«Oggi essere ladri non fa più nessun effetto, eppure vendere la propria anima è il punto più basso della storia dell’umanità».
Rileggendo il settimo comandamento con l’occhio del comico, Roberto Benigni ne ha tratto una verità che non fa ridere, tanto è cruda e reale. Sono giorni bui, che si ripetono sempre uguali e che sembrano non finire mai: dalle inchieste agli arresti agli scandali, nelle grandi città come nel più remoto paese di periferia, l’Italia si indigna un breve minuto seguendo radio e leggendo i titoli dei Tg ma poi torna nell’apatia, forse consapevole che si tratti d’una battaglia persa. In gioco, del resto, non c’è soltanto la pure urgente e indispensabile rigenerazione della politica, ma molto di più: l’educazione delle coscienze. Un compito arduo, faticoso e per questo guardato quasi con fastidio.
Molto più facile, in effetti, gridare il disgusto, i castighi, le collere, i furori, invocando processi e giustizia. Si dimentica, però, che attorno al cerchio del magico che costituisce il delitto punito dal codice penale c’è un alone più largo, fluttuante ed altrettanto scuro: è la macchia lasciata dal brulicare di faccende furbe, di gente attenta a farla sempre franca più che a non rubare, di eludere la legge con maestria invece di violarla, di puntare sull’astuzia come virtù vincente. Come se umiliare il prossimo, diffondere calunnie o arrivare primi nel campionato dei furbetti fosse degno di una medaglia. Se visto con distacco, pare invece il segno di un male ancor più profondo della corruzione che impera e di cui, forse, è il fertile terreno: è il simbolo delle illegalità banalizzate dei tanti, dei fatti e dei misfatti che non procurano rimorso perché, in fondo, dimenticarsi qualche fattura ogni tanto, sgraffignare qualche esenzione o beneficio, magari non dovuto, o assumere in nero una badante per l’anziano padre per sopperire alle proprie mancanze (perché un padre mantiene sette figli, ma sette figli non mantengono un padre), è solo la legittima difesa di fronte allo Stato vessatore.
Ne ha conosciute, la storia, di situazioni simili, generate da mentalità distorte che originano il malaffare, per frenare il quale si auspicano poi retate e giudizi sommari. Eppure, anche questo insegna la storia: la sferza, da sola dissuade, ma non persuade. Il cattivo esempio è una piaga morale, da chiunque provenga. «Lunga è la strada dei precetti insegnati, breve ed efficace quella degli esempi», scriveva Seneca in una delle Lettere a Lucilio. «Dicono, e non fanno», osservava Gesù a proposito degli scribi e dei farisei. In queste parole sta la differenza: il recupero dell’onestà, manifestato attraverso la testimonianza personale e quotidiana in ogni ambito dell’agire, è elemento costitutivo dello Stato come della vocazione solidale del villaggio globale umano. A parte i meccanismi repressivi, neppure le leggi bastano allo scopo, se i loro tortuosi meccanismi vengono intesi in pratica come una gimkana da affrontare con sotterfugi raffinati. Risolutiva resta invece la coscienza: quando la cancrena della corruzione del cuore si è portata via la sensibilità, e il cuore è morto, lo Stato diviene un intralcio, la solidarietà una follia, il denaro l’idolo più amato.
È da qui che occorre ripartire, perché senza etica e senza coscienza la corruzione finirà per distruggere la democrazia e l’intera società civile.