Riportiamo il testo integrale della Seconda Predica dell’Avvento 2015, tenuta oggi in Vaticano da padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia.
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L’UNIVERSALE CHIAMATA DEI CRISTIANI ALLA SANTITÀ
(Lumen gentium, cap. V)
Siamo entrati da pochi giorni nel cinquantesimo anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II e nell’anno giubilare della misericordia per il quale, Santo Padre, le siamo tutti tanto grati. Dobbiamo dire che il legame tra il tema della misericordia e il concilio Vaticano II è tutt’altro che arbitrario o secondario. Nel discorso di apertura, l’11 Ottobre 1962, san Giovanni XXIII indicò nella misericordia la novità e lo stile del concilio:
“Sempre, scriveva, la Chiesa si è opposta agli errori; spesso li ha anche condannati con la massima severità. Ora tuttavia, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che la severità”.[1]
In un certo senso, a mezzo secolo di distanza, l’anno della misericordia celebra la fedeltà della Chiesa a quella sua promessa. Ci si domanda volte, se insistendo troppo sulla misericordia, non si rischi di dimenticare l’altro attributo di Dio che è la giustizia. Ma la giustizia di Dio, non solo non contraddice la sua misericordia, ma consiste proprio in essa! Dio si fa giustizia, facendo misericordia. Dio è amore; per questo fa giustizia a se stesso – cioè, si dimostra veramente per quello che è – quando fa misericordia. Ben prima di Lutero sant’Agostino aveva scritto: “La ‘giustizia di Dio’ è quella per la quale, per sua grazia, Dio ci rende giusti, esattamente come ‘la salvezza del Signore’ (salus Domini) (Sal 3,9) è quella per la quale Dio fa di noi dei salvati”[2].
Questo non esaurisce tutti i sensi dell’espressione “giustizia di Dio”, ma ne è certamente il significato principale. Ci sarà, un giorno, anche una giustizia di Dio retributiva, che darà a ciascuno secondo i propri meriti (cf Rom 2, 5-10); ma non è di essa che l’Apostolo parla quando dice: “Ora si è manifestata la giustizia di Dio” (Rom 3, 21). Quella è un evento futuro, questa un evento presente. Altrove lo stesso Apostolo lo spiega così: “Quando si sono manifestati la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia” (Tt 3, 4-5.
1. ”Siate santi perché io, vostro Dio, sono santo“
Veniamo ora al tema di questa seconda meditazione. Esso è il capitolo V della Lumen gentium, intitolato “L’universale vocazione alla santità nella Chiesa”. Nelle storie del Concilio, questo capitolo è ricordato solo per una questione, diciamo, di redazione. I numerosi Padri conciliari membri di ordini religiosi chiesero con insistenza che si dedicasse una trattazione a parte alla presenza dei religiosi nella Chiesa, come si era fatto per i laici. Fu così che quello che era stato fino allora un capitolo unico riguardante la santità di tutti i membri della Chiesa, si divise in due capitoli, dei quali il secondo (VI della LG), dedicato specificamente ai religiosi[3].
L’appello alla santità è formulato fin dall’inizio con queste parole:
“Tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla Gerarchia sia che da essa siano diretti, sono chiamati alla santità, secondo il detto dell’Apostolo:’Questa è infatti la volontà di Dio, la vostra santificazione (1 Ts 4,3)” [4].
Questo appello alla santità è il più necessario e il più urgente adempimento del concilio. Senza di esso, tutti gli altri adempimenti sono o impossibili o inutili. Esso è invece quello che rischia di essere il più trascurato, dal momento che ad esigerlo e a reclamarlo è solo Dio e la coscienza e non invece pressioni o interessi di gruppi umani particolari della Chiesa. A volte si ha l’impressione che, in certi ambienti e in certe famiglie religiose, dopo il concilio, si sia messo più impegno nel “fare i santi”, che nel “farsi santi”, cioè più sforzo per portare sugli altari i propri fondatori o confratelli che per imitarne gli esempi e le virtù.
La prima cosa che bisogna fare, quando si parla di santità, è di liberare questa parola dalla soggezione e dalla paura che essa incute, a causa di certe rappresentazioni errate che ce ne siamo fatti. La santità può comportare fenomeni e prove straordinari, ma non si identifica con queste cose. Se tutti sono chiamati alla santità, è perché, intesa correttamente, essa è alla portata di tutti, fa parte della normalità della vita cristiana. I santi sono come i fiori: non ci sono solo quelli che vengono messi sull’altare. Quanti di essi sbocciano e muoiono nascosti, dopo aver profumato silenziosamente l’aria all’intorno! Quanti di questi fiori nascosti sono sbocciati e sbocciano continuamente nella Chiesa!
La motivazione di fondo della santità è chiara fin dall’inizio ed è che Dio è santo: ”Siate santi perché io, il Signore vostro Dio, sono santo“ (Lev 19, 2). La santità è la sintesi, nella Bibbia, di tutti gli attributi di Dio. Isaia chiama Dio “il Santo d’Israele”, cioè colui che Israele ha conosciuto come il Santo. “Santo, santo, santo”, Qadosh, qadosh, qadosh, è il grido che accompagna la manifestazione di Dio nel momento della sua chiamata (Is 6, 3). Maria riflette fedelmente questa idea di Dio dei profeti e dei salmi, quando esclama nel Magnificat: “Santo è il suo nome”.
Quanto al contenuto dell’idea di santità, il termine biblico qadosh suggerisce l’idea di separazione, di diversità. Dio è santo perché è il totalmente altro rispetto a tutto ciò che l’uomo può pensare, dire o fare. E’ l’assoluto, nel senso etimologico di ab-solutus, sciolto da tutto il resto e a parte. E’ il trascendente, nel senso che sta al di sopra di tutte le nostre categorie. Tutto questo in senso morale, prima ancora che metafisico; riguarda cioè l’agire di Dio e non solo il suo essere. Nella Scrittura sono definiti “santi” soprattutto i giudizi di Dio, le sue opere e le sue vie [5].
Santo non è tuttavia un concetto principalmente negativo, indicante separazione, assenza di male e di mescolanza in Dio; è un concetto sommamente positivo. Indica una “pura pienezza”. In noi, la “pienezza” non si accorda mai totalmente con la “purezza”. L’una cosa contraddice l’altra. La nostra purezza è ottenuta sempre purificandoci e togliendo il male dalle nostre azioni (Is 1, 16). In Dio no; purezza e pienezza coesistono e costituiscono insieme la somma semplicità di Dio. La Bibbia esprime alla perfezione questa idea di santità quando dice che a Dio “nulla può essere aggiunto e nulla tolto” (Sir 42, 21). In quanto è somma purezza, niente gli deve essere tolto; in quanto è somma pienezza, niente gli può essere aggiunto.
Quando si cerca di vedere come l’uomo entra nella sfera della santità di Dio e cosa significa essere santo, appare subito la prevalenza, nell’Antico Testamento, dell’idea ritualistica. I tramiti della santità di Dio sono oggetti, luoghi, riti, prescrizioni. Intere parti dell’Esodo e del Levitico sono intitolate “codice di santità” o “legge di santità”. La santità è racchiusa in un codice di leggi. Questa santità è tale che viene profanata se uno si accosta all’altare con una deformità fisica o dopo aver toccato un animale immondo: “Santificatevi e siate santi…, non contaminatevi con alcuno di questi animali” (Lv 11, 44; 21, 23).
Si leggono voci diverse nei profeti e nei salmi. Alla domanda: “Chi salirà il monte del Signore
, chi starà nel suo luogo santo?”, oppure: “Chi di noi può abitare presso un fuoco divorante?”, si risponde con indicazioni squisitamente morali: “Chi ha mani innocenti e cuore puro”, e “chi cammina nella giustizia e parla con lealtà” (cf. Sal 24, 3; Is 33, 14 s.). Sono voci sublimi che restano però piuttosto isolate. Ancora al tempo di Gesù, presso i farisei e a Qumran, prevale l’idea che la santità e la giustizia consistano nella purezza rituale e nell’osservanza di certi precetti, in particolare quello del Sabato, anche se, in teoria, nessuno dimentica che il primo e più grande comandamento è quello dell’amore di Dio e del prossimo.
2. La novità di Cristo
Passando ora al Nuovo Testamento, vediamo che la definizione di “nazione santa” è estesa ben presto ai cristiani. Per Paolo, i battezzati sono “santi per vocazione”, o “chiamati a essere santi” [6]. Egli designa abitualmente i battezzati con il termine “i santi”. I credenti sono “scelti per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità” (Ef 1, 4). Ma sotto l’apparente identità di terminologia assistiamo a dei cambiamenti profondi. Santità non è più un fatto rituale o legale, ma morale se non addirittura ontologico. Non risiede nella mani, ma nel cuore; non si decide fuori, ma dentro l’uomo e si riassume nella carità. “Non ciò che entra nella bocca rende impuro l’uomo; ciò che esce dalla bocca, questo rende impuro l’uomo!” (Mt 15, 11).
I mediatori della santità di Dio non sono più luoghi (il tempio di Gerusalemme o il monte Carizim), riti, oggetti e leggi, ma è una persona, Gesù Cristo. Essere santo non consiste tanto in un essere separato da questo e da quello, quanto in un essere unito a Gesù Cristo. In Gesù Cristo è la santità stessa di Dio che ci raggiunge di persona, non un suo lontano riverbero. “Tu sei il Santo di Dio!”: due volte risuona questa esclamazione rivolta a Gesú nei vangeli (Gv 6, 69; Lc 4, 34). L’Apocalisse chiama Cristo semplicemente “il Santo” (Ap 3,7) e la liturgia le fa eco esclamando nel Gloria “Tu solus Sanctus”, Tu solo sei il Santo
In due modi noi entriamo in contatto con la santità di Cristo ed essa si comunica a noi: per appropriazione e per imitazione. Di essi il più importante è il primo che si attua nella fede e mediante i sacramenti. La santità è anzitutto dono, grazia ed è opera di tutta la Trinità. Poiché, secondo il detto dell’Apostolo, noi apparteniamo a Cristo più che a noi stessi (cf.1 Cor 6, 19-20), ne consegue che, inversamente, la santità di Cristo ci appartiene più che la nostra stessa santità. “Quel che è di Cristo – scrive il teologo bizantino Nicola Cabasilas – è più nostro di quello che è da noi” [7]. E’ questo il colpo d’ala, o il colpo di audacia, che dovremmo realizzare nella vita spirituale. La sua scoperta non si fa, di solito, all’inizio, ma alla fine del proprio itinerario spirituale; non nel noviziato, ma più tardi, quando si sono sperimentate tutte le altre strade e si è visto che non portano molto lontano.
Paolo ci insegna come si fa questo “colpo di audacia”, quando dichiara solennemente di non voler essere trovato con una sua giustizia, o santità, derivante dalla osservanza della legge, ma unicamente con quella che deriva dalla fede in Cristo (cf. Fil 3, 5-10). Cristo, dice, è diventato per noi “giustizia, santificazione e redenzione” (1 Cor 1,30). “Per noi”: dunque possiamo reclamare la sua santità come nostra a tutti gli effetti. Un colpo di audacia è anche quello che fa san Bernardo, quando grida: “Io, quanto mi manca me lo approprio (alla lettera, lo usurpo!) dal costato di Cristo” [8].“Usurpare” la santità di Cristo, “rapire il regno dei cieli”! Questo è un colpo di audacia da ripetere spesso nella vita, specie al momento della comunione eucaristica.
Dire che noi partecipiamo della santità di Cristo, è come dire che partecipiamo dello Spirito Santo che viene da lui. Essere o vivere “in Cristo Gesú” equivale, per san Paolo, a essere o vivere “nello Spirito Santo”. “Da questo – scrive a sua volta san Giovanni – si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito” (1 Gv 4,13). Cristo rimane in noi e noi rimaniamo in Cristo, grazie allo Spirito Santo.
È lo Spirito Santo dunque che ci santifica. Non lo Spirito Santo in genere, ma lo Spirito Santo che fu in Gesù di Nazareth, che santificò la sua umanità, che si raccolse in lui come in un vaso di alabastro e che, dalla sua croce e nella Pentecoste, egli effuse sulla Chiesa. Per questo, la santità che è in noi non è una seconda e diversa santità, ma è la stessa santità di Cristo. Noi siamo veramente “santificati in Cristo Gesú” (l Cor 1,2). Come, nel battesimo, il corpo dell’uomo è immerso e lavato nell’acqua, così la sua anima è, per così dire, battezzata nella santità di Cristo: “Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio”, dice l’Apostolo riferendosi al battesimo (1 Cor 6,11).
Accanto a questo mezzo fondamentale della fede e dei sacramenti, deve trovare posto anche l’imitazione, le opere, lo sforzo personale. Non come mezzo staccato e diverso, ma come l’unico mezzo adeguato di manifestare la fede, traducendola in atto. L’opposizione fede – opere è un falso problema, tenuto in piedi, più che altro, dalla polemica storica. Le opere buone, senza la fede, non sono opere “buone” e la fede senza le opere buone non è vera fede. Basta che per “opere buone” non si intendano principalmente (come purtroppo era al tempo di Lutero) indulgenze, pellegrinaggi e pie pratiche, quanto l’osservanza dei comandamenti, in particolare quello dell’amore fraterno. Gesù dice che nel giudizio finale alcuni saranno esclusi dal Regno per non aver vestito l’ignudo e dato da mangiare all’affamato. Non ci si salva dunque per le buone opere, ma non ci si salva senza le buone opere. Possiamo riassumere così la dottrina del concilio di Trento.
Avviene come per la vita fisica. Il bambino non può fare assolutamente nulla per essere concepito nel seno della madre; ha bisogno dell’amore di due genitori (almeno così è stato fino ad oggi!). Una volta però che è nato, deve mettere in opera i suoi polmoni per respirare, succhiare il latte; insomma deve darsi da fare, altrimenti la vita che ha ricevuto muore. La frase di san Giacomo: “La fede, senza le opere è morta” (cf. Gc 3, 26) va intesa in questo senso, cioè al presente: la fede senza le opere muore.
Nel Nuovo Testamento due verbi si alternano a proposito della santità, uno all’indicativo e uno all’imperativo: “Siete santi”, “Siate santi”. I cristiani sono santificati e santificandi[9]. Quando Paolo scrive: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione”, è chiaro che intende proprio questa santità che è frutto di impegno personale. Aggiunge infatti, come per spiegare in che consiste la santificazione di cui sta parlando: “che vi asteniate dall’impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto” (cf. 1 Ts 4, 3-9).
Il nostro testo della Lumen gentium</em> mette in rilievo chiaramente questi due aspetti, uno oggettivo e l’altro soggettivo, della santità, basati rispettivamente sulla fede e sulle opere. Dice:
“I seguaci di Cristo, chiamati da Dio e giustificati in Gesù Cristo non secondo le loro opere, ma secondo il disegno e la grazia di Lui, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi devono quindi, con l’aiuto di Dio
, mantenere e perfezionare, vivendola, la santità che hanno ricevuta” [10].
Poiché, secondo Lutero, il Medioevo si era sviato sempre più nell’accentuare il lato di Cristo come modello, egli accentuò l’altro lato, affermando che egli è dono e che questo dono tocca alla fede di accettarlo”[11]. Oggi siamo tutti d’accordo che non si devono contrapporre le due cose, ma tenerle unite. Cristo è anzitutto dono da ricevere mediante la fede, ma è anche modello da imitare nella vita. Lo inculca egli stesso nel Vangelo: “Io vi ho dato l’esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi (Gv 13, 15); “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11, 29).
3. Santi o falliti
Questo, l’ideale nuovo di santità del Nuovo Testamento. Un punto resta immutato, e anzi si approfondisce, nel passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento ed è la motivazione di fondo della chiamata alla santità, il “perché” bisogna essere santi: perché Dio è santo. “Ad immagine del Santo che vi ha chiamato, diventate santi anche voi”. I discepoli di Cristo devono amare i nemici, “per essere figli del Padre celeste che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Mt 5, 45). La santità non è dunque una imposizione, un onere che ci viene messo sulle spalle, ma un privilegio, un dono, un onore sommo. Un obbligo, sì, ma che deriva dalla nostra dignità di figli di Dio. Si applica ad esso, in senso pieno, il detto francese “noblesse oblige”.
La santità è esigita dall’essere stesso della creatura umana; non riguarda gli accidenti, ma la sua stessa essenza. Egli deve essere santo per realizzare la sua identità profonda che è di essere “ad immagine e somiglianza di Dio”. Per la Scrittura, l’uomo non è principalmente, come per la filosofia greca, ciò che è determinato ad essere dalla sua nascita (physis), e cioè un “animale razionale”, quanto ciò che è chiamato a divenire, con l’esercizio della sua libertà, nell’obbedienza a Dio. Non è tanto natura, quanto vocazione.
Se dunque noi siamo “chiamati ad essere santi”, se siamo “santi per vocazione”, allora è chiaro che saremo persone vere, riuscite, nella misura in cui saremo santi. Diversamente, saremo dei falliti. Il contrario di santo non è peccatore, ma fallito! Si può fallire nella vita in tanti modi, ma sono fallimenti relativi che non compromettono l’essenziale; qui si fallisce radicalmente, in quello che uno è, non solo in quello che uno fa. Aveva ragione Madre Teresa quando a una giornalista che le chiese a bruciapelo cosa si provava ad essere acclamata santa da tutto il mondo, rispose: “La santità non è un lusso, è una necessità”.
Il filosofo Pascal ha formulato il principio dei tre ordini o livelli di grandezza: l’ordine dei corpi o della materia, l’ordine dell’intelligenza e l’ordine della santità. Una distanza quasi infinita separa l’ordine dell’intelligenza da quello dei corpi, ma una distanza “infinitamente più infinita” separa l’ordine della santità da quello dell’intelligenza. I geni non hanno bisogno delle grandezze materiali; queste non possono loro togliere o aggiungere nulla. Allo stesso modo, i santi non hanno bisogno delle grandezze intellettuali; la loro grandezza si colloca su un piano diverso. “Essi sono visti da Dio e dagli angeli, non dai corpi e dalle menti curiose; a loro basta Dio” [12].
Questo principio permette di valutare nel modo giusto le cose e le persone che ci circondano. La maggioranza della gente rimane ferma al primo livello e neppure sospetta l’esistenza di un piano superiore. Sono quelli che passano la vita preoccupati solo di accumulare ricchezze, coltivare la bellezza fisica, o accrescere il proprio potere. Altri credono che il valore supremo e il vertice della grandezza sia quello dell’intelligenza. Cercano di diventare celebri nel campo delle lettere, dell’arte, del pensiero. Solo pochi sanno che esiste un terzo livello di grandezza, la santità.
Questa grandezza è superiore perché eterna, perché è tale agli occhi di Dio che è la vera misura della grandezza e anche perché realizza quello che c’è di più nobile nell’essere umano, e cioè la sua libertà. Non dipende da noi nascere forti o deboli, belli o meno belli, ricchi o poveri, intelligenti o poco intelligenti; dipende invece da noi essere onesti o disonesti, buoni o cattivi, santi o peccatori. Aveva ragione il musicista Gounod, lui stesso un genio, quando diceva che “una goccia di santità vale più di un oceano di genio”.
La buona notizia, circa la santità, è che non si è costretti a scegliere tra uno di questi tre generi di grandezza. Si può essere santi in ognuno di essi. Vi sono stati, e vi sono santi, tra i ricchi e tra i poveri, tra i forti e tra i deboli, tra i geni e le persone senza cultura. A nessuno è preclusa questa grandezza di terzo livello.
4. Rimettersi in cammino verso la santità
Il nostro tendere alla santità somiglia al cammino del popolo eletto nel deserto. E’ anch’esso un cammino fatto di continue soste e ripartenze. Ogni tanto il popolo di fermava e piantava le tende; o perché era stanco, o perché aveva trovato dell’acqua e del cibo, o semplicemente perché è faticoso camminare sempre. Ma ecco che giunge, improvviso, l’ordine del Signore a Mosè di levare le tende e riprendere il cammino: “Su, esci di qui, tu e il tuo popolo, verso la terra che ho promesso” (Es 33, 1.
Nella vita della Chiesa, questi inviti a rimettersi in cammino si ascoltano soprattutto all’inizio dei tempi forti dell’anno liturgico o in occasioni particolari come è il giubileo della misericordia divina da poco aperto dal papa. Per ognuno di noi, singolarmente preso, il tempo di levare le tende e rimetterci in marcia verso la santità, è quando ne avvertiamo nell’intimo il misterioso richiamo che viene dalla grazia. All’inizio, c’è come un momento di arresto. Uno si ferma nel vortice delle proprie occupazioni, prende, come si dice, le distanze da tutto per guardare la sua vita quasi dal di fuori o dall’alto, sub specie aeternitatis. Affiorano allora le grandi domande: “Chi sono? cosa voglio? Cosa sto facendo della mia vita?”
Nonostante fosse un monaco, san Bernardo ebbe una vita molto movimentata: concili da presiedere, vescovi e abati da riconciliare, crociate da predicare. Ogni tanto, dice il suo biografo, egli si fermava e, quasi entrando in dialogo con se stesso, si domandava: “Bernardo, a che sei venuto?” (Bernarde, ad quid venisti?)[13]. Per che cosa hai lasciato il mondo e sei entrato in monastero? Noi possiamo imitarlo; pronunciare il nostro nome (anche questo serve) e domandarci: Perché sei cristiano? perché sei sacerdote o religioso? Stai facendo quello per cui sei al mondo?
Nel Nuovo Testamento è descritto un tipo di conversione che potremmo definire la conversione-risveglio, o la conversione dalla tiepidezza. Nell’ Apocalisse si leggono sette lettere scritte agli angeli (secondo alcuni esegeti ai vescovi) di altrettante Chiese dell’Asia Minore. Nella lettera all’angelo di Efeso, egli comincia col riconoscere ciò che il destinatario ha fatto di bene: “Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua costanza … Sei costante e hai molto sofferto per il mio nome, senza stancarti”. Poi passa a elencare ciò che, invece, gli dispiace di lui: “Hai abbandonato il tuo amore di un tempo!”. Ed ecco che, a questo punto, risuona, come uno squillo di tromba tra addormentati, il grido del Risorto: Metanòeson, cioè, convértiti! Scuotiti! Déstati! (Ap 2, l ss.).
Questa è la prima delle sette lettere. Molto più severa è l’ultima di esse, quella indirizzata all’angelo della Chiesa di Laodicea: “Conosco le tue opere: tu non se
i né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!”. Convértiti e torna ad essere zelante e fervoroso: Zeleue oun kai metanòeson! (Ap 3,15ss.). Anche questa, come tutte le altre, termina con quel misterioso avvertimento: “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 3,22).
Sant’ Agostino ci dà un suggerimento: cominciare a ridestare in noi un desiderio di santità: “Tutta la vita del buon cristiano – scrive – consiste in un santo desiderio [cioè, in un desiderio di santità]: Tota vita christiani boni, sanctum desiderium est”[14] . Gesú ha detto: “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati” (Mt 5, 6). La giustizia biblica, si sa, è la santità. Ci lasciamo perciò con una domanda su cui meditare in questo tempo di Avvento: “Io ho fame e sete di santità, o mi sto rassegnando alla mediocrità?”
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NOTE
[1] Il Concilio Vaticano II. Documenti, Edizioni Dehoniane, Bologna 1967, p.47.
[2] S. Agostino, Lo Spirito e la lettera, 32,56 (PL 44, 237).
[3] Cf. Storia del concilio Vaticano II, a cura di G. Alberigo, vol. IV, Bologna 1999, pp. 68 ss.
[4] Lumen gentium, 40.
[5] Cf. Dt 32,4; Dn 3, 27; Ap 16, 7.
[6] Cf. Rom 1, 7 e 1 Cor 1, 2.
[7] N. Cabasilas, Vita in Cristo IV, 6 (PG 150, 613).
[8] S. Bernardo, Omelie sul Cantico, 61, 4-5 (PL 183, 1072).
[9] Cf. 1 Cor 1, 2; 1 Pt 1,2; 2, 15.
[10] Lumen gentium, 40.
[11] Cf. Søren Kierkegaard, Diario X 1,A 154 (ed. a cura di C. Fabro, Brescia 1962, vol. I, p. 821).
[12] B. Pascal, Pensieri 593.
[13] Guglielmo di St. Thierry, Vita prima, I, 4 (PL 185, 238).
[14] S. Agostino, In Epist. Joh. 4, 6 (PL 35, 2008).