Medellin, Incontro religiosi, 9 settembre 2017 / © PHOTO.VA - OSSERVATORE ROMANO

Medellín: “Rimanere in Lui”

Incontro con sacerdoti, religiosi/e, consacrati/e, seminaristi e familiari — Testo completo

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Durante l’incontro con i sacerdoti, religiosi/e, consacrati/e, seminaristi e le loro famiglie di provenienza, avvenuto sabato 9 settembre 2017 nello Stadio Coperto “La Macarena” di Medellín, in Colombia, papa Francesco ha spiegato ai presenti come “rimanere in Gesù”, la chiave del segreto della “gioia” cristiana.
Sul podio era esposta la teca con le reliquie della prima santa colombiana, Laura di Santa Caterina da Siena (al secolo Maria Laura Montoya y Upeguí, 1874–1949), canonizzata dallo stesso papa Francesco il 12 maggio 2013. Il Santo Padre l’ha definita “una religiosa mirabile”, che da Medellín “si è prodigata in una grande opera missionaria in favore degli indigeni di tutto il Paese”.
Ad accogliere il Pontefice è stato il vescovo ausiliare di Medellín, mons. Elkin Fernando Alvarez Botero, incaricato in seno alla Conferenza Episcopale Colombiana (CEC) della pastorale delle vocazioni. Durante l’incontro ci sono state le testimonianze di un sacerdote, di una religiosa contemplativa e di una famiglia.
A tutti il Papa ha raccomandato di “rimanere in Lui”, “in Gesù”. Tre le vie, così ha spiegato: “toccando l’umanità di Cristo”, “contemplando la sua divinità” e “in Cristo per vivere nella gioia”.
Al termine del suo discorso ha chiesto a tutti di pregare per lui, perché — così ha spiegato — “benedica anche me”.
Il Papa aveva donato al seminario di Medellín, dove ha pranzato, un quadro del pittore italiano Piero Casentini, rappresentando la pesca miracolosa (2009).

Medellin, Incontro religiosi, 9 settembre 2017 / © PHOTO.VA - OSSERVATORE ROMANO

Medellin, Incontro religiosi, 9 settembre 2017 / © PHOTO.VA – OSSERVATORE ROMANO

Riportiamo di seguito la traduzione ufficiale delle parole del Papa. 
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Cari fratelli Vescovi,
cari sacerdoti, consacrati, consacrate, seminaristi,
care famiglie, cari amici colombiani!

L’allegoria della vera vite, che abbiamo appena ascoltato dal Vangelo di Giovanni, si colloca nel contesto dell’Ultima Cena di Gesù. In quel clima di intimità, di una certa tensione ma carica di amore, il Signore lavò i piedi dei suoi, volle perpetuare la sua memoria nel pane e nel vino, e inoltre parlò dal profondo del suo cuore a quelli che più amava.
In quella prima sera “eucaristica”, in quel primo tramonto del sole dopo il gesto di servizio, Gesù apre il suo cuore; consegna loro il suo testamento. E come in quel cenacolo continuarono poi a riunirsi gli Apostoli, con alcune donne e Maria, la Madre di Gesù (cfr At 1,13-14), così oggi qui in questo luogo ci siamo riuniti per ascoltarlo, e per ascoltarci. Suor Leidy di San Giuseppe, María Isabel e padre Juan Felipe ci hanno dato la loro testimonianza; anche ognuno di noi che siamo qui potrebbe raccontare la propria storia vocazionale. E tutti avremmo in comune l’esperienza di Gesù che ci viene incontro, ci precede e in questo modo ci ha “catturato” il cuore. Come dice il Documento di Aparecida: «Conoscere Gesù è il più bel regalo che qualunque persona può ricevere; averlo incontrato è per noi la cosa migliore che ci è capitata nella vita, e farlo conoscere con le nostre parole e opere è per noi una gioia», la gioia di evangelizzare (n. 29).
Molti di voi, giovani, avete scoperto questo Gesù vivo nelle vostre comunità; comunità con un fervore apostolico contagioso, che entusiasmano e suscitano attrazione. Dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri, nascono vocazioni genuine; la vita fraterna e fervente della comunità è quella che suscita il desiderio di consacrarsi interamente a Dio e all’evangelizzazione (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 107). I giovani sono per natura inquieti, in ricerca – o mi sbaglio? –. E qui voglio fermarmi un momento e fare una memoria dolorosa. E’ una parentesi, questa. I giovani sono naturalmente inquieti, inquietudine tante volte ingannata, distrutta dai sicari della droga. Medellín mi porta questo ricordo, mi evoca tante vite giovani stroncate, scartate, distrutte. Vi invito a ricordare, ad accompagnare questo luttuoso corteo, a chiedere perdono per chi ha distrutto le aspirazioni di tanti giovani, chiedere al Signore che converta i loro cuori, che abbia fine questa sconfitta dell’umanità giovane. I giovani sono per natura inquieti, in ricerca, e, benché assistiamo a una crisi dell’impegno e dei legami comunitari, sono molti i giovani che si mobilitano insieme di fronte ai mali del mondo e si dedicano a diverse forme di militanza e di volontariato. Sono molti. E alcuni, sì, sono cattolici praticanti, molti sono cattolici “all’acqua di rose”, come diceva mia nonna; altri non sanno se credono o non credono… Ma questa inquietudine li porta a fare qualcosa per gli altri, questa inquietudine riempie il volontariato di tutto il mondo di volti giovani. Bisogna incanalare l’inquietudine. Quando lo fanno per amore di Gesù, sentendosi parte della comunità, diventano “viandanti della fede”, felici di portare Gesù in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra (cfr ibid., 107). E quanti, senza sapere che lo stanno portando, lo portano! E’ questa ricchezza di andare per le strade servendo, di essere viandanti di una fede che forse loro stessi non capiscono del tutto; è testimonianza, testimonianza che ci apre all’azione dello Spirito Santo che entra e lavorerà nei nostri cuori.
In uno dei viaggi della Giornata della Gioventù in Polonia [Cracovia 2016], in un pranzo che ho fatto con i giovani – con 15 giovani e l’Arcivescovo – uno mi ha chiesto: “Cosa posso dire a un mio compagno, giovane, che è ateo, che non crede? Che argomenti posso portargli?”. E mi è venuto spontaneo rispondergli: “Guarda, l’ultima cosa che devi fare è dirgli qualcosa!”. E’ rimasto sorpreso. Comincia a fare, comincia a comportarti in maniera tale che l’inquietudine che lui ha dentro di sé lo renda curioso e ti domandi; e quando ti chiede la tua testimonianza, lì puoi incominciare a dire qualcosa. E’ tanto importante questo essere viandanti, viandanti della fede, viandanti della vita.
La vite a cui si riferisce Gesù, nel testo che è stato proclamato, è la vite che è tutto il “popolo dell’alleanza”. Profeti come Geremia, Isaia ed Ezechiele si riferiscono ad esso paragonandolo a una vite; e anche un salmo, l’80, canta dicendo: «Hai sradicato una vite dall’Egitto […]. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra» (vv. 9-10). A volte esprimono la gioia di Dio per la sua vite, altre volte la sua collera, la delusione o il dispetto […]; mai, mai Dio si disinteressa della sua vite, mai smette di soffrire per i suoi allontanamenti – se io mi allontano Lui soffre nel suo cuore – mai smette di andare incontro a questo popolo che, quando si separa da Lui si secca, brucia e si distrugge.
Com’è la terra, il nutrimento, il sostegno dove cresce questa vite in Colombia? In quali contesti si generano i frutti delle vocazioni di speciale consacrazione? Sicuramente in ambienti pieni di contraddizioni, di chiaroscuri, di situazioni relazionali complesse. Ci piacerebbe avere a che fare con un mondo, con famiglie e legami più sereni, ma siamo dentro questo cambiamento epocale, questa crisi culturale, e in mezzo ad essa, tenendo conto di essa, Dio continua a chiamare. E non venite qui a raccontarmi: “No, certo, non ci sono tante vocazioni di speciale consacrazione, perché, è chiaro, con questa crisi che stiamo vivendo…”. Sapete cos’è questa? E’ una favoletta! Chiaro? Anche in mezzo a questa crisi, Dio continua a chiamare. Sarebbe quasi illusorio pensare che tutti voi avete ascoltato la chiamata del Signore all’interno di famiglie sostenute da un amore forte e pieno di valori come la generosità, l’impegno, la fedeltà e la pazienza (cfr Esort. ap. Amoris laetitia, 5). Alcuni sì, ma non tutti. Alcune famiglie, Dio voglia molte, sono così. Ma tenere i piedi per terra vuol dire riconoscere che i nostri percorsi vocazionali, il sorgere della chiamata di Dio, ci trova più vicino a ciò che riporta la Parola di Dio e che ben conosce la Colombia: «un sentiero di sofferenza e di sangue […] la violenza fratricida di Caino su Abele e i vari litigi tra i figli e tra le spose dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, per giungere poi alle tragedie che riempiono di sangue la famiglia di Davide, fino alle molteplici difficoltà familiari che solcano il racconto di Tobia o l’amara confessione di Giobbe abbandonato» (ibid., 20). E fin dall’inizio è stato così: non pensate alla situazione ideale, questa è la situazione reale. Dio manifesta la sua vicinanza e la sua elezione dove vuole, nella terra che vuole, così com’è in quel momento, con le contraddizioni concrete, come Lui vuole. Egli cambia il corso degli avvenimenti chiamando uomini e donne nella fragilità della storia personale e comunitaria di ciascuno. Non abbiamo paura in di questa terra complessa. Ieri sera, una ragazza con capacità speciali, nel gruppo che mi ha dato il benvenuto, che mi ha accolto alla Nunziatura, ha detto che nel nucleo dell’umano c’è la vulnerabilità, e spiegava perché. E mi è venuto in mente di chiederle: “Siamo tutti vulnerabili? – “Sì, tutti” – “Ma c’è qualcuno che non è vulnerabile?”. E lei ha risposto: “Dio”. Ma Dio ha voluto farsi vulnerabile, ha voluto uscire a camminare con noi per la strada, vivere la nostra storia così com’era; ha voluto farsi uomo in mezzo a una contraddizione, in mezzo a qualcosa di incomprensibile, con il consenso di una ragazza che non comprendeva ma obbedisce e di un uomo giusto che ha seguito quello che gli era stato comandato; ma tutto questo in mezzo a tante contraddizioni. Non abbiamo paura in questa terra complessa! Dio ha sempre fatto il miracolo di generare buoni grappoli, come le buone focacce a colazione. Che non manchino vocazioni in nessuna comunità, in nessuna famiglia di Medellín! E quando a colazione trovate una di queste belle sorprese, dite: “Ah, che bello! E Dio è capace di fare qualcosa con me?”. Chiedetevelo, prima di mangiarla! Chiedetevelo.
E questa vite – che è quella di Gesù – ha la caratteristica di essere quella vera. Egli ha già utilizzato questo aggettivo in altre occasioni nel Vangelo di Giovanni: la luce vera, il vero pane del cielo, la vera testimonianza. Ora, la verità non è qualcosa che riceviamo – come il pane o la luce – ma qualcosa che scaturisce dall’interno. Siamo popolo eletto per la verità, e la nostra chiamata dev’essere nella verità. Se siamo tralci di questa vite, se la nostra vocazione è innestata in Gesù, non c’è posto per l’inganno, la doppiezza, le scelte meschine. Tutti dobbiamo essere attenti affinché ogni tralcio serva a ciò per cui è stato pensato: per portare frutto. Io, sono pronto a portare frutto? Fin dall’inizio, coloro a cui spetta il compito di accompagnare i percorsi vocazionali, dovranno motivare la retta intenzione, cioè il desiderio autentico di configurarsi a Gesù, il pastore, l’amico, lo sposo. Quando i percorsi non sono alimentati da questa vera linfa che è lo Spirito di Gesù, allora facciamo esperienza dell’aridità e Dio scopre con tristezza quei polloni già morti. Le vocazioni di speciale consacrazione muoiono quando vogliono nutrirsi di onori, quando sono spinte dalla ricerca di una tranquillità personale e di promozione sociale, quando la motivazione è “salire di categoria”, attaccarsi a interessi materiali, che arrivano anche all’errore della brama di guadagno. L’ho già detto in altre occasioni, e voglio ripeterlo come qualcosa che è vero e sicuro, non dimenticatelo: il diavolo entra dal portafoglio. Sempre. Questo non riguarda solo gli inizi, tutti dobbiamo stare attenti, perché la corruzione negli uomini e nelle donne che sono nella Chiesa comincia così, poco a poco, e poi – lo dice Gesù stesso – mette radici nel cuore e finisce per allontanare Dio dalla propria vita. «Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6,24). Gesù dice: “Non si può servire due signori”. Due signori: è come se ci fossero due signori nel mondo. Non si può servire Dio e il denaro. Gesù dà il titolo di “signore” al denaro. Che cosa vuol dire? Che se ti prende non ti lascia andare: sarà il tuo signore partendo dal tuo cuore. Attenzione! Non possiamo approfittare della nostra condizione religiosa e della bontà della nostra gente per essere serviti e ottenere benefici materiali.
Ci sono situazioni, atteggiamenti e scelte che mostrano i segni dell’aridità e della morte – quando avviene questo? -: non possono continuare a rallentare il flusso della linfa che nutre e dà vita! Il veleno della menzogna, delle cose nascoste, della manipolazione e dell’abuso del popolo di Dio, dei più fragili e specialmente degli anziani e dei bambini non può trovare spazio nella nostra comunità. Quando un consacrato o una consacrata o una comunità, un’istituzione – che sia la parrocchia o qualsiasi – sceglie di seguire questo stile, è un ramo secco; bisogna solo sedersi e aspettare che Dio venga a tagliarlo.
Ma Dio non solo taglia; l’allegoria continua dicendo che Dio pota la vite dalle imperfezioni. E’ così bella la potatura! Fa male però è bella. La promessa è che daremo frutto, e in abbondanza, come il chicco di grano, se siamo capaci di donarci, di dare liberamente la vita. In Colombia abbiamo esempi del fatto che questo è possibile. Pensiamo a santa Laura Montoya, una religiosa mirabile le cui reliquie sono qui. Lei da questa città si è prodigata in una grande opera missionaria in favore degli indigeni di tutto il Paese. Quanto ci insegna questa donna consacrata nella dedizione silenziosa, vissuta con abnegazione, senza altro interesse che manifestare il volto materno di Dio! E così possiamo ricordare il beato Mariano di Gesù Euse Hoyos, uno dei primi alunni del Seminario di Medellín, e altri sacerdoti e religiose colombiani, i cui processi di canonizzazioni sono stati introdotti; come pure tanti altri, migliaia di colombiani anonimi che nella semplicità della loro vita quotidiana hanno saputo donarsi per il Vangelo e di cui voi sicuramente conserverete la memoria e vi saranno stimolo di dedizione. Tutti ci mostrano che è possibile seguire fedelmente la chiamata del Signore, che è possibile portare molto frutto, anche adesso, in questo tempo e in questo luogo.
La buona notizia è che Lui è disposto a purificarci; la buona notizia è che non siamo ancora “finiti”, siamo ancora nel “processo di fabbricazione” e come buoni discepoli siamo in cammino. E in che modo Gesù taglia i fattori di morte che attecchiscono nella nostra vita e distorcono la chiamata? Invitandoci a rimanere in Lui; rimanere non significa solamente stare, bensì indica mantenere una relazione vitale, esistenziale, assolutamente necessaria; è vivere e crescere in unione feconda con Gesù, fonte di vita eterna. Rimanere in Gesù non può essere un atteggiamento meramente passivo o un semplice abbandono senza conseguenze nella vita quotidiana. C’è sempre una conseguenza, sempre. E permettetemi di proporvi – perché sta diventando un po’ lungo… [gridano: “No!”] Naturalmente non direte “sì”, e allora non vi credo! – permettetemi di proporvi tre modi di rendere effettivo questo rimanere, che vi possono aiutare a rimanere in Gesù.
1. Rimaniamo in Gesù toccando l’umanità di Gesù
Con lo sguardo e i sentimenti di Gesù, che contempla la realtà non come giudice, ma come buon samaritano; che riconosce i valori del popolo con cui cammina, come pure le sue ferite e i suoi peccati; che scopre la sofferenza silenziosa e si commuove davanti alle necessità delle persone, soprattutto quando queste si trovano succubi dell’ingiustizia, della povertà disumana, dell’indifferenza, o dell’azione perversa della corruzione e della violenza.
Con i gesti e le parole di Gesù, che esprimono amore ai vicini e ricerca dei lontani; tenerezza e fermezza nella denuncia del peccato e nell’annuncio del Vangelo; gioia e generosità nella dedizione e nel servizio, soprattutto ai più piccoli, respingendo con forza la tentazione di dare tutto per perduto, di accomodarci o di diventare solo amministratori di sventure. Quante volte ascoltiamo uomini e donne consacrati, che sembra che invece di amministrare gioia, crescita, vita, amministrano disgrazie, e passano il tempo a lamentarsi delle disgrazie di questo mondo. E’ la sterilità, la sterilità di chi è incapace di toccare la carne sofferente di Gesù.
2. Rimaniamo contemplando la sua divinità
Suscitando e sostenendo la stima per lo studio che accresce la conoscenza di Cristo, perché, come ricorda sant’Agostino, non si può amare chi non si conosce (cfr La Trinità, Libro X, cap. I, 3).
Privilegiando per questa conoscenza l’incontro con la Sacra Scrittura,  specialmente con il Vangelo, dove Cristo ci parla, ci rivela il suo amore incondizionato al Padre, ci contagia la gioia che sgorga dall’obbedienza alla sua volontà e dal servizio ai fratelli. Voglio farvi una domanda, ma non rispondete, ognuno risponde per conto suo. Quanti minuti o quante ore io leggo il Vangelo o la Scrittura ogni giorno? Datevi la risposta. Chi non conosce le Scritture, non conosce Gesù. Chi non ama le Scritture, non ama Gesù (cfr Girolamo, Prologo al commento sul profeta Isaia: PL 24, 17). Diamo tempo a una lettura orante della Parola!, ad ascoltare in essa che cosa Dio vuole per noi e per il nostro popolo.
Che tutto il nostro studio ci aiuti ad essere capaci di interpretare la realtà con gli occhi di Dio; che non sia uno studio evasivo rispetto a ciò che vive la nostra gente e neppure segua le onde delle mode e delle ideologie. Che non viva di nostalgie e non voglia ingabbiare il mistero; non cerchi di rispondere a domande che nessuno si pone più per lasciare nel vuoto esistenziale quelli che ci interpellano dalle coordinate dei loro mondi e delle loro culture.
Rimanere e contemplare la sua divinità facendo della preghiera la parte fondamentale della nostra vita e del nostro servizio apostolico. La preghiera ci libera dalla zavorra della mondanità, ci insegna a vivere in modo gioioso, a scegliere tenendoci lontani dalla superficialità, in un esercizio di autentica libertà. Nella preghiera cresciamo in libertà, nella preghiera impariamo a essere liberi. La preghiera ci toglie dalla tendenza a centrarci su noi stessi, nascosti in un’esperienza religiosa vuota, e ci conduce a porci con docilità nelle mani di Dio per compiere la sua volontà e corrispondere al suo progetto di salvezza. E nella preghiera, voglio anche consigliarvi una cosa: chiedete, contemplate, ringraziate, intercedete, ma abituatevi anche ad adorare. Non è molto di moda, adorare. Abituatevi ad adorare. Imparare ad adorare in silenzio. Imparate a pregare così.
Siamo uomini e donne riconciliati per riconciliare. Essere stati chiamati non ci dà un certificato di buona condotta e impeccabilità; non siamo rivestiti di un’aura di santità. Guai al religioso, al consacrato, al prete, alla suora che vive con una faccia da santino, guai! Tutti siamo peccatori, tutti. E abbiamo bisogno del perdono e della misericordia di Dio per rialzarci ogni giorno; Egli strappa ciò che non va bene e abbiamo fatto male, lo getta fuori dalla vigna e lo brucia. Ci purifica perché possiamo portare frutto. Così è la fedeltà misericordiosa di Dio con il suo popolo, di cui siamo parte. Lui non ci abbandonerà mai sul bordo della strada, mai. Dio fa di tutto per evitare che il peccato ci vinca e chiuda le porte della nostra vita a un futuro di speranza e di gioia. Lui fa di tutto per evitare questo. E se non ci riesce, rimane lì accanto, finché mi viene in mente di guardare in alto, perché mi rendo conto che sono caduto. Lui è così.
3. Infine, occorre rimanere in Cristo per vivere nella gioia. Terzo: rimanere per vivere nella gioia.
Se rimaniamo in Lui, la sua gioia sarà in noi. Non saremo discepoli tristi e apostoli avviliti. Leggete la fine della “Evangelii nuntiandi” [esortazione apostolica di Paolo VI]: ve lo consiglio. Al contrario, rifletteremo e porteremo la gioia vera, quella gioia piena che nessuno potrà toglierci, diffonderemo la speranza di vita nuova che Cristo ci ha donato. La chiamata di Dio non è un carico pesante che ci toglie la gioia. E’ pesante? A volte sì, però non ci toglie la gioia. Anche attraverso questo peso ci dà la gioia. Dio non ci vuole sommersi nella tristezza – uno dei cattivi spiriti che si impadroniscono dell’anima, come già denunciavano i monaci del deserto–; Dio non ci vuole sommersi nella stanchezza, tristezza e stanchezza che provengono dalle attività vissute male, senza una spiritualità che renda felice la nostra vita e persino le nostre fatiche. La nostra gioia contagiosa dev’essere la prima testimonianza della vicinanza e dell’amore di Dio. Siamo veri dispensatori della grazia di Dio quando lasciamo trasparire la gioia dell’incontro con Lui.
Nella Genesi, dopo il diluvio, Noè pianta una vite come segno del nuovo inizio; e al termine dell’Esodo, quelli che Mosè ha inviato a ispezionare la terra promessa ritornano con un grappolo d’uva di questa dimensione [indica l’altezza], segno della terra dove scorrono latte e miele. Dio è stato attento a noi, alle nostre comunità e alle nostre famiglie: sono qui presenti, e mi sembra molto bello che ci siano i padri e le madri dei consacrati, dei sacerdoti e dei seminaristi. Dio ha rivolto il suo sguardo su di noi, sulle nostre comunità e famiglie. Il Signore ha rivolto il suo sguardo alla Colombia: voi siete segno di questo amore di predilezione. A noi spetta adesso offrire tutto il nostro amore e il nostro servizio uniti a Gesù Cristo, che è la nostra vite. Ed essere promessa di un nuovo inizio per la Colombia, che si lascia alle spalle un diluvio – come quello di Noè -, un diluvio di scontri e violenze, e che vuole portare molti frutti di giustizia e di pace, di incontro e di solidarietà. Che Dio vi benedica! che Dio benedica la vita consacrata in Colombia! E non dimenticatevi di pregare per me, perché benedica anche me. Grazie!

© Copyright – Libreria Editrice Vaticana

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Anita Bourdin

Journaliste française accréditée près le Saint-Siège depuis 1995. Rédactrice en chef de fr.zenit.org. Elle a lancé le service français Zenit en janvier 1999. Master en journalisme (Bruxelles). Maîtrise en lettres classiques (Paris). Habilitation au doctorat en théologie biblique (Rome). Correspondante à Rome de Radio Espérance.

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