E’ stato appena pubblicato dai Musei Vaticani il libro “Michelangelo da Caravaggio che fa a Roma cose meravigliose”, a cura di Alessandra Rodolfo.
All’interno del libro c’è la riflessione del prof. Rosario Giuffrè con il titolo “Parlando con Michelangelo Merisi da Caravaggio, facendo domande e ricavando risposte”. Rosario Giuffrè è un noto e valente architetto e accademico romano.
Il capitolo inizia con la citazione di Pau Ricoeur “È necessario che l’uomo moderno stringa un nuovo patto fra tecnica e poesia e accetti di essere progressista in politica e arcaico in poesia». Segue la riflessione scritta dal prof. Rosario Giuffrè
Non è consentito a me, dilettante in tante scienze, dialogare con Caravaggio, dopo tanti illustri precedenti e tante approfondite e mature disanime sul complesso della figura del nostro artista: mi mancherebbero gli strumenti, le tecniche e le metodologie adeguate, forse mi resterebbe un minimo di spirito poetico, sperando che proprio la bell’anima del Merisi mi aiuti almeno a un coerente monologo.
Progressista in politica significa essere in condizione di riconoscere le tecniche d’analisi attuali e compatibili, arcaico significa per me non aver timore di rispolverare sentieri d’altri tempi, ma sempre personali.
Avere cioè il coraggio di contrastare proprio il Ricoeur sull’aforisma che ogni simbolismo è un memoriale: ma la memoria è lotta contro l’oblio, con cui si avvolgono nel sidereo gli artisti, se ritenuti grandi. Lo strumento del colloquio, invece, del dialogo (avrebbe detto Guido Calogero, sollevando la necessità che il logo è esso stesso dialogo, se è, come è per noi Gesù) rappresenta un memoriale contro l’oblio.
Allora il simbolo, anzi la serie di simboli ripercorribili nel nostro, hanno memoria, anzi come lo stesso filosofo poi concorda, è esso stesso memoria.
E io, modestamente da dilettante impunito, desidero provare a raccontarvi come il simbolo Caravaggio è memoria e significati in progress.
Tutto sommato, devo dichiarare che il rapporto fra il quadro e l’osservatore è indipendente dall’aspetto critico-filologico e da quello della ricollocazione biografica e neo-contestuale.
Messi di fronte alle opere, è indubitabile, siamo portati a interiorizzare la comunicazione, anche se possediamo pensieri e strumenti, cosiddetti scientifici.
Peraltro, nonostante le complesse vicende della sua vita, la tragica disperazione del suo essere nelle relazioni con i terzi, il suo linguaggio, la sua smania non è un esistenziale gridare verso la incomprensione del mondo: anzi è un riaffermare, sembra strano, una diversa forma di ottimismo, forse malinconico, ma proiettivo.
Il normale poetico diviene commedia nuova, non terza cantica, né denuncia peccaminosa della prima, e neppure disegno di attesa, di luce intravista della seconda, non si avverte in nessun quadro (ma è una locuzione che non mi piace perché riduttiva) una strategia dantesca.
La sua è poesia, brano dopo brano, hic et nunc, al contrario mi appare forse come l’unica e penetrante lettura interiore della Riforma tridentina, senza tuttavia alcun ritorno macerato in se stesso, né moralizzante misticismo, anzi quasi una dichiarazione di fede sociale come si andava costruendo in quel secolo glorioso di tanti santi, contemporaneamente presenti in Roma, e con diverse intuizioni, intenzioni e poetiche, a partire da Ignazio e finire a Filippo.
Tutto sommato i suoi personaggi guardano di traverso la realtà e le persone intorno, quasi lo stesso sguardo indagatore con cui si affaccia alle nuove menti la nuova scienza, e provoca crisi in grandi menti e grandi artisti, in fertili santi e incoscienti reggitori.
Il modulo delle sue “istantanee”, così immagino di poter definire le sue azioni pittoriche, si fonda su di un tracciato geometrico che non è più quello medioevale della piramide, né quello umanistico rinascimentale classico del chiasma, ma quello della retta, linea di fuga unica di figura e di luce, un retta che ha forza di verso, anzi vettore di informazione univoca e lettura indotta all’osservatore. In fondo è il periodo in cui nasceva il calcolo derivato e differenziale, la struttura musicale costruita non su di un solo tono, monocromaticamente, in cui a Venezia maturavano i presupposti per l’affermazione delle teorie dei fratelli Gabrielli.
Così, nelle sue tele, non c’è più il fuoco unico, il centro della scena, ma una corrente dinamica che trasporta i personaggi e le significazioni, la luce e la lettura e l’ombra, diritto alla drammaticità dell’evento, oltre il simbolo, oltre la parola stessa, sia essa detta o rappresentata.
D’altra parte quella di Caravaggio è una lingua di parole sintatticamente collegate e ordinate, ma con criteri grammaticali conseguenti, non classicamente correnti, una sorta di strana perdita dell’unità di tempo e di luogo.
Il suo colore non è quello della tradizione, né quello delle simbologie comuni, ma è idiosincratico, ribelle, eppur luminoso e denso di fede, come l’interiorizzazione del suo cristianesimo mai abbandonato, mai rinnegato, sempre tormentato fra l’ubbidienza e la ribellione, un persistere delle duplicità di figura come nel Ludovico, poi Frà Cristoforo, manzoniano.
Di fronte a sue rappresentazioni oggi in Vaticano come in Sant’Agostino, o a Malta come a Napoli, a uno sprovveduto come me, sfugge ogni possibilità di far collimare i corretti dati iconografici e le multiformi realtà iconologiche.
E a ben ripensarci non è il fermo immagine della cinematografia verista o neorealista italiana, ma la efficace sovrapposizione di una sequenza di fotogrammi, un dialogo sul terreno del reale fra la velocità del futurismo e la geometrica scomposizione del cubismo, anche sul piano cromatico rincorrere lungo la penisola, oltre il mare, o ci aspetta per le strette e ombrose vie dell’urbe secentesca, e ci colpisce con il ferro a doppio taglio, della tecnica e dell’introversione.
Sarà lombardo milanese, sarà lombardo bergamasco, sarà entro il tempio della pittura lomazziana, o sarà colpito dalla luce romana cinquecentesca, come i protagonisti in San Luigi, o Santa Maria del Popolo, dall’entrata in scena di Cristo che diviene luce fisica diretta e tormento dell’anima, poco importa: alla fine è solo la forma del suo comunicare, che si apre a ogni interpretazione d’osservatore.
Potremmo dire che vi è un tempo nel quadro, già frutto di mediazioni seriali dell’autore, e altrettanti tempi degli osservatori: allora la scomposizione non è figurale ma conoscitiva, e la comunicazione non è significante ma interpretativa per ciascun soggetto. Sorprende solo il fatto che in ogni modo ci trascina in un’avventura in cui la Fede, che può apparire negata, sempre riemerge. Non è quella allineata con test catechistici, ma è pur forte e conturbante, interrogante con veemenza, quasi gridata perché pensa che non sia ascoltata.
A volte, soffermandosi su una tela o ritornandovi con altro spirito, quasi appare che il Merisi si diverta a parlarci per ossimori, o forse per assurdi, come chi ci spinge sull’orlo di un abisso, invitandoci al suicidio, e poi ci tiene ben legati sulla terra ultima dello strapiombo. Surrealisticamente, ma solo per effetto di sublimazione di incanto, tornano su altri registri e su altre cromie, le irrisioni di tanti fiamminghi, parti storpie di un’umanità, in loro fisicamente rappresentate, psicologicamente lette e date con forza in pasto all’osservatore, sempre più meditabondo, e sempre più trascinato ad interpretare.
Solo, anche lui sorpreso da una luce tagliente che ci fa dire: a me?
Quello di Caravaggio, in fondo, è una pittura dell’assurdo, per le tante contraddizioni interne, come accade alle menti geniali (come si sosterrà nel pieno della cultura romantica tedesca) così che si potrebbe concordare con l’aforisma dei Carnets di Camus, che «l’assurdo rivela all’uso un principio di soddisfa
zione che lo nega».
C’è dunque un vero e un falso assurdo, e da quest’ultimo si può evadere, con molte contraddizioni, quasi ossimori che sono, a ben vedere, sempre riscontrabili nelle sue rappresentazioni.
Il vero assurdo è uno stato d’animo in cui la tensione fra uomo, mondo e assurdità di questo, viene eroicamente mantenuta: né troncata dalla scomparsa del soggetto che, invece di scegliere il suicidio, porta, continuando a vivere, testimonianza all’assurdo, e lo vive tormentosamente in sé, come avrebbe duramente osservato nel suo Sisifo Albert Camus.
Non a caso, sin dalle prime opere si avverte una sorta di concitazione, quasi che da giovane avesse necessità di esprimere nel modo più rapido e intenso la sua poetica, un’esperienza vitale che temeva di avere poco futuro (che precognizione!), espressione di una malattia spirituale, che gli faceva esaltare la corposità e il colore, mentre dentro soffriva del mal de l’esprit, di rivolta al mal du siècle, che cercava esperienze ideologicamente concrete da uomo superiore razionale.
Così restiamo soli, di fronte all’accumulo sinergico di problemi, di pensieri, di iconoclastie, di rottura di schemi in un altissimo grido di fede, a recitare un monologo, e ci sforziamo di provare a sentire risposte, di allargare la base del nostro conoscere, supponendo che sia la sua carenza a non consentirci di registrare risposte che, stavolta, pur ci sono.