Si chiama eutanasia e il suo nome viene dal greco, letteralmente è la “buona morte”, ma ora la chiamano anche “dolce morte”. Nel nostro tempo non siamo più abituati alla sofferenza, ci siamo fatti di anestesia, non sappiamo convivere con il dolore o meglio non lo mettiamo nei conti di una vita che immaginiamo perfetta, non solo perché non contempla le difficoltà, ma anche perché è pluripotenziata: non moriamo per la febbre, ma possiamo anche lavorare durante la malattia e guarire in poco tempo e facilmente, sta tutto in una pillola. Ma quando la pillola non c’è? Quando non bastano neppure le ormai desuete cure chirurgiche invasive? Se il male che porto dentro mi sta portando verso la morte? Vale la pena vivere e soffrire?
L’esperienza del magistrato calabrese andato in Svizzera per sottoporsi ad eutanasia, di cui si è parlato qualche tempo fa, di certo non ci deve portare a giudicarlo, ma ci dà la possibilità di riflettere sul suo gesto, su quel viaggio. Quello da cercare di capire è se sia stato un viaggio di speranza o di disperazione. Io opto per la seconda opzione, forse anche solo per il luogo comune che “dove c’è vita, c’è speranza” e quindi dove c’è la morte non può che esserci una ferita di disperazione.
A nessuno di noi viene di certo di mettere in conto la sofferenza nella vita, ma quando questa arriva? Quello che entra in gioco è di certo il concetto che abbiamo di vita, ma non della altrui, si parla della nostra. Fino a che punto posso spingermi a soffrire? Qual è il limite che mi spinge a tirare il freno, fino a spegnere il motore che mi anima? Di certo sapendo che la malattia di quell’uomo non solo era curabile, ma addirittura non c’è mai stata, viene da chiederci se vale la pena morire così, se si possa permettere di scegliere se morire anticipatamente. Qui siamo in gioco tutti noi perché probabilmente presto in Italia ci pronunceremo circa questo tema.
Penso quanto sia difficile per una famiglia convivere con un membro malato, paragonando la famiglia al corpo potrei dire che è come vivere senza la vista, oppure senza le gambe: nessuno di noi farebbe morire una persona solo perché paralitica o cieca. Eppure pensiamo di permettere alle persone di andare a morire per un male, giustificando questo con l’aggettivo “incurabile”. Se dobbiamo aiutare un cieco, cerchiamo di potenziare gli altri sensi, penso ad esempio ai musei tattili che si stanno diffondendo in tutto il mondo. Se dobbiamo aiutare un paralitico gli diamo una carrozzina o un’auto con i comandi manuali. Così bisogna fare con gli ammalati che diciamo incurabili. Io preferisco il termine “importanti”, perché penso che la cura, più che fisica, sia affettiva. Quello che mi chiedo è: perché, se quando abbiamo un corpo che soffre in una parte potenziamo tutto ciò che gli sta intorno, quando abbiamo un ammalato importante, non potremmo potenziare lui con tutto l’amore – soprattutto l’amore! – e la scienza possibili e la sua famiglia in modo che possa vivere relazioni solide e felici? Potrebbe essere un’idea pagare le nostre tasse per progetti di potenziamento come questo, piuttosto che per aprire cliniche per l’eutanasia?
Ogni vita è degna di essere vissuta: chi di noi passando di fianco ad un uomo che si sta gettando da una finestra continuerebbe sulla sua strada senza intervenire? Eppure tanti di noi continuano le loro faccende quotidiane, senza pensare che tanti si tolgono la vita cercando una dolce morte, forse per nascondere un’amara verità.
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