Bosniaco di etnia croata, nato nel 1945 nella diocesi di Banja Luka, Vinko Puljic è diventato arcivescovo di Sarajevo a 45 anni, poco più di un anno prima dello scoppio della guerra civile in Bosnia–Erzegovina. Cardinale dal 1994, accolse Giovanni Paolo II nella storica visita a Sarajevo del 1997. A Roma, per il Concistoro voluto da papa Francesco tra il 12 e il 15 febbraio, ci ha volentieri rilasciato l’intervista che segue, presso il collegio croato di san Gerolamo. Argomenti principali: la prossima visita del Papa a Sarajevo il 6 giugno, la situazione sempre precaria nella Repubblica di Bosnia-Erzegovina, il permanere della disuguaglianza di trattamento tra i cittadini, la discriminazione verso i cattolici, il disinteresse verso la loro situazione di Stati Uniti ed Unione europea.
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Eminenza, come ha accolto domenica 1° febbraio l’annuncio del viaggio apostolico del Papa a Sarajevo il prossimo 6 giugno?
Sapevo che si stava preparando la visita, ma mi era stato detto che sarebbe stato il Papa a decidere quando e che l’avrebbe comunicato lui stesso. Sentito l’annuncio all’Angelus, sono stato pervaso da una grande gioia…
Dopo l’Albania, il Papa sceglie di recarsi in un’altra terra balcanica, con una storia drammatica…
Quando papa Francesco ha salutato i cardinali dopo l’elezione, mi ricordo che mi disse: “Lei arriva da una Chiesa sofferta”. Sapeva già quanto abbiamo patito. Io lo invitai a venire da noi: “Santo Padre, non siamo lontani, siamo solo a un’ora di volo”. E lui: “Sì, sì, arrivo, arrivo”. Poi gli è giunto l’invito ufficiale, anche quello del governo. Giovedì 12 febbraio, nel primo giorno di Concistoro, ci siamo risalutati e lui sorridendo mi ha detto: “Ha visto che arrivo?”.
Come ha reagito la popolazione all’annuncio?
Il popolo è contento, felice, non solo i cattolici. Anche i musulmani, anche gli ortodossi, anche gli ebrei.
Lei ha incontrato all’inizio di febbraio il Gran Muftì Husein Kavazovic…
Sì, il Gran Muftì ha promesso di collaborare pienamente per l’organizzazione della visita, insieme con la comunità musulmana. E’ desiderio del Papa che la visita assuma una forte valenza ecumenica ed interreligiosa. In tal senso penso che anche il mondo ortodosso collaborerà volentieri.
Quale la reazione del mondo politico istituzionale?
I tre presidenti della Repubblica, uno musulmano di Bosnia (in carica), uno di etnia serba, uno di etnia croata (sarà in carica da marzo), hanno dato il loro benvenuto al Papa, che del resto avevano ufficialmente invitato. E questo è un fatto significativo e beneaugurante. Per tutti noi in ogni caso sarà un grande giorno, anche perché, grazie all’annuncio della visita, la Bosnia-Erzegovina è uscita dall’oblio in cui è stata confinata dalla comunità internazionale. Tutti hanno constatato che dal primo febbraio il nostro Paese ha ripreso ad esistere internazionalmente: basta guardare la prima pagina dei giorni o i titoli dei telegiornali…
Eppure in Bosnia-Erzegovina, anche dopo la conclusione della crudelissima guerra degli anni ’90, si continua da anni a vivere in modo precario…
Gli Accordi di Dayton del dicembre 1995, stipulati in una base militare americana nell’Ohio dopo tre anni e mezzo di guerra, hanno de facto sancito il principio della pulizia etnica. Cioè dell’ingiustizia e della disuguaglianza. I cattolici di etnia croata residenti nella Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina non hanno potuto far ritorno che in minima parte nelle loro case. La situazione per i cattolici non è migliore nella Federazione croato-musulmana, dominata dai musulmani. Non c’è uguaglianza tra i cittadini. Noi cattolici siamo particolarmente penalizzati. E’ per questo che la visita di papa Francesco era necessaria per incoraggiare, dare una spinta forte alla comunità cattolica e al suo tentativo di un dialogo fecondo con le altre confessioni e religioni. Sarà importantissimo già il solo fatto di pregare insieme con noi, dimostrando così una vicinanza profonda alle nostre difficoltà e alle nostre istanze, alla vita quotidiana del nostro popolo.
Nel 1997 venne in visita – rinviata di tre anni e molto attesa – Giovanni Paolo II. Che conseguenze ebbe la visita sul piano del dialogo tra le fedi?
Il clima tra di noi migliorò sensibilmente. Fu creato un Consiglio interreligioso, i cui membri sono i capi di tutte le fedi tradizionali presenti in Bosnia: cattolici, ortodossi, musulmani, ebrei. Da allora ci troviamo alcune volte l’anno per discutere dei problemi sul tappeto e per creare occasioni di collaborazione concreta. Non pretendiamo di trovare accordi teologici, ma incidenti sulla prassi quotidiana. Ad esempio insieme abbiamo ottenuto di poter insegnare religione nelle scuole pubbliche. Oppure abbiamo discusso dello statuto giuridico delle Chiese e comunità religiose, così che abbiano diritto a una presenza pubblica con tutte le conseguenze positive connesse. Si trattava di cambiare la legge in materia risalente al periodo comunista. Con ortodossi e musulmani stiamo allestendo un progetto di collaborazione, indirizzato a bambini, giovani e donne, per creare rispetto, fiducia reciproca. Un altro progetto riguarda le modalità di una reazione comune e pubblica delle diverse fedi contro gli attacchi alla religione.
Nel 1997 papa Giovanni Paolo II definì Sarajevo come una Gerusalemme europea, una città in cui convivono cattolici, ortodossi, musulmani, ebrei. Lei però disse in un’occasione che “è evidente che oggi la città è solo dei bosniaci-musulmani. Tutti gli altri vi vivono, ma non godono degli stessi diritti”. Nel 2015 siamo ancora a questo punto?
Nonostante alcuni miglioramenti, mi pare di sì. Non è solo colpa dei bosniaci-musulmani, ma anche in buona parte dei politici che ci governano.
Vuol dire che il potere politico privilegia la parte musulmana?
Sì, è così. Basta vedere anche come si comporta la comunità internazionale. Gli Stati Uniti in prima linea guardano ai musulmani per i loro interessi che non sono i nostri, per loro ragioni di strategia politica ed economica…
E l’Europa?
Ha voltato per lunghi anni la testa dall’altra parte. Non ha voluto vedere. Era ed è troppo occupata a pensare ai soldi, alle banche, ai profitti. Ora sembra che si stia risvegliando un po’ nel suo interesse per la Bosnia-Erzegovina. Il fatto però è che l’Unione europea guarda anch’essa ai musulmani come interlocutori privilegiati. Noi cattolici per l’UE non esistiamo: ci ignorano completamente, non hanno nessuna simpatia per noi. Io proprio non posso capire.
Delle difficoltà incontrate dai cattolici a Sarajevo è un simbolo anche la vicenda cui Lei faceva cenno nel 2011, riguardante la costruzione di una chiesa in città, nella parrocchia di Grbaviza…
Abbiamo chiesto per quindici anni di poterla costruire e finalmente, dopo aver pagato una bella cifra, abbiamo ricevuto il permesso, unica chiesa di fronte alle decine di moschee costruite in questi anni. Ora, grazie a Dio, la chiesa è in fase avanzata di costruzione, stiamo arrivando al tetto. E forse in primavera la costruzione sarà conclusa.
Lei diceva delle decine di moschee costruite… I musulmani di Bosnia sono sensibili alle sirene del fondamentalismo islamico?
I ‘vecchi’ direi di no, abbiamo ancora nel sangue la convivenza reciproca. Tra i giovani invece le sirene si fanno sentire: manca il lavoro, per vivere sono disponibili anche ad arruolarsi nella jihad. Il fondamentalismo islamico ha incominciato a prender piede in Bosnia-Erzegovina con la guerra civile: venivano i combattenti per aiutare militarmente e anche concretamente nella vita quotidiana. Armi e petrod
ollari. Alcuni di loro sono restati, altri si sono aggiunti…Il clima è peggiorato e ormai negli ultimi tempi non pochi musulmani estremisti sono partiti per l’Iraq e per la Siria…
Fanno qualcosa per bloccarli i musulmani ‘moderati’?
Qualche giorno fa l’autorità islamica di Bosnia, il Gran Muftì Husein Kavazovic, ha chiesto la revoca della cittadinanza per tutti coloro che vanno a combattere per la jihad. Una richiesta forte che è molto significativa della volontà di arginare il fondamentalismo e che noi giudichiamo molto positivamente. Il Gran Muftì l’ha detto esplicitamente: i jihadisti non rappresentano la fede islamica, non agiscono in nome di Allah.
Per guardare ai rapporti con gli ortodossi, la tristissima crisi ucraina pesa sulle relazioni reciproche?
Per il momento no, siamo tutti troppo impegnati nel cercare di risolvere le nostre difficoltà quotidiane.
Eminenza, nel 2011 ci aveva parlato di un ospedale cattolico a Sarajevo, pronto, ma non funzionante a causa della mancanza dell’apparecchiatura necessaria. A che punto siamo?
Qualche macchinario è arrivato, ma l’ospedale continua a non funzionare, poiché ancora non ci hanno rilasciato il permesso di accedere con la macchina e con le autoambulanze. Lo spazio ci sarebbe: è uno spazio ecclesiale, espropriato. Ma niente, ancora il permesso di accedere con i veicoli non è arrivato. Dunque lì sono in attività solo il monastero con le suore e la scuola.
Concludiamo con una nota di speranza, con la situazione nei Seminari, maggiore e minore di Sarajevo. Nel 2011 ognuno aveva una quarantina di studenti. E oggi?
Grazie a Dio siamo restati attorno allo stesso numero. Il Seminario accoglie anche studenti di altre diocesi come Mostar e Banja Luka o dal Montenegro, dalla Macedonia. Per restare nell’ambito scolastico, i nostri cinque centri – le “Scuole per l’Europa” – esistono ancora e restano multietnici. E’ certo un segnale di speranza per l’avvenire della nostra terra tormentata.
[Fonte: Rosso Porpora. L’intervista appare anche in versione inglese nel mensile cattolico statunitense ‘Inside the Vatican’]