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Il Volto di Cristo e l’arte cristiana

L’Abate Cristopher Michael J. Zielinski, O.S.B. Oliv., coordinatore del Master dell’ambito dell’arte e della musica sacra per la liturgia e docente di Caratteri simbolici dell’arte cristiana, spiega i caratteri simbolici de il Volto di Cristo

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Il 19 giugno 2015 presso l’Università Europea di Roma il Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Card. Robert Sarah terrà una lectio magistralis al Master di II livello in Architettura, Arti Sacre e Liturgia.

Si coglie l’occasione per presentare il Master stesso attraverso uno scritto, meglio l’abstract di un intervento su Il Volto di Cristo del Rev.mo Prof. Padre Abate Cristopher Michael J. Zielinski, O.S.B. Oliv., Coordinatore nel Master dell’ambito dell’arte e della musica sacra per la liturgia e docente di Caratteri simbolici dell’arte cristiana: un testo di particolare interesse in questo momento in cui è esposta la Sacra Sindone.

Parlare del Santo Volto di Gesù Cristo può sembrare un tema un po’ marginale della fede cristiana; ma a ben vedere ci troviamo di fronte ad un soggetto che è ha una profonda connessione con le più importanti verità della nostra santa Fede e riveste un valore particolarmente importante nel contesto culturale odierno.

Mosè ha chiesto insistentemente a Dio di rivelargli il Suo Volto e Dio gli risponde che nessuno può vedere il suo volto e restare vivo; poi ordina a Mosè qualcosa di veramente curioso, che ha provocato la penna dei Padri della Chiesa: deve porsi nella cavità di una roccia e così potrà guardare non il suo volto, bensì le sue spalle.

I Santi Padri hanno scritto parole di straordinario spessore teologico a questo riguardo. Origene così commenta: «Dio dice a Mosè: “Ecco, ti ho posto al foro della roccia, e vedrai le mie parti posteriori”. Perciò questa roccia, che è Cristo, non è compatta da ogni parte, ma ha dei fori. E foro della pietra è colui che rivela e fa conoscere agli uomini Dio: infatti nessuno conosce il Padre se non il Figlio (cfr. Mt 11,27)»[1]

Dunque la roccia nella quale si cala Mosè non è altro che figura di Gesù Cristo, ad indicare che nessuno può vedere il Padre se non in Lui, se non è cioè unito in Lui.

Ma c’è poi un altro rilievo messo in luce da Sant’Agostino: quelle spalle che Mosè ha potuto vedere sono la stessa santa Umanità di Gesù Cristo, splendida lettura allegorica di questo passo veterotestamentario, che comunica una grande verità evangelica: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9). Ascoltiamo il santo Vescovo d’Ippona: «Non senza ragione abitualmente s’intende il dorso di Dio come un’immagine del Signore nostro Gesù Cristo nel senso della carne secondo la quale nacque dalla Vergine, morì, risorse. Dorso di Dio può dirsi la carne di Cristo»[2].

Questa è la giustificazione teologica della rappresentabilità del Volto di Gesù: è Dio stesso che si dà a vedere nel Volto umano di Gesù; è Dio stesso, il Dio inconcepibile e persino innominabile, che si rende visibile nella santa Umanità di Cristo. Ed è precisamente su questo fondamento che laChiesa edifica la propria difesa delle sacre icone, un fondamento che, come si è visto, viene appena suggerito nell’Antico Testamento, per essere poi pienamente rivelato nel Nuovo.

Il divieto veterotestamentario non viene contraddetto, ma adempiuto dalla nuova economia salvifica; resta sempre vero che nessuno può raffigurare il volto di Dio, al di fuori di quel Santo Volto che la seconda Persona della Trinità beatissima ha assunto ed ha voluto mostrare agli uomini. In Gesù Cristo ed in Lui solo trova somma soddisfazione l’anelito delle genti: «Di te dice il mio cuore: “Cercate il mio volto”; il tuo volto cerco, o Signore.

Non mi nascondere il tuo volto, non rigettare sdegnoso il tuo servo» (Sal 27, 8-9). Questo desiderio che ha tormentato tutta la storia umana, speranza per quanti hanno seguito le ispirazioni dello Spirito Santo, prima della venuta di Cristo, e gemiti di disperazione per quanti ad esso si sono chiusi, volgendosi ad adorare «le opere delle mani dell’uomo» (Sal 115, 4), questo desiderio viene soddisfatto in un modo inatteso ed inaudito: Dio assume un volto umano, per trasfigurare divinamente il nostro.

Dopo duemila anni di Cristianesimo corriamo il serio rischio di essere tiepidamente abituati a questa sconvolgente novità e di restare annoiati ed indifferenti di fronte ad essa. Abbiamo quanto mai bisogno di rimeditare con occhio semplice e pieno di fede la storia dell’iconografia del Volto di Cristo.

Dio si è fatto carne e perciò ha assunto un vero volto, visibile e tangibile è il fondamento della buona novella cristiana. La fede cristiana è perciò innanzitutto l’accoglienza di questo fatto tanto sconvolgente quanto concreto; un fatto che fin dal primo secolo dopo Cristo è stato difeso strenuamente dai Padri, di fronte all’assalto montante dello gnosticismo e di altre eresie ad esso direttamente o indirettamente connesse.

Da un lato dunque il timore di infrangere la proibizione divina, espressa nel Deuteronomio (cfr. Dt4,15-16), dall’altra la preoccupazione che i convertiti provenienti dal paganesimo potessero ricadere in forme idolatriche frenarono la produzione e diffusione di immagini sacre.

Eusebio cercava di proteggere i cristiani da un uso tipicamente pagano, quello cioè di raffigurare le divinità e ritrarre gli imperatori divinizzati. Questo atteggiamento, non accettabile da un punto di vista teologico, ma comprensivo da quello pastorale, rappresenta in generale l’atteggiamento dei primi quattro secoli del Cristianesimo.

Ma già sul finire del IV sec. le immagini simboliche o trasfigurate del Cristo incominciano a lasciare il posto a ritratti di Gesù. Ne è straordinaria testimonianza un affresco delle Catacombe di Commodilla, della seconda metà del IV sec. appunto, che ritrae il volto di Gesù con i capelli e la barba lunghi e scuri e la carnagione olivastra: nulla a che vedere con il volto giovanile, sbarbato ed occidentale del Buon Pastore delle Catacombe di Priscilla o quello del mosaico ritrovato sotto la basilica di San Pietro, che raffigura Gesù come un nuovo Apollo.

Il progressivo allontanamento dalle influenze pagane e l’assimilazione sempre più profonda del dogma dell’Incarnazione hanno fatto crescere sempre di più l’interesse verso tutta la realtà storica di Gesù, compresa l’indagine dei tratti del suo Volto in carne ed ossa.

Ed è proprio in questo periodo che in Oriente si diffonde il testo detto Dottrina di Addai, nel quale si narra l’origine miracolosa della più famosa acheropita: l’àghion mandylion di Edessa.

Il Mandylion era un telo sul quale era impresso in modo miracoloso, non dipinto, il volto di Gesù Cristo. Mi sembra opportuno soffermarsi alquanto su questa immagine che è all’origine di tutte le icone successive del volto di Gesù. Appare davvero interessante e non priva di fondamento la tesi dello storico inglese Ian Wilson, sostenuta da un’altra grande storica e officiale dell’Archivio Segreto Vaticano, Barbara Frale, che identifica il Mandylion con la santa Sindone di Torino.

A sostegno della propria tesi, Wilson pone in evidenza che il termine Mandylion (che significatelo, fazzoletto)che universalmente identifica l’immagine di Edessa, sia in realtà tardivo.

Un testo del VI secolo, gli Atti di Taddeo, lo denomina tetradiplon, ossia piegato in otto, ad indicare che l’immagine visibile non è altro che l’ottava parte di un telo più lungo; la stessa Sindone può essere piegata in otto parti, mostrando solamente il volto, alla maniera dell’immagine di Edessa.

San Giovanni Damasceno, poi, si riferisce all’immagine edessena, chiamandola himation, che era un telo molto lungo[3]. Straordinario interesse rivestono anche altre testimonianze: «Andrea arcivescovo di Creta (660-740 circa) lo descrive anch’egli come un’immagine su un panno consunto (ràkos
)un’impronta del corpo (toù somatikoù autòu charachtèros) che però non era fatta dall’uso di colori. Sempre di un’impronta, e non un ritratto, parlano anche altri eminenti autori vissuti più o meno nello stesso periodo come San Germano, Patriarca di Costantinopoli (658-742), il Patriarca Niceforo, Giorgio il Monaco e i Padri che scrissero gli atti del sinodo celebrato nell’anno 836»[4].

C’è un insegnamento profondo da accogliere e dal quale lasciarci plasmare: la costatazione che l’iconografia è stata nei secoli essenzialmente fedeltà ad un modello originario e che tale modello non è altro che il vero Volto di Gesù.

Se l’arte cristiana non è più fedele al suo Prototipo originario, che è il Verbo fatto carne del quale abbiamo contemplato la gloria, se essa diventa espressione della soggettività dell’artista, veicolo delle mode culturali, allora tradisce la sua vocazione al servizio dell’evangelizzazione.

L’arte cristiana, ed in particolare l’iconografia del Volto di Cristo, deve allora inserirsi all’interno della Tradizione, senza la quale non si può pensare di essere fedeli al Verbo di Dio fatto carne; e tale consegna nella Tradizione si manifesta in una semplicità di espressione ed in una fedeltà ai modelli iconografici.

Noi confidiamo che una nuova generazione di artisti –  come già ve ne sono – si lasci toccare il cuore dalla contemplazione del vero Volto di Gesù, il Volto del più bello tra i figli degli uomini e compia la propria opera nella fedeltà alla Tradizione della Chiesa, che altro non è che il prolungamento dell’Incarnazione del Figlio di Dio.

***

[1] Origene, Commento al Cantico dei Cantici, 4,2,13.

[2] Agostino, La Trinità, 2,17.

[3] Cfr. I. Wilson, Icone ispirate alla Sindone. Testimonianza del VI secolo, in L. Coppini – F. Cavazzuti(a cura di), Le icone di Cristo e la Sindone, cit., p. 80.

[4] B. Frale, La Sindone di Gesù Nazareno, cit., pp. 33-34.

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ZENIT Staff

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