Un cielo terso e un sole caldo che volge al tramonto accompagnano l’entrata del pubblico nella sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. Una luce che in poche città si può gustare. Il Gran coda Steinway padroneggia sul palco: strumento sublime ideato appositamente per il pianista Krystian Zimerman, l’unico pianoforte su cui posa le mani. Pochi sono i concerti che il Maestro polacco regala al suo pubblico, magistralmente curati nei minimi particolari da uno staff eccellente, eppure a ogni evento sembra che anche cielo e terra risentano dell’arrivo di un uomo dal carisma magnetico e mistico.
L’attesa del Maestro in Capitale per il 22 ottobre 2014, data poi rinviata per presunti problemi di salute, ha ulteriormente caricato le aspettative del pubblico, finalmente soddisfatte martedì, quando l’Urbe ha ospitato senza dubbio l’evento musicale dell’anno.
Le ultime tre sonate per pianoforte di Ludwig van Beethoven op. 109, 110, 111 rappresentano una sfida più interpretativa che tecnica, dove l’elemento spirituale e filosofico supera il mero virtuosismo se pur presente in dosi massicce. Siamo in una terra di mezzo, su quell’ultimo ponte che solo il genio può immaginare e provare a raccontare. A parere della storiografia musicale, si tratta soltanto di opere che aprono a nuovi scenari musicali, tuttora studiati e approfonditi e del superamento di storiche forme musicali. Non solo questo. Le ultime Sonate beethoveniane sono il racconto di un uomo di fronte all’interrogativo ultimo di cosa sia il vivere. Un uomo in continua ricerca materiale e spirituale. Un uomo consapevole che tutto porta scritto “più in là”. Ecco: la 109, la 110 e la 111 sono le Sonate che interpretano quest’orizzonte. “Più in là”, come tecnica del pianoforte e della composizione. “Più in là” come concezione delle parti, del fraseggio, dei respiri e della costruzione. “Più in là” come ricerca del suono. Zimerman possiede tutte le chiavi per stare di fronte a dei giganteschi momenti come queste Sonate. La semplicità. Una lettura pulita, senza falsi infingimenti, sovrastrutture o affettati atteggiamenti. La coerenza, nel creare un unicum sonoro, d’agogica e interpretativo tra le tre opere. Il cuore. Per vibrare come sicuramente ha vibrato Beethoven quando le ha composte. Il Pianista polacco non delude le attese e si lancia nell’esecuzione di questi tre capolavori assecondando il fluire della musica: gli sbalzi d’umore, il contrappunto fugato, i ritmi e le dinamiche. Il Maestro non pone l’attenzione su di sé ma sulla musica. Non basta una vita intera per penetrare questi capolavori. Il Pianista polacco lo sa bene, tanto da eseguire raramente questo programma e non a memoria. Troppo. Troppo tutto insieme. Anche per un Pianista che ha suonato con tutti i più grandi. In verità la grandezza di un musicista è direttamente proporzionale alla sua umiltà. Allora si esce dalla penombra dell’Auditorium, le sole luci dei lampioni e dei locali vuoti e i trilli dell’Arietta della Sonata Op. 111 che risuonano ancora: a noi non resta che far silenzio.
[Fonte: http://www.tempi.it/blog/le-sonate-di-beethoven-secondo-zimerman#.U4DPFq7j5D1]