Riportiamo di seguito la relazione del cardinale Camillo Ruini, presidente emerito dell’Opera Romana Pellegrinaggi, al XVII Convegno Nazionale dell’Opera Romana Pellegrinaggi sul tema Il pellegrinaggio: tempo e luogo di riconciliazione e conversione (Roma, 8-11 febbraio 2015).
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Per entrare subito nel giusto clima spirituale ho scelto di iniziare la mia relazione con le parole che l’Apostolo Paolo dedica al grande tema della riconciliazione: “Tutto questo … viene da Dio, che ci ha riconciliato con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (2Cor 5, 18-21). Ogni prete, in particolare ogni prete che accompagna un pellegrinaggio, dovrebbe sentire come rivolte a sé queste parole. Infatti al centro del ministero sacerdotale sta proprio l’essere amministratori e operatori sacramentali della riconciliazione che Dio, attraverso la croce e la risurrezione di Cristo e il dono dello Spirito Santo, ha compiuto una volta per tutte, ma vuole anche realizzare in concreto in ciascuna persona che sia liberamente disposta ad accogliere questo dono.
È ben vero, come ha scritto Giovani Paolo II nella Dives in misericordia, n.2, che l’uomo di oggi sembra alieno, anzi ostile all’idea di essere in colpa e di aver bisogno del perdono di Dio, ma è altrettanto vero che, specialmente in questi ultimi anni, ci sentiamo tutti in qualche modo minacciati e abbastanza confusi e disorientati: bisognosi quindi di essere compresi e soprattutto amati. E’ questo uno spazio aperto nel quale l’annuncio del Dio ricco di misericordia può inserirsi in maniera calzante. Chi poi partecipa a un pellegrinaggio con ogni probabilità avverte già nel suo cuore il desiderio di approfondire il proprio rapporto con Dio e di sgomberare il campo da ciò che potrebbe ostacolare questo rapporto. E’ dunque in una condizione adatta per riscoprire il senso del peccato e per accogliere l’invito alla riconciliazione. Sappiamo per esperienza, del resto, che forse la maggioranza dei partecipanti ai pellegrinaggi non ha bisogno di particolari inviti ma prende direttamente l’iniziativa di confessarsi ed è felice se incontra un sacerdote al quale aprire veramente il proprio animo: è un’esperienza che ho fatto anch’io molto volte, particolarmente nei pellegrinaggi a Lourdes.
A questo punto due considerazioni sembrano imporsi. La prima riguarda l’importanza crescente che i pellegrinaggi assumono nel nostro tempo. Uno degli aspetti più deboli e problematici della pastorale e dell’intera vita della comunità cristiana è infatti la crisi del sacramento della riconciliazione, che si trascina ormai da decenni. Dietro al mancato ricorso a questo sacramento c’è infatti, assai spesso, una specie di secolarizzazione interna delle comunità ecclesiali e dei singoli credenti. Si tratta certamente delle questioni etiche, dove molti si adeguano ai criteri di giudizio prevalenti e considerano sorpassati e non vincolanti gli insegnamenti della Chiesa, compresi alcuni comandamenti del Decalogo. Ma la secolarizzazione tocca un nervo se possibile ancora più profondo: si pensa infatti che per essere un buon cristiano sia sufficiente essere una persona onesta e rispettabile, senza nemmeno sospettare che con il battesimo siamo davvero diventati figli di Dio, figli nel Figlio. Siamo stati accolti cioè in una sfera di vita nuova e infinitamente più alta, la cui norma concreta non è una morale umana, ma è Gesù Cristo. Se non siamo consapevoli di questo e non cerchiamo di viverlo non possiamo essere testimoni del Vangelo, non abbiamo capacità di attrazione e irradiazione missionaria. C’è bisogno quindi di una concreta iniziazione cristiana, che non si fermi alla prima Comunione e alla cresima e che sia proposta non sola a piccoli gruppi, come avviene per lo più nelle nostre parrocchie e comunità, ma che sia accessibile a molti. I giorni del pellegrinaggio, con l’atmosfera che li contraddistingue, possono essere l’occasione propizia per tentare una simile iniziazione cristiana ed è questa, secondo me, la principale ragione per la quale oggi, nella pastorale complessiva, i pellegrinaggi stanno diventando sempre più importanti.
Se le cose stanno così, si impone però chiaramente anche la seconda considerazione a cui ho fatto riferimento. Essa riguarda la qualità dei nostri pellegrinaggi. Dobbiamo cioè essere coraggiosi e orientare i pellegrini verso quella “misura alta della vita cristiana ordinaria” che Giovanni Paolo II, nell’Esortazione Apostolica Novo millenio ineunte, n. 31, ha chiesto di proporre a tutti con convinzione per dare concretezza all’insegnamento del Concilio Vaticano II sulla vocazione universale alla santità (Lumen gentium, cap. V). Un obiettivo di questo genere investe e qualifica, necessariamente, tutti gli aspetti e le dimensioni di un pellegrinaggio. in primo luogo le intenzioni dei suoi promotori, organizzatori e conduttori. E non solo le loro intenzioni ma, ben di più, il loro cuore, le loro convinzioni, le scelte di vita che compiono ogni giorno. Cari amici, nel dire questo mi vergogno un po’ e mi sento per primo chiamato in causa, ma credo che il mettere in discussione noi stessi sotto questo profilo radicale e decisivo faccia bene a tutti.
Veniamo ai molteplici fattori che confluiscono in un pellegrinaggio, cominciando da quelli terreni, organizzativi ed economici. Perseguire una misura alta di vita cristiana non significa infatti perdere il senso della realtà e sconfinare nell’utopia. Due grandi santi come Don Giovanni Bosco e Madre Teresa di Calcutta lo hanno mostrato chiaramente. Mentre però organizziamo il pellegrinaggio e pianifichiamo i suoi costi, e anche i margini di profitto che possiamo ricavarne per la nostra parrocchia, comunità religiosa o diocesi, dobbiamo al tempo stesso avere ben presente, anzi prioritariamente presente, la testimonianza cristiana che il medesimo pellegrinaggio deve dare, in ogni suo aspetto. Perciò non lo organizzeremo concentrando all’eccesso i suoi tempi, con il risultato di presentare un’offerta che appaia più vantaggiosa e allettante, ma anche di compromettere le possibilità di un dialogo disteso con Dio, con i sacerdoti e con i fratelli. Saremo ugualmente disponibili a venire incontro a chi desidera partecipare ma ha difficoltà, vere e non pretestuose, a sostenere interamente l’onere economico. Non va mai dimenticato, infatti, che molti pellegrini, come in genere la nostra gente, non hanno uno spiccato senso di appartenenza alla Chiesa e non sono veramente consapevoli che Chiesa è l’intero popolo di Dio, compresi loro stessi, ma tendono spontaneamente a identificare la Chiesa con i suoi rappresentanti istituzionali, quindi con i sacerdoti, le religiose, le organizzazioni che fanno capo alla Chiesa stessa: perciò anche con chi organizza i pellegrinaggi. Dare la dimostrazione pratica che per noi e per i nostri pellegrinaggi i beni spirituali stanno davvero al primo posto è dunque una maniera per rendere visibile il volto autentico della Chiesa e per aiutare la nostra gente a riconciliarsi interiormente con lei, superando sospetti e pregiudizi purtroppo diffusi.
Spostiamo ora l’attenzione sul nucleo centrale e costitutivo del pellegrinaggio, ossia sull’itinerario di preghiera, di evangelizzazione e catechesi, di dedizione e anche di sacrificio che deve caratterizzarlo. Non è il caso di indulgere ad atteggiamenti sofisticati e a pretese di raffinatezza. Il pellegrinaggio è un fatto di popolo e va condotto con lo stile e il linguaggio del popolo, senza dimenticare
però che il popolo di oggi non è più quello di trent’anni fa e che del popolo fanno parte anche i giovani, sebbene purtroppo poco numerosi a motivo della crisi demografica e anche di un’altra crisi, che sembra minare i rapporti tra la Chiesa e le nuove generazioni e che è stata descritta da Don Armando Matteo in un libro dal titolo emblematico La prima generazione incredula.
In un normale pellegrinaggio le ore consacrate alla preghiera sono tante, sono enormemente più di quelle che le persone anche credenti e praticanti sono solite dedicare alla preghiera nelle circostanze quotidiane della loro esistenza: basta pensare alle Celebrazioni e processioni eucaristiche, alle ore di adorazione, ai Rosari, alle Viae Crucis, ai tempi di preghiera silenziosa e di esame di coscienza. Già per questo il pellegrinaggio è tempo di grazia, c’è però il rischio che questo tempo passi senza lasciare una traccia seria e duratura nei nostri comportamenti. Senza, in particolare, che il pellegrinaggio riesca a essere un’autentica “scuola di preghiera”, come Giovanni Paolo II ha chiesto di essere ad ogni comunità cristiana nella Novo millennio ineunte, n.33, una scuola dove cresce il gusto e la gioia della preghiera e migliora la sua qualità non solo umana ma cristiana e propriamente teologale. Dobbiamo avere molta fiducia che, con la grazia di Dio, tutto ciò è possibile e corrisponde anche al desiderio della gente. Ascoltiamo ancora le parole di Giovanni Paolo II nel medesimo testo: è un “segno dei tempi… che si registra oggi nel mondo, nonostante gli ampi processi di secolarizzazione, una diffusa esigenza di spiritualità, che in gran parte si esprime in un rinnovato bisogno di preghiera. Anche le altre religioni, ormai largamente presenti in paesi di antica cristianizzazione – come l’Italia –, offrono le proprie risposte a questo bisogno, e lo fanno talvolta con modalità accattivanti. Noi che abbiamo la grazia di credere in Cristo, rivelatore del Padre e salvatore del mondo, abbiamo il dovere di mostrare a quali profondità possa portare il rapporto con lui”. Queste parole, scritte a conclusione dell’Anno Santo del 2000, sembrano pronunciate oggi.
Come consigli pratici perché la scuola di preghiera del pellegrinaggio possa muoversi su questa lunghezza d’onda mi permetto di avanzare alcune piccole proposte, che non hanno alcuna pretesa di novità: inserire nelle consuete forme di preghiera, con le modalità che ciascun responsabile di pellegrinaggi riterrà più opportuno, momenti di silenzio, letture di brevi brani biblici o di altri testi di cui è ricca la tradizione cristiana del passato e del presente, o anche parole proprie, che devono però essere poche e non sviare l’attenzione ma aiutare davvero il raccoglimento. Naturalmente lo stile con cui noi stessi celebriamo e preghiamo è molto importante e nasce dalla nostra interiorità – o meglio dall’accoglienza della grazia di Dio –, prima che da qualsiasi tecnica o arte.
A questo punto voglio raccontarvi un’esperienza, che mi è capitata in modo del tutto casuale molti anni fa, quando ero sacerdote a Reggio Emilia. Nel pomeriggio di una domenica stavo percorrendo con la mia auto una strada collinare a Sud di Reggio Emilia e davanti a me procedeva una moto di grossa cilindrata. Improvvisamente e in maniera che non so spiegarmi – la velocità non era certo elevata – il pilota ha perduto il controllo, è caduto e la moto gli è finita addosso. L’ho raggiunto subito e con me varie altre persone che si trovavano a passare di lì. Purtroppo era già morto, avrà avuto una trentina d’anni. Gli ho dato comunque l’assoluzione e anche l’unzione degli infermi poi i presenti, alcuni dei quali, a differenza di me, lo conoscevano personalmente, hanno posto il problema di avvertire i parenti, cioè la madre, vedova, e il fratello. Come sacerdote, è toccato a me. Mi hanno accompagnato a una piccola casa di campagna ed è venuta ad aprirmi la madre di quel giovane. Ho preso il discorso un po’ alla larga ma la donna ha capito subito e mi ha posto una domanda diretta, alla quale ho dovuto rispondere affermativamente. La donna ha taciuto per qualche istante, mentre il suo viso era stravolto dalla sofferenza. Poi ha detto semplicemente “la Madonna ha sofferto di più”. Le parole sono state esattamente queste, le sento ancora dentro di me. Un fatto di questo genere ci mostra come la qualità della preghiera e la misura alta della vita cristiana possano trovarsi ovunque, anche e direi specialmente tra le persone semplici, ad esempio tra i frequentatori abituali dei nostri pellegrinaggi.
Quanto all’evangelizzazione e alla catechesi, è significativo anzitutto che proprio la necessità di una nuova evangelizzazione, nel contesto di una società e di una cultura in gran parte secolarizzate, costituisca il filo rosso che, a partire dal Concilio Vaticano II, unisce tra loro tutti i Pontificati che si sono finora succeduti, pienamente compreso quello di Papa Francesco. Di evangelizzazione hanno chiaramente bisogno le non poche persone che prendono parte a un pellegrinaggio pur frequentando poco la Chiesa e avendo una conoscenza solo rudimentale delle verità della fede. Ma anche chi è più inserito nella vita delle parrocchie è spesso diviso in se stesso, perché non è in grado di fare unità tra la sua fede e pratica cristiana e la cultura e mentalità che respira e assimila nella vita di ogni giorno.
La prima forma di evangelizzazione consiste nel presentare, in maniera concreta e non astratta, i contenuti fondamentali del cristianesimo. Come già dicevo nella prolusione al Convegno ORP dello scorso anno, non c’è affatto bisogno, per questo, di rinunciare all’impostazione più tradizionale e autentica dei nostri pellegrinaggi, riassunta nella formula per Mariam ad Jesum. Concentriamoci sul tema della riconciliazione, che è quello proprio del nostro Convegno. Anche qui il magistero di Giovanni Paolo II ci offre degli spunti tanto attuali quanto profondi, in questo caso nell’Enciclica Redemptor hominis, n. 20. Anzitutto riguardo al legame intimo tra i sacramenti dell’Eucaristia e della penitenza: “se la prima parola dell’insegnamento di Cristo… era ‘Convertitevi e credete al Vangelo’, il sacramento della passione, della croce e risurrezione sembra rafforzare e consolidare in modo del tutto speciale questo invito nelle nostre anime. L’Eucaristia e la penitenza diventano così, in certo senso, una dimensione duplice e, insieme, intimamente connessa dell’autentica vita secondo lo spirito del Vangelo, vita veramente cristiana”. Non sono i precetti esterni quelli che potranno convincere la gente di oggi a unire di nuovo alla partecipazione alla mensa eucaristica il ricorso frequente al sacramento della riconciliazione. Dobbiamo piuttosto far comprendere che, se viene meno un costante e sempre rinnovato impegno di conversione, la partecipazione all’Eucaristia perde gran parte della sua efficacia redentrice.
Il secondo spunto contenuto nella Redemptor hominis si riferisce al carattere eminentemente personale della conversione. Le iniziative che, a partire dal Concilio Vaticano II, hanno valorizzato la dimensione comunitaria del sacramento della penitenza sono importanti e ben fondate. “Non possiamo, però, dimenticare che la conversione è un atto interiore di una profondità particolare, in cui l’uomo non può essere sostituito dagli altri, non può farsi ‘rimpiazzare’ dalla comunità … La Chiesa, quindi, osservando fedelmente … la pratica della confessione individuale, unita all’atto personale di dolore e al proposito di correggersi, … difende il diritto dell’anima umana … ad un più personale incontro dell’uomo con Cristo crocifisso che perdona … Questo è, nello stesso tempo, il diritto di Cristo verso ogni uomo da lui redento. E’ il diritto di incontrarsi con ciascuno di noi in quel momento-chiave della vita dell’anima che è … la conversione e il perdono”.
Visto in questa prospettiva personalista, il sacramen
to della riconciliazione si incontra, in una maniera che non è percepita dalla cultura prevalente e da gran parte della stessa teologia, con quel movimento di fondo che attraversa i secoli, a partire dall’Umanesimo del Quattrocento, e giunge fino a noi. Mi riferisco alla tendenza a mettere l’uomo, il soggetto umano, al centro della realtà e a considerare tutto il resto in rapporto a lui. Si tratta certo di un movimento che può essere pericoloso e ambiguo, perché porta con sé la tentazione di mettere l’uomo al posto di Dio. Ma questo rischio non deve farci dimenticare che la valorizzazione della persona umana ha la sua origine nel cristianesimo. E’ la fede nell’uomo creato a immagine di Dio, e ancor più nel Dio fatto uomo in Cristo, quella che ha dato la spinta decisiva ad elaborare il concetto stesso di persona, ignoto alla cultura antica prima del cristianesimo e anche oggi poco familiare alle civiltà che non hanno una radice cristiana. Lo stesso discorso vale per la rivendicazione della libertà, che oggi è usata come motivo per prendere le distanze dalla Chiesa e perfino dal cristianesimo, ma in realtà ha preso forza dall’insegnamento di Gesù. Accostarsi al confessionale non è dunque il residuo di una tradizione ormai antiquata: è invece un atto di fiducia nella nostra libertà, che può aprirsi alla libertà di Dio e ricevere da lui la forza per cambiare l’orientamento della nostra esistenza.
Perché allora il confessarsi, soprattutto il confessarsi bene e seriamente, ci rimane spesso così difficile? Perché si tratta di uscire da noi stessi, anzi, di rompere con noi stessi, in concreto con il peccato che abita in noi. Ascoltiamo di nuovo l’Apostolo Paolo, questa volta nella Lettera ai Romani: “Io so che in me, nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me”. Paolo conclude con un’invocazione: “Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” (Rom 7,18-20. 24-25).
Domandiamoci ancora: in che modo e in che senso Dio ci libera per mezzo di Gesù Cristo? Paolo ce lo ha già detto al termine del brano della seconda Lettera ai Corinzi che ho letto iniziando questa relazione: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo ha fatto peccato per noi, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”. La strada scelta da Dio per liberarci dal peccato e salvarci è quella di soffrire con noi: per questo il Figlio eterno di Dio ha preso la nostra carne mortale e si è offerto per noi, con un gesto di amore senza limiti. La Lettera agli Ebrei riassume e approfondisce, al riguardo, il messaggio che ci viene da tutto il Nuovo Testamento: “E’ impossibile che il sangue di tori e di capri elimini il peccato. Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato … Allora ho detto: ‘Ecco io vengo … per fare, o Dio, la tua volontà’ … Così egli abolisce il primo sacrificio (quello dell’Antico Testamento) per costituire quello nuovo. Mediante quella volontà siamo stati santificati, per mezzo del corpo di Cristo, una volta per sempre” (Ebr 10,4-10). Dio non dà dunque una risposta teorica al peccato, alla sofferenza e alla morte, che fin dai tempi più antichi, e anche oggi, spingono l’umanità a dubitare di lui. Si fa invece totalmente solidale con noi e in questo modo ci dà la forza per vincere il peccato e la morte, come Gesù Cristo li ha vinti morendo e risorgendo dai morti. Cristo risorge infatti come primogenito di molti fratelli, la realtà della sua risurrezione è l’anticipazione e la garanzia della nostra, come San Paolo ci ripete più volte (1Cor 15,20-23; Rom 8,29; Col 1,18). Naturalmente questa risposta concreta ed efficace di Dio può essere accolta solo nella fede: di fronte all’enigma della sofferenza innocente, del peccato e della morte la ragione da sola rimane prigioniera dell’incertezza e dell’angoscia. Ecco perché, oggi come nel passato, per trovare il senso della nostra vita è decisivo credere.
Ritorniamo alla concretezza della realtà quotidiana, che appare tanto diversa e più prosaica rispetto a ciò che dice la parola di Dio. Se però guardiamo più attentamente alla condizione effettiva in cui si trovano tante persone e famiglie, tanti anziani e tanti giovani, dobbiamo constatare che le croci non mancano, per la mancanza di lavoro, la povertà, l’incertezza del futuro; per i contrasti familiari, la solitudine, le malattie, le situazioni di degrado non riconducibili unicamente a responsabilità personali. Gesù Cristo continua a prendere tutte queste croci su di sé e i giorni del pellegrinaggio sono un’occasione propizia per far nascere o ravvivare in chi soffre la fiducia nel suo sostegno e nella sua vicinanza. A questo fine più efficace di molte parole può essere la rete di solidarietà che in un pellegrinaggio ben riuscito si sviluppa intorno a quei pellegrini che sono in più gravi difficoltà.
In particolare il tema del nostro Convegno, “Il pellegrinaggio tempo e luogo di riconciliazione”, fotografa un’esperienza che chi confessa i pellegrini si trova spesso davanti: molte persone desiderano essere pienamente riconciliate con Dio ma si trovano a disagio perché sanno bene di non essere in pace con il loro prossimo, all’interno delle famiglie o nelle situazioni di lavoro o per altri motivi di affetti o di interessi, che magari risalgono indietro nel tempo ma si sono irrigiditi tanto da apparire insuperabili: o meglio, tanto che noi per primi non siamo disposti a superarli. Senza usare toni ultimativi e senza indulgere a facili moralismi, dobbiamo dare conferma a queste persone che il loro disagio è ben fondato, come ha detto Gesù stesso: “Se tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24). Dobbiamo quindi aiutare queste persone a non rimanere prigioniere del calcolo delle ragioni e dei torti e stimolarle a entrare invece nella logica di Gesù e del Padre celeste, che è quella della generosità. Forse non otterremo subito risultati tangibili, ma avremo piantato un seme che potrà portare frutti a suo tempo.
I contrasti personali e familiari sono i più sentiti, ma c’è anche un terreno più ampio sul quale oggi il bisogno di riconciliazione è grande: penso alle situazioni del mondo, e anche a quelle dell’Italia, ai contrasti e alle violenze che causano troppe vittime, avvelenano la vita sociale e generano un’inquietudine profonda. E’ un terreno, questo, delicato e difficile, perché vi si scontrano le opzioni politiche, gli interessi delle nazioni come delle varie categorie sociali, le ideologie, comprese quelle che fanno appello a un credo religioso. Anche su questo terreno, però, non possiamo esimerci, nei pellegrinaggi come negli altri contesti pastorali, dal proiettare la luce della fede e della parola della Chiesa, una luce che del resto la gente attende. A mio parere, non è il caso di indulgere a un facile buonismo, evitando di chiarire che determinate azioni e comportamenti sono comunque inaccettabili e che a esse è giusto opporsi, facendo ricorso a tutti gli strumenti necessari. L’esigenza di giustizia è radicata nel profondo del nostro animo e soltanto se la prendiamo sul serio possiamo essere validi educatori delle coscienze. Su questa base potremo fare quel passo ulteriore che è al centro dell’insegnamento di Gesù: potremo affermare e spiegare cioè che la giustizia da sola non basta, ma che siamo chiamati a essere misericordiosi, come è misericordioso Dio nostro Padre (Lc 6,36). Proprio la dura esperienza quotidiana mostra del resto che, nei rapporti tra le nazio
ni come in quelli tra le persone o le famiglie, solo chi è capace di prendere iniziative coraggiose e lungimiranti riesce a costruire qualcosa di positivo per se stesso e per gli altri.
È giustamente diffusa la preoccupazione perché viviamo in un mondo troppo conflittuale e troppo violento, ma permettetemi di dire che, senza l’opera quotidiana della Chiesa, la situazione sarebbe ancora più difficile. I nostri pellegrinaggi portano silenziosamente il loro contributo, piccolo o grande che sia, a quest’opera di riconciliazione e di pace, anche se i grandi mezzi di comunicazione non ne parlano e l’opinione pubblica non se ne rende conto. Proprio per questo è importante che almeno noi ne siamo consapevoli e trasmettiamo ai nostri pellegrini questa consapevolezza.
Ho il timore di aver caricato di obiettivi troppo ambiziosi e di eccessivi compiti il breve spazio di tempo nel quale si svolgono, quasi sempre, i nostri pellegrinaggi. Voi che ne avete un’esperienza ben più grande della mia saprete certamente distinguere tra ciò che è possibile e ciò che, invece, è soltanto velleitario. Vorrei però concludere chiedendovi di non sottovalutare il sostegno e il potenziamento reciproco che si danno l’una all’altra le tre dimensioni essenziali del pellegrinaggio, cioè la preghiera, l’evangelizzazione e la catechesi, la fraternità e l’attenzione ai più sofferenti. Vivendo, sia pure per pochi giorni, un’esperienza nella quale queste tre dimensioni sono simultaneamente presenti, il pellegrino riceve un nutrimento umano e spirituale che può sostenerlo a lungo.