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Evviva la Domenica!

Difendere (e godersi) la domenica non è interesse clericale, ma battaglia di civiltà

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«Non sento più il suono della domenica. Non ci sono più i vecchietti nelle piazze la domenica o le tavole apparecchiate. La domenica è diventato un giorno come un altro».
Canta così, in uno dei suoi brani, Zucchero. Che tristezza e che nostalgia, per quella domenica che non c’è più. Iniziano ad accorgersene anche i simboli del capitalismo a noi più vicini nella quotidianità, i marchi piccoli e grandi della distribuzione commerciale, quelli che imitando modelli altrui e sulla spinta di apporti legislativi il cui fine è sostenere l’economia in tempi di crisi dedicano il settimo giorno e le altre festività all’apertura delle serrande nel tentativo – a quanto pare illusorio, a giudicare dai risultati – di dare una mano agli incassi e, indirettamente, all’economia del Paese.
È passato qualche anno dal varo della liberalizzazione degli orari e le decisioni vengono riconsiderate, tanto che fortunatamente, si comincia a tornare a indietro. L’ultimo ripensamento è quello della Unicoop: 1 milione di soci, 8.000 dipendenti e 104 punti vendita in Toscana. Qui le saracinesche resteranno abbassate in 10 festività nazionali su 12 e le domeniche si lavorerà mezza giornata e soltanto in 40 supermercati. Un passo importante, oltretutto fortemente simbolico. Se da un lato, infatti, esso vale a sottolineare l’immobilismo del Parlamento, incapace di approvare una legge di disciplina che da anni giace alla Camera, dall’altro evidenzia un dato inequivocabile: il bisogno – laico e perciò ancor più rilevante – di salvaguardare la domenica persantificare la festa, come recita il terzo comandamento. Per stare insieme in famiglia, riappropriarsi del proprio tempo e delle relazioni trascurate durante la settimana.
La questione, in effetti, non è solo economica. In primis, è antropologica: senza il riposo domenicale ogni uomo si fa vuoto, privo di luce, non gusta più le belle cose che fa, perché il riposo è antropologicamente e spiritualmente utile, anzi necessario. Viene poi la ragione sociale, perché le famiglie, con padri e madri costretti a lavorare di domenica (e nelle feste comandate) hanno meno tempo da dedicare a se stessi ed ai figli. Infine, anche l’aspetto dei conti: la liberalizzazione degli orari, secondo le stime di Confesercenti, ha finito con l’abbassare i ricavi del commercio del 2%, a dimostrazione che la libertà vale poco se è orfana dell’etica e del buon senso.
Difendere (e godersi) la domenica, insomma, non è interesse clericale, ma battaglia di civiltà. Perché senza la domenica mancherebbero il riposo e le forze per affrontare le difficoltà quotidiane e non soccombere, per rilanciare la speranza e ricostruire legami, relazioni, affetti. Magari pure per tornare a riempire di umanità le piazza oggi vuote di sentimenti e spesso anche di gente. E finalmente, per dirla con Franz Kafka, di nuovo come prima «domenica saremo insieme, cinque, sei ore, troppo poco per parlare, abbastanza per tacere, per tenerci per mano, per guardarci negli occhi».
Monsignor Vincenzo Bertolone è arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace e presidente della Conferenza Episcopale Calabra. 

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Vincenzo Bertolone

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