosa: mediocrità della merce; 3. La qualità modesta di una persona, che, quindi, viene qualificata come mediocre.