Un’innovazione eticamente ‘neutra’, come tutte le scoperte scientifiche, che può procurare benefici o danni all’umanità, a seconda del suo corretto o scorretto utilizzo. Vint Cerf, pioniere di Internet negli anni ’70 ed inventore del protocollo TCP/IP, non vuole attribuirsi “troppi meriti” ed è convinto che il web non potrà mai sostituire il libro a stampa ma, al tempo stesso, è ben consapevole del valore della sua opera.
A margine del convegno internazionale Fiat Lux – Let There Be Light, tenutosi nei giorni scorsi tra l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum e l’Università La Sapienza di Roma, Cerf ha raccontato la sua storia professionale, la cui costante è una profonda fiducia nel futuro, in tutte le sue sfaccettature.
Come si sente ad essere considerato uno dei padri di Internet?
Così come si insegna ai bambini a non prendersi troppi meriti quando si riesce a fare una cosa per bene e a non sentirsi troppo dispiaciuti quando non ci si riesce, anch’io non voglio troppi meriti riguardo a Internet. Vi sono molte cose buone e molte cose cattive all’interno di questa struttura, che funziona allo stesso modo di una strada dove vi sono persone che, dopo essersi ubriacate, si mettono a guidare la macchina. La rete internet è un’invenzione in un certo senso ‘neutra’ ma ci sono persone che ne fanno un ottimo utilizzo e persone che ne abusano. Ho semplicemente il merito di aver capito come funzionava quel sistema, non vorrei i rimproveri per il cattivo utilizzo di molte persone. Certamente noi ingegneri e programmatori dovremmo cercare di rendere il sistema più sicuro, di questo mi sento responsabile.
Il giorno che ha inventato questa piattaforma, ne ha immaginato l’evoluzione che ha portato al giorno d’oggi?
Non sarebbe stato possibile prevedere tutto, ma noi predecessori di Internet siamo stati spettatori già all’epoca dei segni dell’impatto sociale che c’è stato successivamente. La prima rete di posta elettronica fu inventata nel 1971 e, dopo due settimane, vi fu la creazione di una mailing list di persone che avevano la passione per i film di fantascienza (erano chiamati gli SF Lovers); poi ne venne creata un’altra chiamata YAM YAM, che era la mailing list di una rivista di ristoranti. Abbiamo immediatamente capito l’aspetto sociale della rete: non si trattava semplicemente di connettere dei computer, ma di mettere la gente nelle condizioni di usare le risorse e di poter collaborare gli uni con gli altri. Alcuni ragazzi del Palo Alto Research Center, tra cui Alan Kay, immaginarono un computer portatile già nel 1968 e lo chiamarono Flex: questi ragazzi agivano, anticipando un futuro di 20 anni. Allo stesso modo noi abbiamo anticipato molte cose, ma poi abbiamo dovuto aspettare anni prima di vederne la diffusione o di arrivare ai video in streaming.
Lei pensa che Internet sia una risorsa indispensabile come l’acqua e le medicine? Rappresenta uno dei criteri in base ai quali si misurano le disuguaglianze tra le nazioni?
È difficile poter rispondere a questa domanda, non sembra che Internet possa essere considerato sullo stesso livello degli alimenti, dell’acqua e delle medicine ma, anche nella mia esperienza, quando si sono ripetuti diversi black out consecutivi a Washington, e mi trovavo a dover completare un lavoro, il doverlo fare senza poter riverificare le fonti o ricontrollare alcune informazioni mi dava un senso di frustrazione. Anche se non si tratta di una risorsa primaria per la sopravvivenza come l’acqua e il cibo, Internet è ormai fondamentale per garantire un accesso all’informazione, e questa è da sempre la chiave per il progresso di ogni società: quella di poter accedere alle informazioni nel modo più veloce possibile. Per questo vi sono alcuni progetti, come il Project Loon di Google che, in collaborazione con gli operatori di telecomunicazioni locali, mirano a diffondere l’accesso al web in alcune zone svantaggiate del mondo attraverso l’uso di palloni aerostatici.
Cosa succederebbe se Internet saltasse all’improvviso?
Se Internet andasse via in questo momento vi sarebbero tantissimi strumenti che non potrebbero più funzionare, e queste disfunzioni avrebbero oltretutto una grave ricaduta economica: pensiamo all’e-commerce e alle transazioni che avvengono online, per non parlare del commercio internazionale, e ai servizi offerti in rete; pensiamo cosa significa, per tante eccellenze del Made in Italy, avere una visibilità sul mercato mondiale e poter raggiungere Paesi del mondo un tempo difficilmente raggiungibili se non con investimenti consistenti. Tornare indietro a questo punto, anche solo di appena quarant’anni, avrebbe un impatto negativo sulla vita di tutti, e significherebbe perdere tantissime potenzialità di beneficio sociale.
Lei, a soli 28 anni, è stato in grado, prima di molti altri, di sognare e progettare il nostro futuro. Cosa si aspetta dai giovani di oggi?
Vorrei tanto avere di nuovo 28 anni (ride) ma, a prescindere da questo, credo che i giovani di oggi siano in una posizione migliore della nostra 40 anni fa, grazie alle potenzialità sempre maggiori della tecnologia. Pensiamo a quanto imparano velocemente, fin da bambini, a usare telefonini, computer o tablet. Questi bambini crescono in un mondo in cui Internet è lì da subito a loro disposizione e non pensano sia qualcosa di strano. Esiste e lo utilizzano. Ho un enorme rispetto per i giovani e mi aspetto tantissimo da loro. La domanda veramente interessante è: quali nuove invenzioni, che noi neanche riusciamo a immaginare, potranno nascere dalle menti di quei ragazzi che sono ancora a scuola? Sono molto ottimista.
Sua moglie Sigrid è stata quasi non udente per 50 anni ma poi, con l’aiuto di un apparecchio innovativo, la sua situazione è migliorata. La tecnologia quanto può aiutare le persone con disabilità fisiche?
Mia moglie, a 3 anni, ha perso quasi del tutto l’udito a causa delle complicazioni di una meningite. Finché, nel 1996, grazie a un impianto nell’orecchio, ha recuperato molto. La questione più interessante è la possibilità di fornire capacità superiori al normale alle persone. Pensiamo alla vista: con appositi occhiali si possono vedere i raggi infrarossi, i raggi x o le microonde. Mi viene in mente Geordi La Forge, personaggio della serie fantascientifica Star Trek – The Next Generation: cieco fin dalla nascita, riesce a vedere grazie a un visore artificiale. È un’idea in cui non c’è nulla di sbagliato. La tecnologia può restituirci le nostre capacità normali, ma può anche portarci oltre e io sospetto che alcune persone non vogliano questo.
Una parte consistente dei dati salvati sui nostri vecchi computer, telefonini o supporti di memoria potrebbe andare perduta, in un futuro prossimo, perché non più leggibile dai nuovi programmi e sistemi operativi. Lo scorso febbraio, Lei ha parlato di questo rischio come una sorta di “nuovo Medioevo” e di “deserto digitale”. Come possiamo evitare tutto questo?
Ci sono segnali molto incoraggianti. Penso all’Olive Project dell’Università Carnegie Mellon a Pittsburgh, negli Stati Uniti, la cui molto intelligente strategia è usare macchine virtuali per emulare ogni tipo di hardware. In questo modo possono funzionare tutti i sistemi operativi, tutti i programmi e ogni tipo di file risulta quindi leggibile. Un altro grande progetto è l’Internet Archive di San Francisco, una biblioteca digitale che, dal 1996, raccoglie fermi immagine del World Wide Web, filmati, file audio e libri digitalizzati. Ma perché si affermi in tutto il mondo il concetto di preservazione digitale abbiamo bisogno di leggi speciali per abbassare i limiti dei copyright che spesso impediscono l’accesso libero a certi file e programmi.
Teme che Internet possa
diventare l’unica fonte di conoscenza?
Il rischio c’è ed è inaccettabile. Agli studenti si deve ricordare sempre che esistono luoghi chiamati biblioteche e oggetti chiamati libri. Agli insegnanti consiglio di non accettare compiti o lavori svolti dagli alunni senza che essi dimostrino di aver adoperato strumenti diversi dal web. Allo stesso tempo, però, invito loro a non lamentarsi troppo se gli studenti usano i computer in aula: spesso non lo fanno per perdere tempo su Facebook ma per approfondire gli argomenti trattati a lezione.
[Intervista a cura di Alessandro De Vecchi e Maria Gabriella Filippi]