Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture per l’XI domenica del Tempo Ordinario (Anno B), 14 giugno 2015.
Come di consueto, il presule offre anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA
Rito Romano
XI Domenica tempo ordinario
Ez 17,22-24; Sal 91; 2 Cor 5,6-10; Mc 4, 26-34
Rito Ambrosiano
III Domenica dopo Pentecoste
Gen 2,18-25; Sal 8; Ef 5,21-33; Mc 10,1-12
1) L’uomo semina con fede, Dio fa crescere con amore.
Il Vangelo di questa domenica (Mc 4, 26-35) ci propone due brevi parabole: quella del seme che cresce da solo e quella del granello di senape. La semina del granello più piccolo produce l’evento più grande: il Regno celeste. Con immagini prese dalla vita dei campi Gesù presenta il Regno di Dio1 e indica le ragioni del nostro impegno pieno di speranza.
Nella prima parabola Gesù mostra il miracolo della crescita, descrivendo la dinamica della semina: il seme è gettato nella terra, poi, sia che il contadino dorma o vegli, questo seme germoglia e cresce da solo.
L’uomo non fa che seminare e aspettare. Siamo dinanzi al mistero della creazione, all’azione di Dio nella storia alla quale guardare con stupore. E’ Lui il Signore del Regno, l’uomo non è che un collaboratore umile, che contempla e gioisce dell’azione creatrice divina e attende la raccolta desideroso di parteciparvi.
A questo riguardo San Gregorio Magno commenta: “L’uomo sparge il seme, quando concepisce nel cuore una buona intenzione. Il seme germoglia e cresce, e lui non lo sa, perché finché non è tempo di mietere il bene concepito continua a crescere. La terra fruttifica da sé, perché attraverso la grazia preveniente, la mente dell’uomo spontaneamente va verso il frutto dell’opera buona. La terra va per gradi: erba, spiga, frumento. Produrre l’erba significa aver la debolezza degli inizi del bene. L’erba fa la spiga, quando la virtù avanza nel bene. Il frumento riempie la spiga, quando la virtù giunge alla robustezza e perfezione dell’opera buona. Ma, quando il frutto è maturo, arriva la falce, perché è tempo di mietere. Infatti, Dio Onnipotente, fatto il frutto, manda la falce e miete la messe, perché quando ha condotto ciascuno di noi alla perfezione dell’opera, ne tronca la vita temporale, per portare il suo grano nei granai del cielo” (In Exod., II, 3, 5 s.)
Nella seconda parabola Gesù parla ancora della semina. Però, fa riferimento a un seme specifico, il grano di senape, considerato il più piccolo dei semi (1,6 millimetri secondo gli esperti). Anche se così piccolo, esso possiede una potenza di vita e un dinamismo impensabile. Così è il Regno di Dio, una realtà veramente piccola umanamente parlando e composta da persone in genere semplici, povere, da gente non importante agli occhi della società mondo. Nonostante ciò, attraverso di loro irrompe la forza di Cristo e trasforma ciò che è di poco conto e apparentemente insignificante. Il granellino di senape diviene alto e solido arbusto, capace di accogliere nei suoi rami gli uccelli. Il Regno di Dio, da un punto di vista umano, è come un piccolissimo seme disprezzabile dunque nella sua apparenza, ma contenente in sé il mistero di una forza divina prodigiosa, che per noi è inimmaginabile.
Sant’Ambrogio commentando questa parabola scriveva: “Vediamo dunque perché il sublime regno dei cieli è paragonato a un granello di senape. Ricordo di aver letto, anche in un altro passo, del granello di senape, dove dal Signore è paragonato alla fede con queste parole: “Se avrete fede quanto un granello di senape, direte a questo monte: Spostati e gettati in mare (Mt 17,20). Non è certo una fede mediocre, ma grande, quella che è capace di comandare a una montagna di spostarsi: ed infatti non è una fede mediocre quella che il Signore esige dagli apostoli, sapendo che essi debbono combattere l’altezza e l’esaltazione dello spirito del male. Dunque, se il Regno dei cieli è come un granello di senape e anche la fede è come un granello di senape, la fede è certamente il Regno dei cieli, e il Regno dei cieli è la fede.”(Exp. in Luc., 7, 176-180; 182-186).
La prima lezione da imparare da questo brano di Vangelo è che bisogna guardare alla natura delle similitudini, non alla loro apparenza. In effetti, nonostante gli umili inizi dell’azione di Dio nella persona e nell’opera di Gesù come nelle persone ed opere dei cristiani, grazie alla semina cristiana l’umanità intera crescerà nella piena giustizia, pace e libertà grazie all’amore provvidente di Dio.
2) Speranza e pazienza.
La seconda lezione che ci viene dalle due parabole di oggi è che anche e soprattutto in una società che ha fretta e che chiama “tempo reale” una notizia che arriva in pochi secondi, ci vuole l’attesa operosa e paziente perché il seme, dato gratuitamente, può fruttificare solamente se è accolto e curato.
Siamo messi a confronto con la grazia di Dio e la nostra libertà. Grazia di Dio e libertà dell’uomo contraddistinguono tutta la nostra storia personale. Da una parte siamo chiamati a vivere con stupore la crescita del piccolo seme gettato nel terreno (prima parabola). Dall’altra ci viene insegnato che decisiva è la pazienza nell’attesa e la cura prestata perché la terra lo protegga e lo nutra, e il sole lo porti a maturazione.
Il Vangelo è una scuola che educa all’attesa. Gesù ha vissuto nel tempo e nella finitezza di una vita breve e dagli orizzonti che paiono limitati e ristretti, ma ha atteso nulla di meno del Regno di Dio in questo mondo. Per questo possiamo raccogliere immagini evangeliche dell’attesa con le quali imparare a vivere il “già e non ancora”, l’attesa paradossale della vita cristiana.
Attendere non è facile, soprattutto oggi. Ma questo verbo “attendere” ha due significati: attendere ai lavori. Mi spiego riferendomi al vita ordinaria, di “casa”, dove a qualcuno è chiesto di “attendere” ai servizi più banali e quotidiani: dare da mangiare, vegliare sulla vita di coloro che gli sono affidati, preparare la tavola, tenere acceso il fuoco, vigilare sui pericoli incombenti. Si attende così, prestando cura ai fratelli affidati, non lasciandosi andare alla stanchezza provocata dal quotidiano nella sua banalità e non ricercando gratificazioni, cioè non pensando prima a se stessi, ma ai bisogni degli altri.
Attendere richiede un’ascesi, uno sforzo teso per non lasciarsi andare.
Si attende nella vigilanza di una luce accesa (nella preghiera) e in una vita attiva (carità) di chi sta con i fianchi cinti dal grembiule del servizio. Preghiera e carità sono gli esercizi che ci insegnano ad attendere. Chi prega impara che non subito il Signore parla e entra in dialogo con l’orante. C’è un silenzio da percorrere, ma proprio questo silenzio educa all’attesa e dona risonanza alle parole. Chi ama e serve conosce lo scarto tra il servizio reso e i sui frutti e riconoscimenti, perché occorre servire gratuitamente, da “servi inutili”, onorando il proprio compito senza altra preoccupazione.
Si tratta anzitutto di “fare la propria parte”, di non sottrarsi alla fatica nei giorni in cui sembra un “lavoro inutile”, senza immediati risultati.
L’altro significato di “attendere” è aspettare e ciò implica speranza e pazienza.
La pazienza è un
“patire il tempo” (Marìa Zambrano) e il vuoto di un’opera che non è tutta e solo nelle nostre mani, i cui tempi sfuggono alla nostra fretta e al nostro bisogno di controllo e di rassicurazione. Ma proprio per questo, fatta la nostra parte, possiamo riposare in pace, perché c’è un tempo che ci viene incontro “spontaneamente”, indipendentemente da noi. Come non si può “forzare” la crescita del seme se non a rischio di rovinare la pianta, così si può forzare la crescita nostra e dei fratelli e sorelle, quindi dobbiamo imparare ad attendere nei tempi lunghi, a lavorare senza contingentare il tempo, senza dare scadenze forzate alla crescita.
È alla scuola del Vangelo che impariamo la vera pazienza che scandisce il tempo.. E in questa scansione il senso viene dal futuro, il tempo della pienezza rende ragione del tempo dell’attesa. Se la guardiamo dalla nostra parte, la storia comincia dal principio, se la guardiamo dalla parte di Dio, comincia dalla fine. Così, nella “pienezza del tempo”, è venuto il Figlio e gli uomini hanno capito che il tempo era giunto alla propria pienezza proprio per la sua presenza che lo portava a compimento. Egli viene proprio perché lungamente atteso dal lavoro paziente d’infinite generazioni che nella fede hanno seminato, nella speranza di vedere quel giorno. La sua venuta é però una vera sorpresa: l’attesa si scioglie nella gioia di contemplare l’abbondanza del campo del regno di Dio, l’ombra di un albero sotto il quale trovare riposo come uccelli scampati al pericolo.
La speranza consiste nell’abbandonarsi, in maniera filiale e fiduciosa, alle mani di Dio, il quale sa ciò di cui abbiamo bisogno (cfr. Mt 6,8), e “dona a tutti con semplicità e senza condizioni” (Gc 1,5). Come il Redentore, che abbandonò la Sua vita nelle mani del Padre (cfr. Lc 23,46), così il cristiano è ancorato nell’Eterno, essendo la sua speranza come un’ancora spirituale, sicura e salda, gettata nell’aldilà, dove per noi è già entrato Gesù (cfr. Eb 6,19-20).
Però occorre ricordare che la speranza cristiana è speranza di compimento di questa vita, e non di un’altra verso cui fuggire. Comporta l’accettazione della storia come luogo all’interno del quale si manifesta la presenza di Dio. Non genera disprezzo, ma provoca apprezzamento e gratitudine, pur nella consapevolezza del limite. È la forza interiore della fede che fa sì che gli uomini camminino con Dio, cerchino la Sua presenza, si impegnino a lavorare per l’avvento del Regno: “Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”2. La speranza cristiana vede e ama ciò che sarà: è l’elemento dinamico della vita morale, che porta avanti in una crescita continua sia la luce della fede sia l’energia dell’amore. Essa – la speranza – è la sorella più piccola che tiene per mano e guida le due maggiori, la fede e la carità verso la meta3. Mentre siamo in cammino, in mezzo a prove e difficoltà personali e collettive, la speranza, generata dalla fede, genera la carità, sostenendone il movimento4.
3) Il granello di senape delle vergini consacrate nel mondo.
La parabola del granello di senape mostra che il metodo di Dio è quello dell’umiltà: il metodo fu realizzato nell’Incarnazione nella grotta di Betlemme, nella semplice casa di Nazareth e in tutta la vita “terrena” di Gesù. Nella Liturgia di oggi questo metodo dell’umiltà ci insegnato mediante la parabola del granellino di senape.
Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare che il piccolo (all’apparenza) seme cresca in noi e sia da noi donato agli altri. Un esempio di come si può imitare questo metodo dell’umiltà è quello che ci è offerto dalla vita delle vergini consacrate nel mondo che mostrano che “dando con semplicità la vita si ottiene la Vita” (Papa Francesco)
Consacrandosi all’Amore, queste donne hanno posto la loro speranza non in qualcosa che viene da Dio, ma in Dio stesso. A questo riguardo Sant’Agostino insegna: “Sia il Signore Dio tuo la tua speranza; non sperare qualcosa dal Signore Dio tuo, ma lo stesso tuo Signore sia la tua speranza. Molti sperano da Dio qualcosa al di fuori di Lui; ma tu cerca lo stesso tuo Dio. Dimenticando le altre cose, ricordati di Lui; lasciando indietro tutto, protenditi verso di Lui. Egli sarà il tuo amore» (Enarrationes in Psalmos, 39, 7-8).
Il granello di senape non è solo un paragone della speranza cristiana, ma mette in evidenza che il grande nasce dal piccolo non per mezzo di capacità eccezionali ma grazie all’atteggiamento cristiano di persone semplici che vivono dell’amore di Dio e della pazienza, che è il lungo respiro dell’amore.
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LETTURA PATRISTICA
San Gregorio Magno,
In Exod., II, 3, 5 s.
I tempi della semina e i tempi del bene
Il regno di Dio è come se un uomo getta un seme sulla terra e se ne va a dormire; lui va per i fatti suoi e il seme germina e cresce e lui non ne sa niente; la terra produce da sé prima l’erba, poi la spiga e poi il grano pieno nella spiga. Quando il frutto è maturo, l’uomo manda i mietitori, perché è tempo della messe (cf. Mc 4,26s).
L’uomo sparge il seme, quando concepisce nel cuore una buona intenzione. Il seme germoglia e cresce, e lui non lo sa, perché finché non è tempo di mietere il bene concepito continua a crescere. La terra fruttifica da sé, perché attraverso la grazia preveniente, la mente dell’uomo spontaneamente va verso il frutto dell’opera buona. La terra va a gradi: erba, spiga, frumento. Produrre l’erba significa aver la debolezza degli inizi del bene. L’erba fa la spiga, quando la virtù avanza nel bene. Il frumento riempie la spiga, quando la virtù giunge alla robustezza e perfezione dell’opera buona. Ma, quando il frutto è maturo, arriva la falce, perché è tempo di mietere. Infatti, Dio Onnipotente, fatto il frutto, manda la falce e miete la messe, perché quando ha condotto ciascuno di noi alla perfezione dell’opera, ne tronca la vita temporale, per portare il suo grano nei granai del cielo.
Sicché, quando concepiamo un buon desiderio, gettiamo il seme; quando cominciamo a far bene, siamo erba, quando l’opera buona avanza, siamo spiga e quando ci consolidiamo nella perfezione, siamo grano pieno nella spiga…
Non si disprezzi, dunque, nessuno che mostri di essere ancora nella fase di debolezza dell’erba, perché ogni frumento di Dio comincia dall’erba, ma poi diventa grano!
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NOTE
1 Un’interessante riflessione di Joseph Ratzinger (alle pagg.176-7 di “Gesù di Nazareth”) può aiutarci a capire correttamente la pagina evangelica: “Regno di Dio” significa “signoria di Dio” e ciò significa che la sua volontà è assunta come criterio. E’ questa volontà che crea giustizia… Ecco perché Salomone chiede a Dio “un cuore docile” per essere in grado di rendere giustizia e distinguere il bene dal male; “un cuore docile” proprio perchésia Dio e non lui a regnare, perché, se non si è in perfetta sintonia con Dio, non si può esercitare la vera giustizia……Così il regno di Dio viene attraverso il “cuore docile”. Allora la preghiera più importante che si può fare perché venga il
regno di Dio è: “Facci tuoi, Signore! Vivi in noi! Fa’ che “Dio sia tutto in tutti” (cfr. 1 Cor.15,26-28).
2 Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, n.2.
3 Cfr. Charles Peguy, Il portico della seconda virtù.
4 Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa theologica, 2-2 q. 17,a 8; 1-2, q. 62, a.4.)