Quello spazio, definito da Longhi “inaudito” per lo squilibro con le figura umana, raffigura lo squallore di un cortile carcerario (Federico Borromeno nel De Pictura Sacra consigliava, circa tale episodio, la raffigurazione del “teatro e orrido carcere”) entro il quale si svolge una scena niente affatto concitata bensì percorsa da una gravità ponderata in ogni gesto: dalla serva che avvicina il catino all’anziana che si comprime il volto, passando per il carnefice che indica indifferente la ciotola e il giustiziere il quale, terminato con lo spadone, sta sfoderando un coltellaccio per concludere la decapitazione.
Il centro della composizione è proprio questo corto pugnale, detto “misericordia”, usato per dare il colpo di grazia e probabile riferimento alla Confraternita chiamata anche Compagnia della Misericordia; un altro omaggio alla loro attività filantropica erano inoltre i due prigionieri impietositi che guardano da oltre una grata mentre il Battista, disteso a terra, sembra esalare l’ultimo respiro. Dal suo collo tagliato sprizza un rivolo di sangue che va a formare una scritta, l’unica firma di Caravaggio che sia mai comparsa su un suo dipinto e che di certo era dipesa dall’occasione e dall’importanza della commissione. La firma, “F(rà) Michelangelo”, non ritenuta originale prima dell’ultimo restauro, enfatizza la condizione del pittore che da lì a poco sarà ammesso nell’Ordine, anche se presenta significati traversi parimenti affascinanti. Calvesi a riguardo faceva notare come “segnare” nell’italiano seicentesco significasse segnare, sottoscrivere, ma anche cavar sangue, sanguinare, e segnarsi col segno della croce pertanto apporre la propria segnatura nella segnatura del santo poteva essere un modo per segnarsi col sangue, come ci si segna con l’acqua benedetta.
Naturalmente è suggestiva l’accezione dell’identificazione di Merisi con il santo decapitato e il ruolo di martire-vittima, mentre sulla sua testa pendeva ancora il bando capitale. Il carceriere con le pesanti chiavi in evidenza sulla cintura, che ricordano molto le chiavi pontificie di San Pietro, il quale sta facendo eseguire la condanna, potrebbe essere un altro riferimento alla sentenza di morte ricevuta a Roma dal Sommo Pontefice.
C’è poi la tecnica pittorica a sorprendere per la velocità e la versatilità dell’esecuzione; Bellori aveva scritto a riguardo “In quest’opera il Caravaggio usò ogni potere del suo pennello havendovi lavorato con tanta fierezza, che lascò in mezze tinte l’imprimitura della tela” ed effettivamente l’artista aveva usato uno strato preparatorio in ocra rossa e un secondo bruno scuro che aveva ampiamente impiegato non solo per ottenere effetti di trasparenza ma anche per completare i colori e le mezze tinte, mentre aveva adoperato pennellate di colore nero per aumentare il contrasto e il rilievo delle forme ottenendo un effetto quasi naturale di semi-oscurità che dovette impressionare per il realismo.
Vi è poi un profondo significato iconologico legato alle vicende dell’Ordine. Durante l’eroico assedio di Forte Sant’Elmo nel 1565 esso perse 200 uomini, in gran parte maltesi, e 122 Cavalieri. I comandanti turchi ordinarono che tutti i Cavalieri morti trovati nel Forte fossero decapitati e i loro corpi mutilati venissero crocifissi su delle tavole in tutto il “Grande Porto” verso i bastioni di Senglea e Birgu. I corpi recuperati e venerati come martiri, dopo la fondazione di Valletta, erano stati sepolti poi nel cimitero adiacente all’Oratorio e pertanto era palese il legame tra la decapitazione del santo dell’Ordine, il Battista, e il martirio dei Cavalieri, martirio sul quale tutti i novizi dovevano riflettere e pregare. A sottolineare questo legame, inoltre, nell’unica incisione che raffigura un’opera di Caravaggio in loco si nota, al di sopra della grande tela, una lunetta, oggi conservata nel refettorio di Rabat, raffigurante proprio il martirio dei Cavalieri a Forte Sant’Elmo. Era lo stesso de Wignacourt a riferire spesso questa espressione “spargere sangue per la Religione” (e San Giovanni di Caravaggio sta proprio spargendo sangue dal collo) poiché il sacrificio per l’Ordine era fondamentale e lo si può ancora intuire nella teoria di martiri e beati dei Cavalieri raffigurati da Mattia Preti in Cattedrale, sotto le storie del Battista. Quest’opera, come ricorda ancora Bellori, valse a Caravaggio “oltre l’onore della croce, […] una ricca collana d’oro [il] dono di due schiavi con altre dimostrazioni della stima e del compiacimento dell’operar suo” mentre il 14 luglio 1608, come visto, egli fu fatto Cavaliere.
Non si sa bene cosa successe nei tre mesi successivi. Sappiamo che il 6 ottobre del 1608 il Gran Maestro e il Venerando Concilio, su istanza del Procuratore di Giustizia, danno via alle indagini al fine di ricercare Michelangelo che, detenuto nelle carceri di Castel Sant’Angelo, era fuggito imbarcandosi su una nave. Il 1 dicembre si decide, in pubblica assemblea, l’espulsione del pittore dall’Ordine. La cerimonia della “privatio habitus” viene solennemente pronunciata “in absentia” proprio nell’Oratorio, davanti alla tela da poco realizzata, con queste parole “contra dictum fratrem Michaelem Angelum Marresi de Caravaggio” quale “membrum putridum et foetidum”. L’episodio deve essere avvenuto di certo dopo il 14 luglio: Baglione e Bellori parlano di una contesa con un cavaliere di rango superiore ma non chiariscono i motivi; di certo si trattava di un personaggio eminente che lo avrebbe perseguitato durante il suo successivo soggiorno in Sicilia e che lo avrebbe fatto aggredire a Napoli lasciandolo sfigurato e mezzo morto. Incarcerato nel forte di Castel Sant’Angelo, come previsto dai severi statuti dell’Ordine, il pittore era riuscito eroicamente a fuggire scalando le mura con una fune e, quasi sicuramente aiutato, forse dallo stesso Fabrizio Sforza Colonna e in segreto dal Gran Maestro, si era poi imbarcato alla volta della Sicilia.
Da qui inizierà la fase più tormentata e drammatica della sua vita, dopo l’anno maltese che tante soddisfazioni e riconoscimenti aveva procurato. Ma dicendo che Caravaggio era un “maledetto” si fa passare genericamente l’idea che il suo genio sia stato possibile “nonostante” la Chiesa, quando è l’esatto contrario. Caravaggio espresse benissimo i dettami della Controriforma inserendo nelle sue opere una carica di realismo e veridicità che non mirava ad una visione materialistica del mondo bensì cercava un coinvolgimento emotivo carico e intenso. Quell’intensità che aveva così sapientemente calibrato nel suo capolavoro di Valletta il quale giustamente il grande storico dell’arte Berenson paragonava ai grandi capolavori rinascimentali per l’austerità della composizione. E’ singolare pensare che proprio questo capolavoro, restaurato nel 1999 dall’Opificio delle Pietre Dure a Firenze, fu esposto, dopo l’intervento, nella Chiesa di Santa Maria del Carmine, a confronto con un altro capolavoro assoluto dell’arte nel quale l’uomo, forse per la prima volta, aveva assunto concretezza e presenza, La Cappella Brancacci.
La prima parte è stata pubblicata il 28 gennaio 2015.