La metafisica non limita la propria indagine all’analisi degli enti e delle loro strutture, ma si interroga sull’essere degli enti, cioè su quell’è che consente a ogni realtà di essere fuori dal nulla.
La conoscenza dell’essere, come è stato evidenziato[1], è di carattere intuitivo. Si tratta di un’intuizione intellettuale sui generis che, come afferma Maritain, “non è di tutti”, neanche dei filosofi. Il filosofo scrive in proposito:
“Parlo […] di un’intuizione intellettuale, puramente e strettamente intellettuale, che è il bene proprio e sacro dell’intelligenza come tale; cioè innanzitutto dell’intuizione assolutamente primaria senza la quale non esiste sapere filosofico: l’intuizione dell’essere.
Non è di tutti. Bergson la possedette attraverso un surrogato che l’ingannò, e camuffata nella sua concettualizzazione ad opera di pregiudizi anti-intellettualistici. Né Husserl né alcun altro filosofo l’ebbero. Finisce per possederla un giorno colui che va abbastanza lontano nella meditazione - cioè colui che arriva ad entrare in quel silenzio attivo ed attento dell’intelligenza in cui, alla semplicità del vero, essa si fa sufficientemente disponibile e vacante e aperta per udire ciò che ogni cosa mormora e per ascoltare anziché fabbricare risposte. Capita che abbiano quest’intuizione parecchi che sono troppo distratti dalla vita di ogni giorno o dai ragionamenti per prenderne coscienza. E in questo modo sono molto più numerosi a possederla gli uomini del popolo che non la gente ‘colta’. Basta osservare lo sguardo di certi bambini per capire che, senza che ci sia assolutamente in loro la riflessività degli adulti, esso è rivolto più all’essere che ai giocattoli con cui pretendiamo divertirli, o persino al mondo di cui ad ogni istante scoprono le ricchezze, avendo soltanto la fatica di accoglierle”[2].
La difficoltà di visualizzare l’essere degli enti dipende dal fatto che l’essere non è una cosa, ma è il darsi, il manifestarsi della cosa; e questo darsi o manifestarsi non è propriamente una realtà, ma è ciò che fa sì che una determinata realtà (ad esempio: un albero o una casa) esista piuttosto che non esista.
Il filosofo che ha posto al centro della sua indagine l’essere è San Tommaso d’Aquino, la cui filosofia è una metafisica dell’essere, a differenza della metafisica della sostanza di Aristotele[3]. Infatti, come scrive, Maritain:
“Tommaso, alla radice della conoscenza metafisica, pone l’intuizione intellettuale di quella realtà nascosta che si dissimula sotto la parola più comune e banale del nostro linguaggio, la parola essere, e che si rivela a noi come una gloria incomprensibile quando a volte abbiamo la fortuna di percepire nella più umile cosa quell’atto di esistere da essa esercitato, quella spinta vittoriosa con la quale vince il nulla”[4].
La più umile cosa è, cioè esiste ed è proprio questo è che la sostiene nell’esistenza e tutto ciò è misterioso e provoca la meraviglia che spinge l’uomo a filosofare. “Infatti gli uomini – scrive Aristotele - hanno iniziato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia”[5].
Per avvicinarci a comprendere il mistero dell’esistenza è necessario analizzare fenomenologicamente la realtà, cioè considerare ogni cosa come fenomeno, ma cos’è un “fenomeno”?
Il fenomeno o ente
Il fenomeno è, in senso originario, “ciò che si manifesta in se stesso”. Scrive infatti Heidegger: “L'espressione greca fainomenon, a cui risale il termine ’fenomeno’, deriva dal verbo fainestai che significa manifestarsi; fainomenon significa quindi ciò che si manifesta, il manifestantesi, il manifesto; fainestai stesso è una forma media di faino, illuminare, porre in chiaro, ossia ciò in cui qualcosa può manifestarsi, rendersi visibile in se stesso. Bisogna dunque tener ben fermo il seguente significato dell'espressione ‘fenomeno’: ciò che si manifesta in se stesso, il manifesto. I fainomena, i ‘fenomeni’, costituiscono dunque l'insieme di ciò che è alla luce del giorno o può essere portato in luce, ciò che i greci a volte identificavano senz'altro con ta onta (l'ente)”[6].
Ciò che si automanifesta è l'ente, quindi qualcosa che è, un non-nulla, qualcosa che si dà originariamente. Il fenomeno è il darsi originario di qualcosa.
L'indagine fenomenologica heideggeriana si muove sul piano puramente formale, in quanto essa, scrive il filosofo, “non caratterizza il che-cosa reale degli oggetti della ricerca filosofica, ma il suo come”[7]; quindi l'affermazione del concetto di fenomeno come “ciò che si manifesta in se stesso” riguarda una specifica modalità di espressione della realtà, che non appartiene, quindi, a tutto l'ambito dell'esperienza.
Tentiamo di tradurre l'analisi heideggeriana dal piano formale a quello contenutistico e chiediamoci: “Quali sono le ‘cose’ che si presentano come fenomeni?”.
E' un fenomeno il computer con cui sto scrivendo?
Il significato del termine computer rimanda ad un orizzonte culturale variegato, al cui interno si comprende l'uso che questo significato acquisisce per l'uomo “civilizzato” odierno. Ma questo significato è comprensibile per l'aborigeno dell’Amazzonia, che vive in una condizione sociale ed esistenziale analoga a quella degli uomini primitivi?
L'aborigeno dell'Amazzonia, posto di fronte a questo ente che io chiamo computer, non “vede” un computer, perché questo significato è legato a una cultura che gli è estranea.
Quindi il computer non è un fenomeno, nel senso specifico del termine, ma “qualcosa” che, comunque, ha un rapporto con esso, perché il significato “computer” non viene attribuito arbitrariamente a qualsiasi ente, ma soltanto a quell’ente a cui appartengono determinate qualità.
L'ente a cui appartiene il significato “computer” è costituito da una dimensione materiale; infatti esso è esteso e colorato. “Ciò che si manifesta in se stesso” è quindi un corpo e, in quanto tale, situato nello spazio e nel tempo. Ma questo ente è soltanto materiale?
Prima di rispondere a questa domanda di carattere specifico, è necessario rispondere a una domanda di carattere generale: è pensabile qualcosa di puramente materiale? E’ pensabile ciò che è materiale in quanto materiale ? Si automanifestano puri corpi?
La risposta è negativa poiché “ciò che si manifesta in se stesso” presenta una dimensione materiale costitutivamente unita a una dimensione intellegibile, che consente la pensabilità dell'ente. Può essere affermato che questo computer è qualcosa estesa e colorata, sul fondamento di sensi (intellegibili) che sono immanenti in “ciò che si manifesta in se stesso”.
Può essere affermato che questo computer è qualcosa estesa e colorata perché i significati “estensione”, “colore”, “ente”, appartengono intrinsecamente a “ciò che si manifesta in se stesso”.
Il colore è colore sul fondamento del suo significato intellegibile e non della sua sensibilità; lo stesso discorso deve essere affermato per l'estensione.
I significati “estensione” e “colore” non sono originari perché si fondano sul significato “ente”, il quale rende possibile la loro presenza. Infatti i significati “estensione” e “colore” si manifestano non in se stessi, ma sul fondamento di un quid che rende possibile la loro manifestazione. In tanto può darsi estensione e colore in quanto qualcosa è colorata e estesa.
E’ questo qualcosa il fondame nto del colore e dell’estensione. Tali qualità dipendono dall’onticità dell’ente.
Ciò che si manifesta in se stesso è quindi, innanzitutto, l’ente, ciò che è. Il fenomeno è ente.
L'espressione ciò che è può essere tradotta con qualcosa che si dà, si mostra, si presenta.
Automanifestazione dell'essere dell'ente
Nell'orizzonte dell'esperienza si dà una molteplicità di cose divenienti.
Il fenomeno, come è stato evidenziato, è “ciò che si manifesta in se stesso”; è quindi necessario interrogarsi se veramente il darsi delle cose si automanifesta e il modo in cui tale automanifestazione avviene.
L'ente, o il fenomeno, è ciò che è, qualcosa che è.
L'automanifestazione appartiene originariamente sia al qualcosa che all’ è ? sia a ciò che si dà che al darsi di ciò che si dà ? Chi rende possibile l'automanifestazione il qualcosa o l’è, o entrambi?
Qualcosa si dà sul fondamento del suo darsi e non viceversa. Gli enti sono enti perché sono qualcosa, e non sono nulla. E’ quindi l'essere dell'ente il fondamento dell'automanifestazione ontica e non la “cosalità” dell'ente.
L'ente è “cosa” sulla base del suo darsi. E’ il darsi delle “cose” che fa sì che esse siano piuttosto che non siano.
Questo ente con cui scrivo, e che chiamo computer, è ciò che è in quanto l'essere lo pone fuori dal nulla. Se l'essere del computer cessasse di essere, quest’ultimo non verrebbe privato di qualche suo aspetto, ma non esisterebbe più simpliciter.
L’onticità dell'ente dipende dal suo essere, quest'ultimo infatti è il fondamento che consente la presenza degli enti.
Un suono è tale perché risuona, cioè è, si dà; ciò che rende possibile al suono di essere suono, il suo fondamento, è il risuonare, l'essere, il darsi.
Quando il suono non risuona più, esso cessa di essere simpliciter. Il suono passa quindi dall'essere al non essere (relativo).
L'essere si manifesta come il fondamento della manifestazione degli enti, e pervade quindi ogni ente, e, nel contempo, si mostra, negativamente, come diverso dall’ente, come non-ente. L'essere si manifesta quindi, positivamente, come fondamento dell’ente e, negativamente, come non-ente.
L’essere, che rende possibile l’onticità degli enti, non si risolve in alcuno di essi, e, pur essendo intimamente unito ad ogni ente, sempre lo trascende.
L’essere si manifesta come trascendenza rispetto agli enti.
Trascendenza dell'essere
La trascendenza dell’essere può essere intesa in due modi.
L'essere dell’ente, come è stato mostrato precedentemente, non si risolve nell'ente, ma è al di là di esso, lo trascende nella sua diversità. Tale trascendenza però, come vedremo, non è assoluta.
L’orizzonte dell'esperienza evidenzia la molteplicità degli enti divenienti.
Nel divenire gli enti passano dal non essere (relativo) all'essere e dall’essere al non essere (relativo). Esemplificando il discorso, si può affermare che un suono che prima non risuonava ora risuona e dopo non risuona più.
L’essere dell'ente nel divenire mostra la sua contingenza. Esso infatti è il fondamento che rende possibile all’ente di essere posto fuori dal nulla, ma è un fondamento che può venire meno.
Il venire meno dell'essere dell’ente, intrinseco al divenire, comporta il venire meno dell'essere in quanto tale? Quando un ente passa dall'essere al non essere (relativo), l’essere in quanto essere passa nel non essere?
No, perché il divenire si manifesta all'interno di un orizzonte ontologico che non diviene e che rende possibile il divenire ontico.
L'analisi fenomenologica del divenire evidenzia che esso accade all'interno di un orizzonte ontologico che non cessa mai di essere. Tale orizzonte esclude assolutamente il nulla, in quanto è assolutamente innegabile.
In tanto può essere affermato che gli enti divengono in quanto il divenire si manifesta all'interno di questo orizzonte ontologico trascendente che non diviene.
L'orizzonte indiveniente che rende possibile il divenire ontico è l'essere in quanto essere, è la Manifestazione che consente il darsi (l'essere) di ciò che si dà. Esso è la Trascendenza assoluta, intrascendibile perché “limitata” soltanto dal nulla e il nulla è tale nell’ambito della realtà, del pensiero, del linguaggio.
Ogni realtà è qualcosa che è, quindi è un non-nulla.
Ogni pensiero è qualcosa di pensato; anche il concetto di nulla (non essere assoluto) è qualcosa.
Ogni parola è qualcosa di detto; anche la parola nulla è qualcosa.
Il nulla è nulla sul piano ontologico, logico e linguistico: il nulla è nulla simpliciter.
L’Essere in quanto Trascendenza è il fondamento assoluto e immutabile dell'essere degli enti. Gli enti, divenendo, da esso provengono e in esso ritornano. Esso è l’ Origine e il termine di tutto ciò che è.
L’Essere è e non può non essere, gli enti sono in quanto dipendono ontologicamente da lui.
Essere come fenomeno originario
L'essere in quanto essere è fenomeno?
Sì; esso, come è stato evidenziato, è la Manifestazione che rende possibile il manifestarsi di tutto ciò che si manifesta; è quindi fenomeno, intendendo questo termine in senso analogico.
Il fenomeno è “ciò che si manifesta in se stesso” e l’Essere non è qualcosa, ma propriamente è Non-ente; è l’ origine di ogni ente, ma in se stesso non è ente.
L’Essere è al di là di ogni ente e, nel contempo, è “ciò che si manifesta in se stesso” in modo assoluto, nel senso che la sua manifestazione è assolutamente originaria ed è l’origine ultima di ogni manifestazione ontica, sia riguardo all'essere che al contenuto (al darsi e al ciò che si dà).
Intendendo l'Essere come fenomeno, il pronome “ciò che” designa non una dimensione ontica ma l'apertura ontologica al cui interno si situa la totalità degli enti molteplici e divenienti.
Qual è la caratteristica specifica del fenomeno sui generis chiamato Essere?
L’Essere si oppone assolutamente al nulla. L’Essere infatti non può essere negato, poiché espunge da sé ogni forma di negazione.
L’Essere si pone come autoaffermazione assoluta e come conseguente esclusione della sua negazione, quindi come esclusione del non essere assoluto o nulla. Sentenzia giustamente Parmenide: “L'Essere è e non può non essere”[8].
L’Essere, come abbiamo visto, è l’Origine degli enti, ma qual è il rapporto che sussiste tra l’Origine (Essere) e l’originato (enti)? Quali sono le proprietà degli enti e gli attributi dell’Essere?
Per rispondere a queste domande è necessaria un’ulteriore riflessione fenomenologica. A queste domande, tuttavia, può rispondere la metafisica aristotelico-tomistica, la cui lettura fenomenologica verrà presentata nei prossimi articoli.
La puntata precedente è stato pubblicato il 21 marzo.
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NOTE
[1] Vedi articolo La metafisica è possibile come fenomenologia. Per quelli che il Creatore non esiste.
[2] J. Maritain, Il contadino della Garonna. Un vecchio laico interroga se stesso sul mondo di oggi, Morcelliana, Brescia 1971, pp. 167-168. Husserl, contrariamente a quanto afferma Maritain, l’intuizione dell’essere l’ “ebbe”.
[3] “San Tommaso apparentemente de lla metafisica dà la stessa definizione di Aristotele: ‘Metaphisica considerat ens et ea quae consequuntur ipsum’ (In Metaph. Proem.). Ma l’accordo è semplicemente apparente. Infatti se è pur vero che sia Aristotele sia san Tommaso concepiscono la metafisica come studio dell’ente in quanto tale il loro modo di intendere la reduplicativa in quanto ente è profondamente diversa. Infatti ciò che per Aristotele costituisce l’ente in quanto ente è la sostanza perché essa sola possiede l’entità in modo completo e autonomo. Così tutta l’indagine metafisica di Aristotele cammina in direzione della sostanza. Invece per san Tommaso ciò che costituisce l’ente in quanto ente è l’essere, poiché per definizione l’ente non è altro che ciò che possiede l’essere (id quod habet esse), ciò che partecipa all’essere (id quod partecipat esse)” (B. Mondin, Tommaso d’Aquino. Teologo Filosofo Esegeta, Veant, Roma 2011, p. 84).
[4] J. Maritain, Da Bergson a Tommaso d’Aquino. Saggi di metafisica e di morale, Edizioni Logos, Roma 1982, p. 219.
[5] Aristotele, Metafisica, I, 2, 982 b, 12.
[6] Ibidem, pp.47- 48
[7] Ibidem, p. 46.
[8] DIELS, fr. 4.