Gli Atti degli Apostoli testimoniano che l’ultima domanda posta a Gesù dai suoi discepoli fu se Egli avrebbe restaurato il Regno di Israele.
Un tale quesito suscita in noi, che dopo venti secoli seguiamo la religione di Cristo, un certo stupore: ci domandiamo infatti come potessero porlo quanti erano stati testimoni della Resurrezione, e potevano vedere in essa non un messaggio di redenzione riferito nella contingenza storica ad una specifica nazione, bensì all’umanità intera.
D’altronde non aveva detto Gesù agli Apostoli: “Regnum meum non est de hoc mundo?”.
E non aveva la sua stessa scelta di essere crocifisso causato un conflitto con Giuda, colui cioè che tra i Dodici riferiva la missione di Cristo alla causa particolare del popolo d’Israele?
Tutti gli uomini, per il fatto stesso di vivere immersi nella storia, tendono inevitabilmente ad anteporre lo specifico all’universale, la contingenza alla prospettiva escatologica e trascendente.
Ciò tuttavia non ha impedito alla Chiesa, né a tanti suoi pastori e fedeli, di vedere nelle cause nazionali il discrimine tra il bene e il male, tra il giusto e l’ingiusto.
E una volta posto questo discrimine, la scelta che si pone alla coscienza individuale è già delineata.
Il Papa ha detto che oggi assistiamo, anzi partecipiamo, alla terza guerra mondiale, sia pure combattuta a pezzi: in realtà siamo immersi esattamente da un secolo in un processo di trasformazione che vede l’affermazione progressiva, benché dolorosa e tragica, della libertà dei popoli.
Due Papi in particolare hanno portato la Chiesa a partecipare attivamente a questo processo, a farsene protagonista anziché assistervi con indifferenza o addirittura a subirlo: Giovanni Paolo II e Francesco.
Si diceva un tempo della Polonia che non voleva più essere “il Cristo delle Nazioni”; e si dice anche che il popolo dell’America Latina è stato tante volte crocifisso, come il Papa ha ricordato – sia pure indirettamente – concludendo il Conclave nella Cappella Sistina, richiamando per l’appunto la Croce come simbolo di un sacrificio collettivo che si è ripetuto e si ripete nella storia.
Ora il Papa va a Sarajevo, il luogo dove il 28 giugno 1914 è iniziata la vicenda in cui siamo ancora immersi.
Nel secolo scorso, questa città è stata simbolo di due ingiustizie: prima quella subita dai Serbi ad opera dell’Austria, e poi quella subita dai Bosniaci ad opera dei Serbi: segno di quanto sia difficile distinguere vittime e carnefici, e di come l’aspirazione all’indipendenza dei popoli li porti – forse inevitabilmente – ad infliggersi ripetutamente dei torti, delle offese, delle ferite difficili da rimarginare.
Eppure il Papa sa bene che questo processo non può essere fermato, gli è presente l’affermazione di Bolivar: “La Patria è dove si combatte per la libertà”: una libertà che non è mai conquistata per sempre, ma che ogni generazione è chiamata a consolidare e a difendere.
Se affermare la libertà è dunque un dovere morale, vi è un altro dovere etico, che consiste nel non offendere la libertà degli altri.
E qui il messaggio cristiano si rivela prezioso non solo perché afferma la libertà, ma anche in quanto reclama che alle vittime sia resa giustizia: Sarajevo assurge dunque a simbolo universale, non per tanto per l’insurrezione espressa dal gesto di Gavrilo Prinzip, quanto purtroppo per il martirio subito dal suo assedio.
Il Papa si schiera – nel nome della giustizia – dalla parte delle vittime, come sono stati gli Ebrei nell’Olocausto, ma anche gli Armeni, vittime anch’essi di un genocidio, ed anche i Bosniaci, martirizzati per avere espresso il loro diritto all’autodeterminazione.
Non sarà sempre facile in un futuro che si annunzia conflittuale, distinguere il torto dalla ragione, ma se un criterio viene affermato dal Papa, esso consiste non farsi guidare dall’egoismo sociale, altrettanto condannabile come quello individuale.
Sarajevo si lega dunque a Lampedusa, dove muoiono nell’indifferenza quelli che Franz Fanon aveva chiamato i “dannati della Terra”, anche essi immagine della Crocifissione.
Ci voleva un Papa proveniente dal Sud del mondo per ricordare che la libertà non si afferma soltanto abbattendo i limiti posti alla possibilità di esprimersi, ma ancor prima abbattendo quelli posti alla stessa possibilità di vivere con dignità in questo mondo.