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Che cosa intendeva dire Calabresi quando parlava di “manovali di sinistra e cervelli di destra”?
Luciano Garibaldi: Aveva capito che a sostegno delle azioni violente e delle campagne propagandistiche delle varie organizzazioni estremiste, sia di destra, sia di sinistra, c’era chi pagava, perché – come diciamo noi genovesi – “sensa palanche nu se fa ninte” (“Senza soldi non si fa niente”). E chi poteva avere interesse a finanziare e mantenere in piedi strutture complesse e costosissime come Lotta Continua, Potere Operaio, i CoCoRì (Comitati Comunisti Rivoluzionari), i FoCoCò (Formazioni Comuniste Combattenti) e diecine di altre sigle, capaci di attirare diecine e forse centiania di giovani? Evidentemente, chi sapeva che, dalla “strategia della tensione”, avrebbe potuto ricavare un deciso spostamento della politica italiana verso la destra conservatrice: ovvero, rottura definitiva di ogni apertura a est (Russia, tramite il PCI) e rafforzamento dell’influenza atlantica (ovvero Stati Uniti d’America) sul nostro Paese. Questa strategia finì per vincere la partita, allorché finalmente Berlinguer e il PCI si resero conto dei danni che le formazioni sovversive stavano causando all’ideologia comunista e decisero di schierarsi con la legge, dando il via libera al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che diede inizio alla grande repressione con l’irruzione, nel 1979, del covo di via Fracchia, base centrale della colonna genovese delle Brigate Rosse.
Quali le ragioni della colossale campagna di aggressione contro il commissario Calabresi? Rappresentava davvero una minaccia? E nei confronti di chi? Oppure è caduto vittima in maniera casuale della follia ideologica collettiva che alimentava quegli anni così violenti?
Luciano Garibaldi: Per quanto ho capito, le ragioni vanno ricercate nella pavidità delle istituzioni e nella irresponsabilità delle frange di sinistra del giornalismo. Insomma, i colpevoli del calvario di Calabresi, del vero e proprio linciaggio cui fu sottoposto per oltre due anni, prima di essere assassinato quel 17 maggio 1972, sono da ricercarsi prima di tutto all’interno del governo Rumor, e in particolare del ministero dell’Interno, che non senti l’elementare dovere di schierarsi al fianco del giovane commissario, ma lo lasciò solo a dare inizio ad un processo per diffamazione soltanto verso il periodico “Lotta Continua”, mentre avrebbe dovuto fornirgli i migliori avvocati sulla piazza per querelare quotidiani come “L’Avanti”, “l’Unità” e “Paese Sera”, e settimanali come “L’Espresso”, per non parlare di uomini di teatro come Dario Fo, che aveva scritto, e rappresentava nei teatri, contro di lui (rinominato “commissario Cavalcioni”), la commedia “Morte accidentale di un anarchico”. Per non parlare del “manifesto degli Ottocento”, che definiva Calabresi “commissario torturatore” e “assassino di Pinelli” e che ottenne le firme di tutta l’intellighenzia nazionale, buona parte della quale occupa ancora, le tribune più potenti e più strapagate del giornalismo, della cultura, dello spettacolo, delle Università, dei centri di ricerca, del teatro, della TV, dell’editoria, del cinema. Una vergogna per l’Italia.
L’uomo che più di ottocento intellettuali hanno indicato come un assassino, ha ricevuto la Medaglia d’Oro al Valore civile alla memoria dal Presidente della Repubblica Azeglio Ciampi il 14 maggio del 2004. Per le sua qualità umane e per i principi cristiani a cui si rifaceva, qualcuno ha proposto l’apertura di un processo di beatificazione. Chi era veramente Luigi Calabresi: un commissario dalla maniere forti oppure un eroico difensore della dignità degli uomini, un cristiano serio e coscienzioso che svolgeva un lavoro difficile?
Luciano Garibaldi: Per rispondere a questa domanda, mi rifaccio a quanto disse, dopo la sua morte, il suo padre spirituale don Ennio Innocenti, in seguito autore della proposta di apertura di un processo di beatificazione del commissario, in considerazione delle sue virtù cattoliche: «Approfondì la sua cultura religiosa», disse don Innocenti, «e partecipò fervidamente a gruppi di giovani e di adulti che si riunivano, con periodica puntualità, a meditare la Sacra Scrittura. La sua frequenza ai Sacramenti diventò quella ideale e la sua vocazione al matrimonio fu perfettamente orientata. Fu seriamente preoccupato per la scelta della professione e fui proprio io a incoraggiarlo per la carriera di polizia, essendo anche questa una importante struttura dove i cristiani devono agire come buon fermento. (…) Da Milano spesso mi telefonava e mi scriveva ed io notavo in lui l’evidenza di una straordinaria crescita di serenità, di spirito di sacrificio e di purezza di intenzioni. Qualche mese fa lo chiamai: gli raccomandai, per la difesa della famiglia e del suo ufficio, una prudente cautela per difendersi efficacemente contro i male intenzionati, ma mi sentii replicare ch’egli girava sempre disarmato e che non intendeva prevenire la violenza con la violenza, quando in causa fosse solo la sua persona. “Preferisco affidarmi solo a Dio”, mi disse».
Lei ha seguito tutte le fasi del processo e della condanna dei mandanti e colpevoli dell’assassinio di Luigi Calabresi. A conclusione di questa vicenda quali sono le sue considerazioni?
Luciano Garibaldi: Sono chiaramente esposte nell’ultimo capitolo del mio libro, il capitolo che ha per titolo: «Dieci italiani sanno chi ha ucciso Calabresi”. L’unico, vero pentito di quel crimine è Leonardo Marino, che, per sopravvivere, fa il venditore di crêpes. Tutti gli altri, i mandanti, i consenzienti, i complici, sono riusciti a farla franca. Salvo Bompressi, che ha pagato il conto con la giustizia (mentre Giorgio Pietrostefani non l’ha pagato e ormai non lo pagherà più), e salvo Adriano Sofri, che si è assunto tutte le colpe non sue per proteggere coloro che avevano creduto in lui, tutti gli altri l’hanno scampata. Non solo, ma hanno fatto splendide carriere, passando dalla parte dei potenti, ottenendo privilegi, incarichi dirigenziali, carriere fulminanti.