“Folgorato” sulla Pennsylvania Avenue, sede della Casa Bianca. Barack Obama, che oggi accoglie con giubilo e perfino con quel pizzico di sciorinata commozione la decisione della Corte Suprema di legalizzare in tutti gli Stati Uniti i matrimoni tra persone dello stesso sesso, è in realtà un neofita sostenitore delle cosiddette nozze gay.
“God is in the mix”, c’entra anche Dio, disse nell’agosto 2008 l’allora senatore democratico, candidato a diventare il 44° presidente degli Stati Uniti, in un’intervista al pastore evangelico Rick Warren. Come cristiano, spiegò con tono determinato, riteneva che il matrimonio fosse solo un’unione tra un uomo e una donna. Riteneva, appunto… Al “primo presidente nero” degli Stati Uniti sarebbe infatti bastato varcare la soglia della Casa Bianca, per rimuovere ogni retroterra confessionale e diventare anche il “primo presidente gay”, come lo ha “incoronato” la rivista Newsweek dedicandogli una copertina nel maggio 2012 con tanto di aureola arcobaleno sulla testa.
Una posizione, quella di Obama a proposito dei matrimoni omosessuali, che si è però “evoluta” (come dichiarato da lui stesso) nel corso della campagna elettorale per le presidenziali del 2012. Se con un occhio il presidente statunitense guardò dentro di sé e, forse, maturò anche un sincero auto-convincimento personale, con l’altro occhio puntò dritto verso le tabelle dei sondaggi elettorali e verso le casse del Partito democratico.
Da buon politico, Obama capì che la sua ri-elezione non avrebbe potuto prescindere dal sostegno di importanti corporation e lobby, compresa quella degli omosessuali. Fu così che, incoraggiato anche dai suoi collaboratori e in particolare dal suo vice Joe Biden, mutò posizione in funzione della convenienza elettorale. Il premio di tale scelta lo andò a ritirare alle urne, come sottolineato dal 68enne David Mixner, definito dal solito Newsweek il “gay più potente d’America”. L’attivista omosessuale affermò al Corriere della Sera: “La comunità Lgbt ha dato a Obama la percentuale più alta di voti dopo quella afroamericana”. E ancora: “Il voto Lgbt è molto importante: pesa due volte di più di quello ebraico”.
Sorge però un interrogativo. Se in una democrazia il risultato elettorale è espressione della maggioranza, come è possibile che a condizionare le elezioni sia invece una minoranza (una ricerca effettuata l’anno scorso da un organismo del Dipartimento della Salute statunitense stima che gli americani appartenenti alla categoria Lgbt siano poco più del 2% della popolazione)?
La risposta a un tale quesito si trova fra le pieghe dell’idillio che unisce istanze dei movimenti omosessuali agli interessi economici di note banche d’affari e multinazionali, le quali, con un’abilità incomparabile, riescono a spostare ingenti flussi di denaro all’indirizzo dei partiti politici ma anche dei colossi editoriali, condizionando così l’opinione pubblica.
Il diffuso sentimento gay-friendly nella Silicon Valley e a Wall Street è cosa nota. Tempo fa oltreoceano ha destato scalpore una notizia: per la prima volta nella storia ben 379 aziende hanno stilato un documento comune. L’inusuale coro unanime era un appello rivolto ai nove giudici della Corte Suprema che si sono pronunciati la settimana scorsa per l’obbligo di legalizzare il matrimonio omosessuale in tutti gli Stati Uniti. Oltre ai grandi del web e dell’hi-tech come Google, Apple, Facebook, Twitter, Microsoft, Amazon, tra questi inopinati paladini dei diritti civili figurano altri giganti del business (Coca Cola, Pepsi, Levi’s, Nike, Groupon) e della finanza (Goldman Sachs e Jp Morgan).
Nulla di oscuro dietro queste manovre. Anzi, le imprese non hanno vergogna a riconoscere che più che un impeto filantropico, è il profitto a dettare la scelta di schierarsi così apertamente. Nel documento si lamentava che “l’attuale quadro legale sui matrimoni tra persone dello stesso sesso è dispersivo e confuso e comporta oneri significativi per i datori di lavoro e per i loro dipendenti, rendendo spesso difficile portare avanti l’attività lavorativa”. La richiesta era quindi di estendere la legalizzazione in tutti e 50 gli Stati Uniti.
Già nel 2009, d’altronde, la rivista Forbes valutava l’indotto complessivo dei matrimoni omosessuali, una volta approvati in tutto il Paese, in circa 9,5 miliardi di dollari. Una realtà, quella dei benefici che trae il capitalismo dalle nozze omosessuali, già sperimentata a New York. Nel 2012, a un anno esatto dalla loro approvazione nella Grande Mela, la rivista Bloomberg usciva con il seguente titolo: “Il matrimonio omosessuale ha prodotto 259 milioni di dollari per l’economia di New York”.
Più che di diritti civili dunque, è una questione di business, vero motore della democrazia americana. Ed è in nome dello stesso principio che Barack Obama consegnerà presto il vessillo arcobaleno tra le mani della candidata democratica alle prossime presidenziali, quella Hillary Clinton che l’attivista omosessuale Mixner definisce “molto popolare nella comunità Lgbt”.