The Scene of the Roman Theater in Palmyra

WIKIMEDIA COMMONS

Rovine e macerie

Il senso del tempo, della memoria e del culto

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In che senso l’arte è prossima alla rovina? Si chiede l’antropologo Marc Augé nel saggio Le temps en ruines, prospettando che la vista delle rovine ci faccia intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia, bensì un tempo “puro”, vitale, e per questo intimamente rispondente ai sentimenti e alle pulsioni umane. Ciò era avvenuto con le gloriose rovine di Roma, in parte riconvertite e riutilizzate dal Cristianesimo nella prospettiva escatologica della vittoria di Cristo sulle divinità pagane, e in parte conservate quali forme perfette e significanti di bellezza e armonia. Le rovine, di una chiesa o di un tempio, ci comunicano comunque un tempo perduto che si sottrae al caos disorganico del frammento per comunicarci la perenne vitalità dell’arte e del senso formale. Nella lettera che Freud scrisse a Romain Rolland nel 1936, ricordando un’esperienza vissuta nel 1904, lo psicologo austriaco giunto ad Atene, sul Partenone, si chiedeva “Dunque tutto questo esiste veramente, proprio come l’abbiamo imparato a scuola?”, come se quella visione producesse sull’istante un “disturbo di memoria” che sollecitava una riflessione più ampia sullo scorrere del tempo e, per riflesso, sulla potenza visiva dei segni del passato. La finitezza di una rovina può suonare come ossimoro ma è esattamente il principio per cui un frammento, riassumendo o condensando i principi della Storia, ci parla come documento e testimone, e ci comunica in maniera vitale e immediata i valori che lo hanno generato.

E’ notizia di questi giorni di come i jihadisti dell’Isis siano entrati nella città-oasi di Palmira prendendo anche il controllo del sito archeologico con le maestose rovine romane. Come successo per le città irachene di Ninive, Hatra e Nimrud questo gruppo di miliziani non è mosso solamente da una furia iconoclasta bensì da un totale disprezzo per la cultura umana, disprezzo che non si era ravvisato in maniera così ossessiva durante i secoli precedenti quando la civiltà araba aveva cercato, sovente, di riappropriarsi e ricontestualizzare architetture e opere d’arte. Nel caso di Palmira ci troviamo di fronte ad inermi rovine romane, simbolo di classicità e quieta grandezza, ma potremmo solo immaginare cosa succederebbe se l’Isis entrasse in contatto con opere della tradizione cristiana. L’eccedenza simbolica della rovina, nel caso dell’Isis, conduce alle macerie e alla barbarie perché i segni della storia sono un invito a “sentire” il tempo, un tempo storico che naturalmente i jihadisti escludono a priori nel tentativo di annullare, in senso orizzontale, ogni forma di cultura e identità culturale che non sia la vuota Legge, ed in questo si mostrano molto post-moderni. Di certo sul suolo iracheno avevano avuto dei degni precursori. Un rapporto del tempo del British Museum aveva affermato che le forze d’occupazione americane avevano arrecato “ingenti danni” a uno dei più famosi tesori archeologici nel mondo, utilizzando la città monumentale di Babilonia come loro base militare mentre il giornale britannico The Guardian, riportava il rapporto del museo secondo cui i veicoli militari americani e polacchi avevano ridotto a pezzi le pavimentazioni stradali monumentali nella città di Babilonia, risalenti a più di 2600 anni fa. Che le opere d’arte, nel corso dei secoli, siano state soggette a distruzione e rovina è un fatto acclarato, che siano state distrutte per divergenze ideologiche, anche, è documentato. Ciò che appare nuovo a mio avviso, invece, è la completa indifferenza all’oggetto culturale e il disinteresse verso i suoi valori estetici e morali.

La furia distruttiva dell’Isis in Medioriente, comunque, non è che la controparte nel mondo occidentale di un’ancora più grave perdita di valori, estetici ed etici, che riguarda l’opera d’arte col profondo carico di senso e di coscienza. Ciò che in Iraq da rovina diventa maceria, in Occidente da rovina diventa oggetto di consumo; ciò che in Siria è distruzione del segno da noi diventa esibizione-consumo del segno e annullamento dei significati. Prendo alcuni esempi. Nel 2013 l’artista bresciano Francesco Vezzoli aveva progettato di smontare e ricostruire nel cortile del MOMA PS1 la cappella della Madonna del Carmine di Montegiordano, in Calabria. Questa cappella edificata nell’Ottocento ed ora in stato di rovina e sconsacrata era diventata proprietà di un privato e successivamente acquistata dallo stesso artista il quale, smontata e sistemata in undici container, era pronto ad esporla a New York col titolo de La Chiesa di Vezzoli. La soprintendenza, fortunatamente, ha sequestrato il carico e denunciato l’artista per tentata esportazione illecita di beni culturali, suscitando comunque accese polemiche. Vezzoli ha replicato dicendo: “L’arte è sicuramente una religione. Non si può negare che le persone che credono nell’arte credono in qualcosa che non si vede”, mettendo davanti un principio di autorità che non gli competeva in relazione all’utilizzo di un bene culturale. La rovina della chiesa, seppur abbandonata nelle sterpaglie, suggeriva l’idea di un tempo ciclico, di un mutamento nel segno della continuità per cui anche un frammento ha senso se inserito nella tradizione religiosa e culturale locale. L’arte contemporanea, invece, con la prepotenza di un intellettualismo radical-chic pretendeva che quelle pietre, decontestualizzate, fossero ricomposte in un contesto antitetico nel quale l’idea della fede e delle religione appariva quasi come un limite verso un’architettura che, avendo ormai mutato prospettiva, poteva permettersi di indicare altro, non più la Chiesa di Cristo bensì la Chiesa di Vezzoli. La riscrittura sull’idea di rovina, in questo caso, avrebbe condotto ad un non-luogo glamour e privo di valori.

Un’operazione similare è avvenuta in questi giorni nell’ambito della Biennale di Venezia. L’Islanda per la sua presenza in laguna si è affidata al lavoro di Christoph Büchel il quale ha adoperato gli spazi della chiesa chiusa al culto (e non sconsacrata quindi) di Santa Maria della Misericordia di campo de l’Abazia, a Cannaregio, di proprietà privata, per adattarli a moschea. Moschea il titolo dell’opera che ha riconvertito in sala di preghiera l’aula liturgica e che ora è stata chiusa per intervento della polizia municipale. A gettare scompiglio era stata infatti la conversione spontanea del padiglione in un luogo di culto e il forte afflusso di fedeli rispetto a quanto previsto dalle normative di sicurezza, dimostrazione di come sia complesso e complicato, per l’arte contemporanea, agire su edifici così fortemente storicizzati, toccando tematiche delicate quali la fede e la cultura religiosa. In un’epoca nel quale lo spazio pubblico è fortemente segnato dall’immagine, agire sull’idea del tempo e della storia in un luogo che, in quanto chiuso al culto o in frantumi è ormai metaforicamente rovina, ovvero memoria storica e artistica, equivale a costruire macerie culturali e l’arte contemporanea dovrebbe una buona volta uscire dal meccanismo perverso della celebrazione del segno e del feticcio, altrimenti gli artisti rischiano di agire –metaforicamente- allo stesso modo dei miliziani dell’Isis.

Era del resto Marcel Proust in un articolo intitolato La morte delle cattedrali uscito sul Figaro del 16 agosto 1904, in occasione della legge di separazione della Chiesa dallo Stato francese, che prevedeva fra l’altro l’abolizione dei luoghi di culto, a difendere questi eccelsi luoghi architettonici che potevano perdurare compiutamente nel loro senso solo se intimamente legati alla fede altrimenti l’alternativa sarebbe stata, meglio, la rovina: «la protezione anche delle più belle opere di architettura e di scultura francesi, che morranno il giorno nel quale non serviranno più al culto delle necessità dalle quali son nate, che è la loro funzione come essi sono i suoi organi, che è la loro spiegazione perché esso è
loro anima, impone al governo il dovere di esigere che il culto sia perpetuamente celebrato nelle cattedrali».

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Tommaso Evangelista

Tommaso Evangelista è Storico dell’arte

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