Mario Luzi (1914-2005) ha lasciato un segno profondo nel panorama letterario contemporaneo. Per lo spessore della sua opera e per il fulcro etico della sua ispirazione religiosa e cristiana. Rappresentante di punta dell’ermetismo fiorentino, Luzi conobbe una vecchiaia di grande energia creativa, supportata da un forte impegno civile. Doti che, nel 2004, gli valsero la nomina a senatore a vita.
Il suo ricordo viene oggi perpetuato da una Fondazione a lui intitolata, che ha la funzione di provvedere alla prosecuzione della sua opera di “studio e ricerca culturale, letteraria ed umana”. Tra le attività della Fondazione è compresa anche una casa editrice per la pubblicazione di “autori ritenuti particolarmente meritevoli”, selezionati in base ad una qualificata valutazione critica da parte della Fondazione medesima.
L’articolo monografico odierno è dedicato, appunto, a un poeta che ha avuto l’onore d’essere pubblicato dalla Fondazione Mario Luzi, nella collana diretta dal presidente della Fondazione, Mattia Leombruno. Il poeta di cui parliamo è Giancarlo Pressenda, autore della silloge intitolata La donna del capitano, sua seconda opera edita dopo il quaderno di poesie Amore Sacro, pubblicato da Aletti nel 2008.
Giancarlo Pressenda appartiene a quel genere di poeti che si caratterizzano per uno stile di vita volutamente appartato. Un autore che – come egli stesso scrive – “non si unisce volentieri a movimenti e correnti, ma preferisce trovare la sua strada solitaria, sperando di riuscire a raggiungere, in qualche modo e almeno ogni tanto, quel luogo in cui tutti ci riconosciamo”.
In queste parole si potrebbe rintracciare una dichiarazione di poetica: quella di una ricerca introspettiva di decodifica della realtà, una ricerca dell’anima che vaga curiosa per le esperienze dell’intimo più profondo. Un atteggiamento di natura psicologica ed espressiva acutamente colto nella prefazione scritta da Mattia Leombruno: “Una delle chiavi di lettura dell’opera di Giancarlo Pressenda ci è offerta dal testo che ispira il titolo dell’opera. La presenza del Capitano, più volte invocata come spirito guida o maestro, è una sorta di ancora di salvezza, di estremo appiglio, di baluardo in cui rifugiarsi nelle ore più cupe. L’atmosfera è epica ed allusiva, quasi surreale, ma s’intravedono, come vento in una conchiglia, i primi approdi di terraferma”. Ed ecco, quindi, i suggestivi versi di apertura della composizione intitolata La donna del capitano:
Oh capitano
sul ponte di prua
vaga il tuo sguardo;
la brezza è tesa e veloce
sull’azzurro mare al mattino;
una cresta di onde alla chiglia
desta il tuo miraggio.
Una birra capitano?
una birra?
È un’isola capitano?
Una terra?
Oh capitano,
a noi che non vediamo
non appaiono che incerti orizzonti
riflessi nel tuo pensare;
e il mare, il mare,
si ode mugghiare inquieto
nel tuo silenzio
come vento in una conchiglia.
***
Nella poetica di Pressenda il mare rappresenta, in tutta evidenza, una linea di confine. Ma l’approdo di terraferma, di cui parla Leombruno, è solo una parentesi che prelude a nuovi viaggi lungo rotte inesplorate, dove la poesia è l’unico strumento per tracciare una mappa degli eventi e far restare e sedimentare nel ricordo le occasioni divenute impercorribili. “È una dimensione che permane sospesa, indecifrata in quella placenta prenatale che è dell’onirico”, scrive ancora Leombruno. E per avvalorare questa interpretazione, il prefatore cita i versi della poesia Le nostre ferite, che traduce in sintesi letteraria un’esperienza esistenziale che, in qualche modo, tutti ci accomuna:
Che fare
dei nostri vuoti incolmabili,
delle nostre ferite inguaribili
se non guardare
in fondo alle loro nebbie
e ascoltare il loro bruciore
imparare da loro.
***
C’è un filo conduttore identitario, nell’opera di Pressenda, che riconduce alle medesime motivazioni di fondo, sia pure declinate secondo principi ispiratori diversi. Ed ecco che il “confine” di cui parlavamo al paragrafo che precede si trasforma in un “velo” che si mostra e si nasconde, / così come l’Anima, l’Amore, / e tutto ciò / di cui non siamo certi. Sono versi, questi ultimi, tratti dalla bella composizione intitolata, appunto, Il velo.
Il velo nasconde
un mistero promesso.
Schiude altri mondi,
silenzioso richiamo di forme
apparse, dissolte, riapparse.
Il velo è del Tempio
di una sposa,
è nebbia sul sole,
il manto della luna,
la bruma del bosco.
Il velo è un confine,
è specchio trasparente
che d’ambo i lati riflette,
così che quel che vedi
esiste e non esiste,
si mostra e si nasconde,
così come l’Anima, l’Amore,
e tutto ciò
di cui non siamo certi.
***
Giancarlo Pressenda è un autore che traduce in versi un itinerario di pensiero, una ricognizione esistenziale che impone una ricerca di significato e di senso. Perché la realtà, per sua natura, è sfuggente, risucchiata dal vorticoso scorrere del tempo dove la mente razionale si perde. La realtà può solo essere vissuta. Mai interamente compresa. Da questo dualismo scaturisce l’urgenza della poesia, che ha la capacità di cristallizzare nella dimensione del simbolo circostanze ed eventi destinati a rimanere altrimenti inesplicabili, oppure a cadere nella dimenticanza o nell’indifferenza. Una sorta di “viaggio spirituale”, dunque, che approda inevitabilmente a suggestioni di natura religiosa, come si avverte in questa bella poesia, intitolata Madonna del borgo, dove l’ansia di esistere si stempera in una nuova certezza, al di là degli incerti orizzonti che inquietavano lo sguardo del Capitano:
Madonna del borgo,
che vegli in fondo alla valle
nelle notti di gelo e silenzio,
la rugiada è fresca al tuo viso
ridesta il tuo sguardo.
Il torrente è un canto d’amore
e il tappeto di fiori fu dono di re
venuti dai confini del mondo.
Il vento che scuote le vette
ai tuoi piedi si fa docile e mite
non più che un sussurro.
Le stelle son tutte tue ancelle
la luna uno specchio,
il Sole il tuo sposo che viene.
Madonna del borgo,
guardavi materna i nostri giochi bambini,
silenziosa, paziente,
e sei come allora e per sempre,
manto di dolcezza e di sorriso.
Ci terrai sempre per mano,
e nella solitudine estrema
saranno i tuoi occhi
vivi di luce
come sempre li vidi.
NOTA BIOGRAFICA DELL’AUTORE: Giancarlo Pressenda è nato a Roma nel 1956, città dove tuttora vive. Laureato in Scienze Politiche, lavora come dirigente in un Ente Pubblico che svolge attività istituzionale al servizio della cultura. Una sua poesia, intitolata La valigia nera, è stata premiata in occasione della Biennale della Poesia Lettera d’Argento, svoltasi nel 2008 al Teatro La Fenice di Venezia: nel corso dell’evento, la poesia è stata commentata dalla musica de
l Maestro Detto Mariano e interpretata dall’attore Giampiero Ingrassia.
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