In diversi articoli si era già sottolineato che sarebbe stata prossima una nuova bolla finanziaria nei paesi emergenti e il rischio di una guerra valutaria valutaria che avrebbe contribuito ad una nuova tempesta perfetta. Le previsioni si avverate: venerdì scorso c’è stato un brusco calo delle borse dei paesi emergenti che hanno coinvolto anche le altre borse mondiali. Tra i paesi emergenti quelli che più hanno sofferto sono stati: Argentina, Turchia, Cina, India, Russia, Brasile e Sudafrica. Ovvero i paesi che avevano trainato la crescita economica globale dopo il 2008 e che ora potrebbero essere contagiati dalla crisi.
I dati di questo pesantissimo tracollo delle monete e borse sono impressionanti nella loro grandezza. Uno studio di due giornalisti del Il Sole 24 Ore ha quantificato in oltre 500 miliardi di euro i capitali “usciti” dai mercati emergenti in meno di tre settimane: se allarghiamo la lettura agli ultimi 6 mesi, la fuoriuscita dai Paesi asiatici e latino-americani a quelli occidentali è nell’ordine dei trilioni, cioè migliaia di miliardi.
Se confrontiamo questo “tsunami finanziario”, la discesa delle Borse americane ed europee nelle ultime due giornate sono insignificanti: difatti la borsa di Wall Street è ancora in pieno record, gli indici azionari europei ancora vicini ai massimi di 5 anni e con i Titoli di Stato dei Paesi più deboli dell’Eurozona lontani dai livelli di rischio di due anni fa.
Le cause endogene di questa ennesima bolla sono diverse per ogni singolo paese: il problema della Russia riguarda il business climate (corruzione, ingerenze politiche e quant’altro), la Turchia paga la corruzione che ha coinvolto in una spirale negativa anche l’economia. Questa instabilità ha scatenato la speculazione contro la lira turca che è ai minimi storici. Poi ci sono le promesse mancate che si ripetono dei paesi latinoamericani, pagate a caro prezzo dalle popolazioni dall’Argentina al Brasile.
Sono questi i boom economici effimeri prodotti delle illusioni di una ricchezza facile che quando passa lascia macerie e risentimento sociale e instabilità politica. Il Brasile ha un grande problema con l’inflazione, la corruzione e l’eccessivo peso delle politiche statali; l’Argentina è afflitta ancora una volta da un possibile fallimento economico e politico. La Banca Centrale argentina ha rinunciato a difendere la moneta ed il peso è crollato ai minimi sul dollaro, evocando con la fuga dei capitali, l’inflazione e il disagio sociale dilagante, i fantasmi delle rivolte di un decennio fa quando – dopo il default del debito pubblico e l’abbandono della parità peso-dollaro – le strade si riempirono di cartoneros, i raccoglitori di cartone e la povertà e la sofferenza sociale dilagarono.
Anche nella crisi argentina, la politica ha un ruolo determinante: dopo un rimpasto di governo l’anno scorso è seguito un crollo del peso del 25%. La presidente Cristina Kirchner è stata assente dalla scena tre mesi per un’operazione al cervello. L’India paga la bassa produttività e la bassa domanda intera, la Cina è il vero pericolo mondiale: al rallentamento economico si aggiunge un sistema bancario ombra (scado banking), di cui nessuno conosce la portata. Ma preoccupa anche la voragine del debito degli enti locali che sta erodendo il sistema creditizio, inclusi giganti come Icbc e China Trust.
Seguono le cause strutturali, la riduzione del tapering (l’immissione della liquidità della Fed – la Banca Centrale Usa), con il conseguente aumento dei tassi d’interesse Usa hanno alimentato il deflusso dei capitali dagli emergenti. Il rallentamento della crescita cinese avrà conseguenze dirette su tutto il mondo ma in primo luogo sui paesi emergenti forti esportatori di materie prime; i prezzi record raggiunti dal mercato azionario rispetto a quello obbligazionario e la diminuzione dei profitti aziendali, sembrano aver fornito ai cosiddetti hot money (speculatori) quel motivo concreto e credibile per avviare una decisa correzione di rotta.
Grazie alle politiche accomodanti delle Banche centrali Usa, Inglese, Giapponese e Cinese, gli hot money sono aumentati notevolmente in quantità e volume. In altre parole il denaro immesso nel mercato dalle Banche centrali, invece di andare ad alimentare le economie reali occidentali in crisi, è finito negli strumenti finanziari che gli speculatori hanno utilizzato negli ultimi cinque anni per investire, o meglio speculare, nei mercati emergenti. I governi dei paesi emergenti sapevano bene che queste montagne di denaro facile un giorno avrebbero invertito la direzione di marcia e hanno fatto poco per indirizzarli in investimenti infrastrutturali.
Si può dire che ci si trova davanti ad una terza fase della crisi finanziaria globale (dopo quella negli Usa e quella europea): ora tocca ai paesi deboli, dal punto di vista economico e soprattutto politico. Basta osservare i disordini in Turchia, Egitto, Pakistan, Ucraina, Grecia, Venezuela, possibili anche in Brasile, Argentina, Russia, Ungheria, Italia, Spagna e anche in Cina. Questa situazione preoccupa anche il governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, che nelle ultime settimane non ha perso occasione per ribadire un concetto fondamentale: la BCE farà “tutto il necessario” per difendere i paesi deboli dell’Eurozona. Per non rimanere coinvolti in questa tempesta, essi dovranno fare le riforme strutturali di cui da tempo si parla e dare vita a politiche di sviluppo concrete.