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La fede fa miracoli

Lectio Divina sulle letture per la XIII domenica del Tempo Ordinario (Anno B) — 28 giugno 2015

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture per la XIII domenica del Tempo Ordinario (Anno B), 28 giugno 2015.

Come di consueto offre anche una lettura patristica.

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LECTIO DIVINA

Domenica XIII del Tempo Ordinario – Anno B – 28 giugno 2015

Rito Romano
Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

Rito Ambrosiano
Gen 17,1b-16; Sal 104; Rm 4,3-12; Gv 12,35-50
V Domenica dopo Pentecoste.

1) Fede che guarisce e salva.

Nel lungo brano del Vangelo di questa Domenica sono presentati due miracoli, che si incastrano l’uno nell’altro. Il filo rosso che unisce il miracolo della guarigione della donna, che soffriva perdite di sangue, e quello della risurrezione della figlia del capo-sinagoga Giairo è la fede. Questa fede non solo guarisce e ridà la vita, ma salva la vita dandole pienezza.

Come dice Papa Francesco: “All’uomo che soffre Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce a ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce” (Lumen Fidei, 57).

In effetti, nella scena evangelica di oggi vediamo Gesù che condivide il dolore di Giairo, uno dei capi della sinagoga, il quale ha la figlia dodicenne gravemente ammalata, e la sofferenza della donna malata.

Soffermiamoci un po’ su questa scena. Avendo saputo delle guarigioni di Gesù, Giario, incurante della sua posizione sociale e e del suo ruolo autorevole, si getta ai piedi del Nazareno e lo supplica insistentemente di andare a imporre le mani alla sua figlioletta, perché sia salvata e viva. Gesù accoglie la richiesta e si dirige con lui verso la sua casa. Ma ecco che, nella ressa della folla che stringe da ogni parte, avanza una donna, affetta da 12 anni di eccessive perdite emorragiche; la poveretta aveva speso tutti i suoi averi dai medici senza nulla ottenere, anzi peggiorando.

Il miracolo della guarigione della donna che soffriva perdite di sangue si sarebbe prestato molto bene a sottolineare la potenza di Gesù. È bastato toccare la veste di Gesù per guarire. Però non è solo su ciò che San Marco ferma l’attenzione. L’Evangelista parla anche della meraviglia dei discepoli: “Vedi la folla che ti preme e domandi: chi mi ha toccato?”.

Perché Gesù dà rilievo al gesto di questa donna la quale non vuole farsi notare toccandogli quasi un lembo del mantello che Gesù ha sulle spalle? Occorre sapere che la legge mosaica dichiarava impura la donna che aveva perdite di sangue, e chi la toccava diventava impuro. Ecco perché la donna tocca la veste di Gesù di nascosto, approfittando della calca, ed ecco perché si sente tanto colpevole, paurosa e tremante, quando si vede scoperta. Ed è per lo stesso motivo che Gesù dà pubblicità all’accaduto: per dichiarare pubblicamente, di fronte a tutti, che non si sente impuro per essere stato toccato dalla donna, e che il puro e l’impuro legali sono superati dalla fede. Per questo, pubblicamente il Salvatore dice alla donna che gli ha “rubato” il miracolo: “Va’ in pace, la tua fede ti ha salvato”.

Ancora la fede è al centro della guarigione della figlia di Giairo: “Non temere, solo abbi fede”. Fede nella potenza di Gesù, una potenza capace di raggiungerti qui, nella tua propria situazione, vittoriosa persino sulla morte. Ma in questo racconto Marco accenna anche a un altro tema: “La bambina non è morta, ma dorme”. Il grande miracolo è la vittoria sulla morte, come ci ricorda il Salmo: “Dio guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia » (103,3-4). In effetti, non sarebbe salvezza piena se non fosse per sempre.

Gesù, dopo aver smentito le parole degli uomini, che dicevano che la bambina era morta, e dopo averli mandati tutti fuori, dà un nome nuovo anche alla morte. La sua Parola è più importante di quella degli uomini. La Parola di Dio ridà vita, la dà per sempre.

2) Fede: è questione di intelligenza e di cuore, è maniera di vivere non solo di pensare.

Come stiamo vedendo, l’attenzione è attirata non tanto sui due miracoli, quanto sulla fede di chi li domanda. La fede è indispensabile al miracolo. Gesù non compie miracoli per forzare, ad ogni costo, il cuore dell’uomo. I miracoli sono segni a favore della fede, ma non sminuiscono il coraggio di credere. I miracoli sono un dono, una risposta alla sincerità e purezza del cuore dell’uomo che cerca il Signore e che mendica la guarigione del corpo e dell’anima.

Gesù non compie miracoli, dove gli uomini pretendono di essere loro a stabilire le modalità dell’agire di Dio. Il miracolo è la libera risposta di Dio alla mendicanza della creatura umana.

Purtroppo siamo spesso ciechi di fronte ai molti segni che Dio compie, non abbiamo il cuore aperto per decifrarli e il coraggio per deciderci, e allora ci si scusa pretendendone altri. Chiediamo nuovi segni, sempre nuovi segni, e intanto non ci accorgiamo dei molti segni che Dio ha già – di sua iniziativa – seminato lungo la strada della storia e della nostra vita.

Dobbiamo chiedere ma con purezza di cuore e compunzione. La parola compunzione diventa molto espressiva se pensiamo alla sua etimologia: significa infatti il bruciore provocato da una puntura. Quel bruciore che provoca in noi l’amore di Dio manifestato in Cristo quanto tocca il nostro cuore peccatore. La compunzione non equivale al senso di colpa né agli scrupoli, ma fa riferimento all’amore, perché deriva dalla considerazione che Dio ci ama e che “Cristo è morto per noi, quando eravamo ancora peccatori” (Rm, 5, 8).

Il contrario della paura non è il coraggio, è la fede. L’importante è perseverare in essa e farla crescere in noi. Anche quando il dubbio assale, anche se la nostra fede non ha nulla di eroico, lasciamo che la Parola di Dio abiti nel nostro cuore, che il Nome di Cristo salga alle labbra con un’ostinazione da innamorati.

La fede è un atto umanissimo, vitale, che tende alla vita e si oppone alla morte. La fede è un atto dell’intelligenza e un abbandono della volontà, che ci fa aderire a Dio come un bambino aderisce al petto della madre, poi come i bambini dal cuore svezzato della mamma restiamo confidenti nella braccia di Dio.

“La fede è propriamente una risposta al dialogo di Dio e alla sua Parola, alla Sua Rivelazione.

La fede è il “sì” che consente al pensiero divino di entrare nel nostro.

La fede è un atto che si fonda sul credito che noi diamo al Dio vivente: è l’atto di Abramo che credette a Dio e che da ciò trasse salvezza.

La fede è un insieme di convinzione e fiducia, che pervade tutta la personalità del credente e impegna la sua maniera di vivere.” (Paolo VI, novembre 1966).

E’ dunque giusto chiederci, oggi, quale dimensione ha la nostra fede: se è un atteggiamento superficiale che non dà credito alla Sua onnipotenza o “una maniera di vivere Dio”.

Le Vergini consacrate nel mondo testimoniano che la fede è una maniera di vivere Dio. La loro vita di vergini è testimonianza dell’amore di Dio e manifestazione della sapienza del cuore ricevuta da Cristo. Con la vita totalmente donata a Dio queste donne “predicano il vangelo della Verginità”, secondo il quale “la fede non è una cosa decorativa, ornamentale; vivere la fede non è decorare la vita con un po’ di religione” (Papa Francesco), ma è criterio di base per vivere veramente. Con umiltà e con fede amorosa le Vergini consacrate nel mondo si sono donate a Cristo, di cui ascoltano la Parola con costanza mediante la lettura assidua della Bibbia e si protendono nel mondo quale vangelo di Verg
inità “al fine di amare più ardentemente il Cristo e servire con più libera dedizione i fratelli” (Premesse del Rito di Consacrazione della Vergini). Per questo l’esortazione apostolica Vita consecrataattribuisce loro una sorta di “magistero spirituale” che le colloca come «guide esperte di vita spirituale» (Vita consecrata, n. 55). Esse ci insegnano a vivere la fede con il cuore, ad ascoltare la sua Parola

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LETTURA PATRISTICA</strong>

Sant’Efrem, Diatessaron, VII, 6, 19-23

1. I medici e il medico

La sua fede arrestò in un istante, come in un batter d’occhio, il flusso di sangue che era sgorgato per dodici anni. Numerosi medici l’avevano visitata moltissime volte, ma l’umile medico, il figlio unico la guardò soltanto un momento. Spesso, quella donna aveva profuso forti somme per i medici; ma all’improvviso, accanto al nostro medico, i suoi pensieri sparsi si raccolsero in un’unica fede. Quando i medici terreni la curavano, ella pagava loro un prezzo terreno (Mc 5,26); ma quando il medico celeste le apparve, ella le presentò una fede celeste. I doni terrestri furono lasciati agli abitanti della terra, i doni spirituali furono elevati al Dio spirituale nei cieli.

I medici stimolavano coi loro rimedi i dolori causati dal male, come una belva abbandonata alla sua ferocia. Così, per reazione, come una belva inferocita, i dolori li diffondevano dappertutto, essi e i loro rimedi. Quando tutti si affrettavano di sottrarsi alla cura di quel dolore, una potenza uscì, rapida, dalla frangia del mantello di Nostro Signore; colpì violentemente il male, lo bloccò e s’attirò l’elogio per il male domato. Uno solo si prese gioco di quelli che s’erano presi gioco per molto. Un solo medico divenne celebre per un male che parecchi medici avevano reso celebre. Proprio quando la mano di quella donna aveva distribuito grandi cifre, la sua piaga non ricevette alcuna guarigione; ma quando la sua mano si tese vuota, la cavità si riempi di salute. Finché la sua mano era ripiena di ricompense tangibili, essa era vuota di fede nascosta, ma quando si spogliò delle ricompense tangibili, fu ripiena di fede invisibile. Diede ricompense manifeste e non ricevette guarigione manifesta; diede una fede manifesta e ricevette una guarigione nascosta. Sebbene avesse dato ai medici il loro onorario con fiducia, non trovò per il suo onorario una ricompensa proporzionata alla sua fiducia; ma quando diede un prezzo preso con furto, allora ne ricevette il premio, quello della guarigione nascosta…

E coloro che non erano stati capaci di guarire quest’unica donna coi loro rimedi, guarivano frattanto molti pensieri con le loro risposte. Nostro Signore, invece, capace di guarire ogni malato, non voleva mostrarsi capace di rispondere anche ad un solo interrogativo; conosceva quella risposta, ma descriveva in anticipo coloro che avrebbero detto: “Tu, con la tua venuta, dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera” (Jn 8,13). La sua potenza aveva guarito la donna, ma il suo parlare non aveva persuaso quella gente. Eppure, per quanto la sua lingua restasse muta, la sua opera risuonava come una tromba. Col suo silenzio soffocava l’orgoglio arrogante; con la sua domanda: “Chi mi ha toccato?” (Lc 8,45) e con la sua opera, la sua verità era proclamata.

Se non ci fosse che un senso da dare alle parole della Scrittura, il primo interprete lo troverebbe, e gli altri uditori non avrebbero più il lavoro pesante della ricerca, né il piacere della scoperta. Ma ogni parola di Nostro Signore ha la sua forma, e ogni forma ha molti membri, e ogni membro ha la sua fisionomia propria. Ciascuno comprende secondo la sua capacità, e interpreta come gli è dato.

È così che una donna si presentò a lui e che la guarì. Si era presentata davanti a parecchi uomini che non l’avevano guarita; avevano perduto il loro tempo con lei. Ma un uomo la guarì, quando il suo volto era girato da un’altra parte; egli biasimava così coloro che, con grande cura, si volgevano verso di lei, ma non la guarivano: “La debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Co 1,25). Sebbene il volto umano di Nostro Signore non poté guardare che da una sola parte, la sua divinità interiore aveva occhio dappertutto poiché vedeva da ogni lato.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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