E’ possibile disporre totalmente della vita umana? Quali sono i limiti degli interventi delle tecnologie biomediche? Il dibattito sulla fecondazione artificiale, se non addirittura la clonazione, è sempre vivo e vivace, in particolare nel momento in cui il Parlamento Britannico, come accade in questi giorni, decide di legalizzare un’innovativa tecnica di manipolazione genetica che è la cosiddetta “donazione mitocondriale”. La stampa l’ha presentata come “un figlio che nasce da tre genitori”. Le cose, semplificando, stanno esattamente così. Si prende del materiale genetico di un uomo e di due donne, una delle quali portatrice di difetti genetici, e in vitro si riesce a produrre un embrione che di fatto ha tre genitori. Si tratta di una tecnica sperimentata proprio in Inghilterra, nell’Università di Newcastle, e che lascia perplessi moltissimi scienziati, tant’è che negli Stati Uniti è stata proibita. Si teme infatti che le persone nate con questa tecnica, e che possono essere definiti “esseri umani geneticamente modificati”, possano avere malattie, possano avere più facilmente malattie neoplastiche e così via. Il Parlamento Britannico, con in testa il premier Cameron, ha tuttavia voluto questa legge pionieristica e spregiudicata, esito della cultura dominante intrisa di liberalismo e emotivismo etico: come si fa a negare un figlio sano a dei genitori che lo desiderano?
Di fronte a fatti come questo, urge una riflessione che deve essere antropologica, prima ancora che morale.
Dietro lo specifico episodio di manipolazione genetica, vediamo ancora una volta profilarsi il sogno (o l’incubo?) utopico di voler non tanto curare le malattie che affliggono l’uomo, ma reinventarsi completamente l’uomo stesso. Un’ipotesi, una sfida, che nella modernità dilaga in ogni aspetto della vita umana: la conoscenza, la morale, la politica, la ricerca scientifica, caratterizzata dall’abbandono della concezione dell’uomo quale essere dotato di una natura specifica e indirizzato verso un fine.
La sfida, in questa nuova visione, consiste nel Playing God, giocare a fare Dio. L’espressione inglese “playing God” è decisamente pregnante: to play non significa solo giocare, ma anche “interpretare la parte”, nel linguaggio del teatro e del cinema. Quindi potremmo tradurre “giocare alla divinità” o “fare la parte di Dio”. Essa richiama sicuramente a quel dibattito ormai quotidiano sul vero significato della difesa della vita e della sua dignità.
L’autodivinizzazione dell’uomo può riuscire a superare quei confini che già Faust aveva tentato? Ebbri delle nuove scoperte in campo biologico, i nuovi prometei esigono spiegare tutto ciò che è umano con la chimica, l’anatomia, la psicologia, analizzando geni, neuroni, ormoni e coscienze. L’uomo, in tal caso, non racchiuderà più alcun mistero. Non si tratterà più di conoscerlo, ma di ricostruirlo; ovvero di inventarlo o reinventarlo, anche se l’esito può essere mostruoso.
Lo stesso vale per la degenerazione utopistica di certa medicina, che anziché essere scienza buona al servizio dell’uomo si dedica a incubi scientisti come l’eugenetica, la fecondazione artificiale,la manipolazione genetica, la clonazione.
Il grande dibattito che oppone oggi due antropologie differenti non è quello tra scienza e fede, tra cui non esiste alcun contrasto, semmai divergenza di interessi, di mezzi e di fini, quanto quello tra scientismo e scienza. Scienza sì, scientismo no: questa è la posizione filosofica di chi crede, ma anche di chi è semplicemente aperto al dubbio e alla complessità della realtà. Di chi non vuole per forza sostituire le certezze religiose, rivelate, cui non aderisce, con presunte certezze di rimpiazzo, con surrogati improbabili e infondati, ma da presentare come rocciose sicurezze. La scienza, in realtà, nasce dal matrimonio tra il pensiero greco, tra la sua concezione di ragione, e l’idea biblica di Dio come Logos.
Che il mondo si presenti a noi ordinato, indagabile e comprensibile è la profonda intuizione della grecità. E che la sua intelleggibilità sia causata dalla sua Origine, né casuale, né caotica, ma Intelligente, è in termini simili, e più esaustivi, il cuore di quanto rivelato dal Libro della Genesi.
Se la medicina è un’arte, di prendersi cura ma anche di conoscere, di comprendere la natura e l’uomo, e non un semplice mestiere lo è proprio perché è chiamata, più che a risolvere, ad assestare creativamente equilibri divenuti precari.
La società contemporanea ha cercato di escludere l’idea della morte, così come la paura della vecchiaia, in quanto sono vissute come aspetti negativi, ed implicano una totale alienazione dalla felicità e dall’appagamento che sono, invece, prerogative proprie di una persona giovane.
Si è arrivati all’utopia della salute assoluta: un’ideologia che promette una condizione in cui i confini fra male e malattia, salute e salvezza, guarigione e redenzione diventano sempre più esigui. L’illusione dell’eliminazione di ogni malattia e della sofferenza, non solo del singolo individuo ma anche di tutto il genere umano. Una utopia che contraddice l’esperienza quotidiana del medico, ma anche di ogni uomo, che è quella della fragilità dell’esistenza umana: si possono trattare singole malattie, lenire sofferenze, ma malattia e sofferenza non possono essere eliminati completamente
Ma qui sta la differenza tra la Scienza autentica e lo Scientismo. Come tutti gli “-ismi”, anche lo scientismo è una degenerazione della parola originante. Si intende per scientismo quel particolare approccio alla realtà che implica che tutto sia misurabile, che rappresenta un approccio alla realtà puramente materialista, perché sostiene che esista solo ciò che è misurabile, e che, infine, tutto ciò che statisticamente sia normale diventi per ciò stesso normativo. Un riduzionismo etico che oggi è in gran voga. Si tratta, con tutta evidenza, di un uso ideologico,ossia non realistico, della scienza, e in quanto tale criticabile e, di fatto, criticato dalla stessa scienza. Concretamente lo scientismo riduce l’uomo ad una sorta di “macchina”, estremamente complessa ma pur sempre macchina.
Dalle radici profonde della Medicina intesa come prendersi cura emerge invece con chiarezza quello che è stato per duemila anni il compito autentico della Medicina: farsi carico, con piena consapevolezza, della sofferenza che incontra, della malattia e della morte, in tutte le circostanze.