"Riconoscere il Messia laddove il mondo non vede che morte e dolore"

Commento al Vangelo di domenica 2 febbraio, Festa della Presentazione al Tempio di Gesù

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Siamo figli della Pasqua, e per questo primogeniti. La Presentazione al Tempio di Gesù ci svela la nostra identità, il senso di tutto quanto ci accade: “Quando tuo figlio domani ti chiederà: Che significa ciò?, tu gli risponderai: Con braccio potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto, dalla condizione servile ” (Es, 13). Queste parole sono la risposta ad ogni “domani” sorto nella storia di Israele e della Chiesa, il “domani” sorto dalla notte di Pasqua.

I primogeniti sono la primizia dell’opera di Dio, “il segno di contraddizione offerto il mondo, perché siano svelati i pensieri dei cuori”, e risplenda sulla terra la Verità che il demonio, come il faraone, tenta di occultare. Sui primogeniti riverbera la luce che brilla sul volto di Cristo: ciascuno di noi è la risposta che Dio rivela all’umanità, il segno del suo amore nascosto tra le lacrime che bagnano la storia.

Quanti “che significa ciò?” intorno e dentro di noi! “Che significa tutto questo?”: questa mia storia senza capo né coda; questa malattia che s’è portata via mia madre a soli quarant’anni; questo incidente che mi ha strappato mio figlio mentre si affacciava alla vita; questa crisi economica che dissangua la mia famiglia; il tradimento di mio marito; questa depressione che mi inchioda in casa; la bulimia di mia figlia, impazzita dietro ai social e alle diete; e le ingiustizie patite, il dolore innocente, le guerre, i terremoti, il male.

“Che significa ciò?”, non comprendo… E la tristezza soffoca i giorni nella delusione e nel disincanto, l’ira strattona lingua e mani, e la violenza sgorga indomita a macchiare indelebilmente relazioni e sentimenti. 

Tu gli risponderai…” così: Dio ha fatto uscire dalla tomba suo Figlio, ha vinto il male, il peccato e la morte. Tu gli risponderai con la tua vita, crocifissa con Cristo e con Lui risuscitata. La Chiesa è il segno del braccio potente del Signore, capace di liberare dalla condizione servile nei confronti del demonio, dalla schiavitù alla paura della morte.

Quel “tu gli risponderai” giunge oggi diritto al nostro cuore; quel “tu” si fa “io” nel mistero che oggi celebriamo. Gesù, un bambino di appena quaranta giorni, è condotto al Tempio per essere offerto al Signore. Il Figlio di Dio, apparso per pura grazia nel seno della Vergine Maria, è ufficialmente e pubblicamente consegnato a suo Padre. Dio gioca a carte scoperte, sin dall’inizio.

Gesù è il primogenito perfetto sacro al Signore, tutta la sua vita sarà un cammino verso il compimento della missione affidatagli. Così anche tu ed io, la Chiesa. Per un’insondabile condiscendenza del cuore di Dio, fin da prima della nascita siamo stati eletti e poi, con il battesimo, siamo stati presentati al Tempio, la vita non ci appartiene, è di Cristo, e di ogni uomo che non lo conosce.

Per questo è necessario tutto quello che ci accade, e, come accadde a Giuseppe,  il male deve raggiungerci e portarci in Egitto. Secondo i rabbini, la schiavitù in Egitto è stata causata dalla malvagità dei fratelli di Giuseppe che lo hanno venduto per invidia. Il midràsh ci spiega che il prezzo del riscatto dei primogeniti fu fissato dalla Torà in base al denaro ricevuto dai fratelli per la vendita di Giuseppe: “E vendettero Giuseppe per 20 denari… perciò ciascuno di voi dovrà dare per il riscatto di suo figlio cinque Selaìm” (Ber. Rabbà 84, 18).

La sapienza di Israele vede nell’offerta dei primogeniti un legame stretto con il peccato. I primogeniti divengono così il segno del riscatto di Giuseppe: il braccio potente del Signore rivela la sua misericordia che perdona riscattando i discendenti di Giacobbe caduti in schiavitù. Gesù, come Giuseppe, è stato venduto per poche monete, e così crocifisso, ucciso e sepolto nella tomba. Ma Dio lo ha riscattato dalla morte, primogenito di molti fratelli, il segno che contraddice per sempre il peccato e la morte.

Così, in Lui, l’offerta della nostra vita è il sigillo della misericordia che Dio depone in questa generazione. Siamo la prova e la memoria del suo amore. La nostra vita è stata riscatta da Cristo, come una primizia per ogni uomo. Sei un primogenito della libertà, lo sapevi? ecco la risposta di Dio al male: i primogeniti offerti in sacrificio perché nel mondo operi la vita

La parola ebraica che definisce il “primogenito” deriva dal radicale bkr che significa “portare frutti primaticci “. Siamo chiamati a portare i primi frutti annunciati dal Cantico dei Cantici, i frutti dello Spirito Santo, l’amore capace di lasciarsi crocifiggere, i segni della fede adulta. Per essere fecondi abbiamo però bisogno, come Gesù, che il seme della primogenitura diventi un albero, e non sia calpestato e perduto.

Abbiamo bisogno di stare a Nazaret con la nostra famiglia, la comunità dove “lo Spirito Santo sia sopra di noi” e “cresca e si fortifichi” l’uomo nuovo “pieno di Sapienza”. Ci attende, infatti, il compito più importante assegnato dal midrash al primogenito, quello di esercitare il culto sacerdotale (Ber. Rabbà 63, 18).  

La nostra vita di primogeniti è una liturgia da servire come sacerdoti santi. Per questo la festa di oggi è immagine di ogni nostro giorno: come Simeone, “siamo nella Gerusalemme” che Dio ha pensato per noi; la vita è il Tempio dove pregare e digiunare, nell’attesa quotidiana di “vedere” il Messia. In ogni circostanza, infatti, Gesù è presentato a noi perché, “vedendolo e abbracciandolo”, possiamo annunciarlo al mondo.

Hai visto tua figlia? Neanche ti ha parlato, vero? E quel collega? Ha sparlato di te al dirigente, vero? E il vicino di casa? Ti ha denunciato per una stupidaggine, vero? Ecco, in ciascuno di loro, come nel mal di denti o nella macchina rotta, nel traffico e nella fila alla Posta, ovunque e in chiunque è vivo un Bambino che è Dio. Non è facile riconoscerlo, lo sappiamo bene… E’ più facile rifiutarlo, d’altronde un bambino può essere Dio?

Eppure anche oggi lo “Spirito Santo ci muove” a stare dove Dio ci ha messo per vivere nel “timore” di Dio e nell’ “attesa del conforto di Israele”, “servendo Dio giorno e notte, pregando e digiunando”. Per questo sapremo riconoscere il Messia laddove il mondo non vede che morte e dolore. Per questo, anche se “una spada ci trafigge l’anima”,  la nostra vita che “va in pace” nella storia difficile che tutti sfuggono, riflette la “luce che illumina le genti”.

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Antonello Iapicca

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