Cominciamo dagli USA. L’analisi la effettuiamo sul rapporto debito tra il debito delle famiglie, delle imprese e dello Stato ed il PIL. I dati sul sito della Federal Reserve evidenziano che tale rapporto evidenzia un’impennata a partire dal 1981: mentre dal dopoguerra fino ai primi anni ‘80 tale rapporto si mantiene stabile intorno al 120, esso esplode negli anni ‘80 fino ad arrivare al 250 intorno al 2008. Nella sostanza le famiglie americane si sono sempre più indebitate.
Il fenomeno, purtroppo, non ha coinvolto solo gli USA, ma anche molti Paesi dell’Occidente.
Ritorniamo adesso al nostro esame. La serie storica dei dati sopra riportati ci mostra come nel tempo sia cresciuto il rapporto debito/Pil. Ciò evidenza che nel susseguirsi degli anni il Paese nel suo complesso (settore pubblico e privato) ha contratto maggiori debiti, ovvero, ha peggiorato la sua situazione finanziaria. Ciò ha avuto quale immediata conseguenza l’impoverimento delle casse statali, non bilanciato da un parallelo incremento generato dalla crescita, che si è mantenuta al di sotto delle aspettative e quindi non è stata in grado di coprire i deficit generati dalla spesa pubblica. Gli Stati nazionali sono stati spinti, quindi, all’indebitamento verso il sistema bancario.
Lo scarso budget statale disponibile ha avuto, come ulteriore conseguenza, la riduzione degli investimenti pubblici e della spesa della parte della popolazione più povera, che si è contratta o è stata sostenuta con il ricorso all’indebitamento bancario.Il risultato macroeconomico complessivo è stato un aumento dell’indebitamento generalizzato delle famiglie, delle imprese e dell’operatore pubblico nei confronti del sistema bancario.
Un inciso. La politica fiscale che promette basse tasse è stata sostenuta dalla generalità dei cittadini. I sondaggi dimostrano, però, che lo stesso cittadino – tenacemente contrario all’incremento delle tasse – ritiene che saldare il deficit pubblico sia il problema prioritario. Questo atteggiamento, in apparenza contraddittorio, e’ in realtà perfettamente coerente con la convinzione radicata del cittadino medio, che i governi non sappiano gestire le finanze pubbliche e che vogliano far pagare ai cittadini i propri sperperi.
Inoltre, l’analisi delle tipologie di reddito che hanno maggiormente contributo alle casse dello Stato mette in luce un’ulteriore questione.
Com’è noto, gran parte del mondo applica una imposta personale sul reddito ed una, indiretta, sui suoi acquisti. Negli USA, in particolare, il principio è sempre stato quello di favorire gli investimenti, in particolare sostenendo gli acquisti. Pertanto l’imposta sul reddito è di fatto quella che ha fornito gran parte degli introiti, mentre quasi tutti gli acquisti che contano non sono tassati per nulla, o addirittura possono essere dedotti dall’imponibile (come la casa).
Dalla presidenza Reagan in poi, i repubblicani hanno continuato a cercare una “formula magica” che consentisse di continuare a pagare le enormi spese del governo americano ed al tempo stesso riducesse le tasse pagate dai cittadini e, in particolare, da quelli più abbienti.
La rivoluzione fiscale proposta dai repubblicani negli anni ’90 ha avuto come obiettivo dichiarato quello di semplificare se non altro i conti: un’aliquota uguale per tutti.
Ciò ha ridotto il potenziale di acquisto delle classi più povere della società, favorendo la commercializzazione di prodotti di bassissima qualità e costo, normalmente di importazione. A ciò si è accompagnato l’idea di favorire l’impiego in capitale finanziario, con l’idea che esso, affluendo al mondo delle imprese, finisse per finanziare gli investimenti delle imprese stesse. Viceversa, la realtà ha dimostrato che si è creata una economia di carta che ha tratto reddito dal settore finanziario stesso, come il mercato dei derivati si è curato di provare.
La moda americana ha attecchito in particolare in Europa, dove si è avuta una peculiare interpretazione. In definitiva, mentre i redditi provenienti dal lavoro dipendente, privato, imprenditoriale sono rimasti sostanzialmente tassati con aliquote progressive, i redditi provenienti da capitale mobiliare hanno goduto un po’ ovunque di trattamenti di favore. L’enorme gap tra tassazione dei redditi da lavoro con quelli di capitale, ha spinto al rialzo le borse valori, ma il denaro recuperato non sembra aver determinato particolari benefici alle economie di tali paesi. In generale, infatti, si è evidenziato un impoverimento delle popolazioni ed un ampliamento della forbice tra ricchi e poveri.
La soluzione?
Non sono pochi coloro che ritengono necessario una nuova politica fiscale di redistribuzione della ricchezza che premi il lavoro e colpisca i grandi patrimoni finanziari, innanzi tutto, eliminando le condizioni di favore di cui gode attualmente il reddito dal capitale finanziario e girando i proventi al sostegno dei redditi da lavoro e d’impresa.
Per tale via, si ritiene, verrebbero stimolati i consumi delle famiglie a basso reddito, notoriamente con un’altra propensione al consumo, si darebbe certezza al pagamento dei mutui immobiliari sottoscritti (adesso messo in forse dalle numerose sofferenze che le banche si trovano a contabilizzare) e si restituirebbe forza alle imprese che producono per il largo mercato, le uniche in grado di assorbire forza lavoro.
Si avvierebbe conseguentemente un circolo virtuoso che ci porterebbe alla ripresa dell’economia.
È, quello descritto, un semplice esercizio teorico di economisti post-keynesiani alla ricerca di un momento di notorietà, dopo anni di emarginazione? E quale sarà la reazione dei capitali finanziari liberi di circolare per il mondo contro il Paese reo di punire “il capitale finanziario”?
Per molti si tratta dell’ultima spiaggia, di una scommessa che non possiamo non fare, atteso che è di palese evidenza il danno che le politiche fiscali finora adottate nella generalità dei Paesi occidentali hanno determinato.
Enea Franza è Responsabile dell’Ufficio Camera Conciliazione ed Arbitrato della Consob (Commissione nazionale per le società e la Borsa)
(la prima parte è stata pubblicata ieri, 9 maggio 2014)