Il bastone o l’abbraccio? La rigidità o la misericordia? Cosa usiamo davanti a chi si trova in difficoltà? C’è sempre una provocazione dietro ogni domanda di padre Bruno Secondin nelle sue meditazioni durante gli Esercizi Spirituali di Quaresima con il Papa e la Curia.
Nella riflessione di ieri pomeriggio, mercoledì 25 febbraio, nella Casa Divin Maestro di Ariccia, il carmelitano si è soffermato su un aspetto fondamentale nella vita di fede, spesso ripetuto da Papa Francesco nei suoi discorsi: il fatto, cioè, che “i poveri ci evangelizzano”.
La veridicità di quest’affermazione è attestata dal brano biblico in cui Elia – figura chiave di tutti gli Esercizi di questa Quaresima – incontra la vedova di Sarepta. Una “povera” donna che però cambia il cuore dello “scorbutico” e “aggressivo” profeta, offrendogli ospitalità pur avendo solo “un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio”.
I padri della Chiesa commentano infatti questi passi biblici sottolineando che “Dio cerca di raddrizzare Elia affinché si ammansisca”. Per questo, sottolinea il predicatore, viene inviato a Sarepta dove dalla donna impara ad affrontare la povertà e la morte con dignità.
In un primo momento – spiega padre Bruno – Elia, attraverso il miracolo del cibo che non finisce, si presenta in vesti “taumaturgiche”. La morte del figlio della vedova invece lo ridimensiona, lo fa sentire impotente al punto che non gli rimane altro che invocare Dio, “affidarsi a Dio in nudità”, riconoscere che lui ha solo il potere “di gridare il suo dubbio e di implorare”.
In questo passaggio interiore, che si traduce nei gesti teneri del profeta e nell’ammissione della sua debolezza, la vedova riconosce il volto di Dio: il “Dio di compassione”, il “Dio di misericordia”, il “Dio che abbraccia, che porta nella sua identità la nostra ferita”.
Davanti a questo, ognuno di noi dovrebbe chiedersi: “Siamo capaci di incontrare i poveri per arrivare a incontrare la verità? O abbiamo paura di perdere la faccia?”, esorta Secondin. Forse, aggiunge, non sempre “sappiamo riconoscere e abbracciare chi ha un ‘bimbo morto’ nel suo cuore: violenze, traumi infantili, divisioni, orrori..”. E forse il nostro atteggiamento è saccente come il “taumaturgo” e non quello della “parola che implora”. Allora – insiste il carmelitano – chiediamoci anche: di fronte a situazioni di dolore “mandiamo avanti il canonista”, usiamo “il bastone” o adoperiamo “le braccia per abbracciare”?
Sulla stessa linea si è svolta la prima meditazione di questa mattina, giovedì 26 febbraio, in cui Secondin ha ripreso il tema dei “poveri” legato, questa volta, a quello della giustizia. “L’impegno per la giustizia è parte integrante della nostra sequela di Cristo, perché i poveri sono i privilegiati del Vangelo: non è una mania populistica”, ha sottolineato.
E ha rievocato un altro episodio della vita di Elia, narrato sempre nel primo libro dei Re, in cui Acab il re vuole acquistare la vigna dell’umile contadino Nabot. Il quale, però, rifiuta di cederla perché non vuole fare torto all’eredità ricevuta dai suoi padri. Interviene allora la regina Gezabele, perfida e calcolatrice, che organizza un’assemblea rituale con i rappresentanti del popolo durante la quale, col supporto di due false testimonianze, accusa Nabot di blasfemia e lo fa uccidere.
La gioia di Acab nell’aver ottenuto il suo “giocattolo” viene, tuttavia, smorzata dalla dura condanna divina pronunciata da Elia. Il re allora si pente e ottiene da Dio un’attenuazione della pena.
Insomma, un girotondo di personaggi questo brano, dove si intrecciano psicologie differenti che – sottolinea padre Secondin – mettono allo scoperto tanti aspetti delle nostre vite. C’è Acab il frustrato, Gezabele la donna potente e senza scrupoli, Nabot il pio, i rappresentanti del popolo privi di coscienza e succubi di dinamiche di stampo mafioso. In ognuno di loro c’è qualcosa di ognuno di noi.
Quante volte, ad esempio, “elementi sacri sono usati come copertura di procedimenti iniqui”, osserva padre Bruno. Quanto ancora “dovranno gridare i poveri e gli oppressi”, prima che si chiudano definitivamente gli “abissi di violenza” che “vengono aperti in nome di Dio”?
Anche tra noi cristiani – avverte – si ritrova “il sonno della coscienza”. Pensiamo alle violenze che si consumano in Africa e in Medio Oriente: in quel caso, “la coscienza degli europei non ha niente da rimproverarsi?”.
Le Scritture, attraverso il brano succitato, parlano chiaro: “Dobbiamo stare dalla parte di tutti i Nabot della terra – rimarca il predicatore – difendere i diritti, accogliere le vittime, spronare le coscienze, promuovere strutture, perché la terra è di Dio, è un dono per la vita di tutti e non per i capricci di qualcuno”.
Per farlo bisogna compiere piccoli gesti; la Scrittura stessa propone una “pedagogia dei piccoli gesti”. Cominciare, cioè, da noi stessi, “convertire il proprio stile di vita”, rivedere i consumi – non sprecare il cibo, ad esempio – essere trasparenti nell’agire, onesti nel proprio dovere, non esercitare l’autorità come potere e come fonte di privilegi. E soprattutto “spezzare l’omertà, le coperture, gli abusi”.
In altre parole, dobbiamo “avere il coraggio di denunciare”, esorta padre Secondin. Perché sono tanti, troppi, i mali che affliggono il pianeta: inquinamento, accaparramento delle terre fertili e delle acque a danno dei popoli locali, un’economia senza scrupoli che con un semplice “clic” uccide le persone.
L’invito è quindi a recuperare “la forza” del canto del Magnificat che ricorda che “Dio non sopporta i prepotenti”, e che mette tutti a nudo di fronte ad un’altra, urgente, domanda: “Sappiamo familiarizzare pubblicamente con gli umiliati, con gli scarti della violenza, o abbiamo paura di perdere la faccia per il Vangelo?”.