Decimo anniversario della “Evangelium Vitae”, coraggioso appello in difesa dei più deboli

Parla il fondatore di un movimento di accoglienza per bambini handicappati

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PARIGI, domenica, 27 marzo 2005 (ZENIT.org).- Questo Venerdì Santo è coinciso con il decimo anniversario della pubblicazione dell’enciclica “Evangelium Vitae” , uno dei contributi più importanti e profondi di Giovanni Paolo II alla pace e ai diritti umani, assicura Tugdual Derville, fondatore del movimento di accoglienza per bambini handicappati “A Bras Ouverts” (“A Braccia Aperte”).

Derville, 43 anni, delegato generale dell’“Alliance pour les Droits de la Vie” (“Alleanza per i Diritti della Vita”), ha pubblicato questo Giovedì Santo il libro “Le bonheur blessé – Avortement, eugénisme et euthanasie en question” (“La felicità ferita – L’aborto, l’eugenismo e l’eutanasia in questione”, CLD éditions).

“Da dieci anni questo testo di Giovanni Paolo II è il motore principale del mio impegno”, ha riconosciuto in un’intervista concessa a ZENIT. “L’ho letto e riletto: è illuminante ed appassionante. Ha una ricchezza straordinaria, troppo spesso sconosciuta”.

“Questo appello al rispetto della vita”, ha aggiunto Derville, giurista, laureato in Scienze Politiche, sposato e padre di famiglia, “dal mio punto di vista è semplicemente la risposta ad una delle grandi ingiustizie della nostra società”.

“Nel contesto della mia opera d’aiuto nell’Alleanza per i Diritti della Vita ho ascoltato donne incinte con difficoltà o che hanno abortito, i loro compagni, chi le assiste, persone handicappate, dipendenti o anziane… Le loro testimonianze mi hanno portato a constatare che l’aborto, l’eugenismo, l’eutanasia non sono ‘temi sociali’, asettici, sui quali si può discutere con neutralità; si tratta di milioni di drammi intimi e dolorosi, con conseguenze incalcolabili”.

“Correndo il rischio di spaventare, parlo di un’autentica guerra – ha aggiunto l’autore del libro –. C’è un aspetto molto particolare: spesso l’aggressore e l’aggredito sono la stessa persona. In questi drammi familiari tutti sono vittime e non c’è un vincitore”.

“Molte donne mi hanno confidato dopo un aborto: ‘Ho perso tutto’. Bisognerebbe dichiarare uno stato di emergenza umanitaria per porre fine a questo ciclo di violenza devastante”, ha proposto.

“Di fatto, negli incontri con i leader sociali e con quanti promulgano le leggi o devono applicarle ho scoperto che molti politici sono contagiati ed accecati dalla paura, non hanno il coraggio di guardare l’evidenza”, ha riconosciuto.

“La nostra ricerca della felicità, tuttavia, non può essere annichilita – ha spiegato nella sua conversazione con ZENIT –. Anche se si tratta di giustificare l’aborto, l’eugenismo e l’eutanasia in virtù di una falsa concezione della felicità, ho voluto chiarire ciò che potrebbe portarci a false soluzioni; la ferita può e deve essere curata. La nostra ricerca della vera felicità può essere esaudita”.

Nel suo libro Derville ha denunciato l’ingiustizia nei confronti delle donne che hanno compiuto un aborto e delle persone handicappate.

“Per quanto riguarda le donne che hanno una gravidanza imprevista o difficile, l’ingiustizia più evidente è il modo in cui si vedono spesso imposto l’aborto come soluzione obbligata”, ha riconosciuto dopo aver parlato con molte di loro.

“A furia di parlare dell’‘interruzione volontaria di gravidanza’ come di un atto libero, molte donne si sottopongono all’aborto contro la propria volontà, per spirito di sacrificio, per rispondere alla richiesta del loro compagno, perché la società ha fatto credere loro che sia meglio non avere un bambino che ‘non è stato programmato’, che ‘non arriva al momento migliore’, o che, per mancanza di una coppia stabile, ‘non avrà un padre’”.

“Per quanto riguarda gli handicappati, l’ingiustizia si deve al fatto che al giorno d’oggi sempre più gente crede che ‘la loro vita non valga la pena di essere vissuta’”, ha denunciato.

“Sicuramente è stato compiuto un grande sforzo per aiutarli, in nome della giustizia sociale, e grazie a Dio si riconosce che offrono un grande contributo alla società e sono stati creati mezzi per favorire la loro integrazione sociale e professionale”, ha aggiunto.

“C’è però un paradosso: allo stesso tempo li riteniamo infelici; consideriamo la loro nascita un errore, uno sbaglio… e le conseguenze di questa contraddizione sono enormi: i genitori e le persone handicappate soffrono”, ha indicato Derville.

“Una mentalità di questo tipo può avere conseguenze drammatiche per tutti noi al termine della nostra vita, quando finiremo per essere dipendenti da qualcuno. Non bisogna sorprendersi del fatto che l’eutanasia diventi allora una grande tentazione”, ha poi avvertito.

Nonostante questo, ha quindi constatato, la vita di un handicappato o di una persona che soffre può essere felice.

“Grazie ad amici che vivono con handicap – nel libro riporto alcuni esempi –, ho cercato di evitare l’‘angelismo’, la disperazione e soprattutto il ‘dolorismo’. Se la felicità esiste, non si può ignorare l’esistenza della sofferenza ed il suo mistero”.

“Dobbiamo pertanto lottare – ha suggerito – contro la sofferenza, ma volerla eliminare è un’illusione dalle gravi conseguenze. Abbiamo cercato di escludere chi soffre quando in realtà la sfida consiste nel testimoniare la sua umanità”.

“Come cristiano, in questa Settimana Santa così particolare, nella quale il 25 marzo, giorno dell’Annunciazione e decimo anniversario dell’‘Evangelium Vitae’, coincide con il Venerdì Santo, mi sembrava ancora più essenziale meditare su questo mistero nella contemplazione della Croce, fonte di vita”.

“Di fatto, molte persone fortemente dipendenti ci insegnano con la loro testimonianza di vita che la felicità continua ad essere effettivamente ‘possibile’. Di che felicità stiamo parlando? E’ una domanda fondamentale! Questa analisi può implicare qualcosa di lacerante e allo stesso tempo tranquillizzante”.

“Credo che in Giovanni Paolo II, in questo momento particolare della sua vita terrena, abbiamo un’immagine paradossale della felicità”, ha affermato. “Chi potrebbe dire che la sua vita non sia stata feconda quando il suo corpo era capace di scalare vette innevate? Chi non sente l’influenza paradossale della sua presenza ora che la sua voce è quasi spenta?”.

“Non è forse diventato un ‘argomento’ vivo per quell’appello al rispetto dei più fragili e dei più vulnerabili che ha lanciato durante il suo pontificato? Chi non sogna, in fondo, una vita come la sua, caratterizzata dalla realizzazione e dalla dedizione?”, si è chiesto.

“Io stesso mi commuovo costantemente scoprendo la sofferenza dei nostri contemporanei – ha concluso –. In primo luogo, comunque, rimane un aspetto che ho scelto espressamente per concludere il mio libro: la capacità di sorprendersi”.

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ZENIT Staff

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