La liturgia di questa domenica propone alla nostra meditazione la relazione che ognuno di noi ha con i suoi beni, e come è disposto ad impiegarli nel corso della sua esistenza terrena in vista del premio della vita eterna.

“Diceva anche ai discepoli: «C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore.” (Lc 16,1-2)

Quanto sono attuali queste parole nella situazione socio-politica che sta attraversando la nostra nazione e il mondo intero. Ogni uomo, qualunque incarico gli sia stato affidato, deve sempre ricordarsi di essere un semplice amministratore.

L’uomo ricco è il padrone, è Lui il vero proprietario di tutti i beni. Quando invece ci si impadronisce di un ruolo che non ci appartiene,  automaticamente ci si impossessa dei beni altrui. Seguendo questa logica utilitaristica, l’incarico di prestigio viene ricercato non per amministrare nella condivisione delle risorse, ma per sperperare quello che appartiene al padrone, e che è destinato al bene comune.

Queste parole non sono indirizzate solo a uomini facoltosi che amministrano ingenti quantità di ricchezze, ma sono rivolte a ciascuno di noi, perché il padrone è Dio e gli amministratori siamo ciascuno di noi. Ognuno di noi dovrà rendere conto a Dio di come ha utilizzato i suoi beni.

Non viene fatta alcuna distinzione tra persone più o meno danarose. L’unico ammonimento fatto dal padrone a tutti i suoi amministratori è quello di non sperperare. Altre volte nei Vangeli si fa riferimento all’accumulo delle ricchezze, questa volta si parla allo spreco dei beni. Spreco e accumulo sono due facce della stessa medaglia, perché entrambe sono di ostacolo per l’accesso al regno di Dio.

La parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro è un esempio eloquente di come sperperare i beni e di come si possa rifiutare di dare al povero nemmeno le molliche di pane che cadano dalla tavola (Lc 16,19-31).

La parabola dell’uomo ricco che voleva demolire i suoi granai per costruirne altri più capienti, è una descrizione molto particolareggiata di come l’uomo possa vivere una intera esistenza nella bramosia di accumulare avidamente e sfrenatamente le ricchezze di questo mondo, impoverendosi agli occhi di Dio (Lc 12,13-21).

Sia l’accumulo che lo sperpero provocano, nel presente un grave danno alla comunità, e nel futuro diventano un gesto di cui rendere conto a Dio nel giudizio finale.

Per questa ragione viene riportato l’esempio di conversione da parte di questo amministratore infedele, quasi se Gesù, con queste sue parole, volesse spronare le coscienze di ciascuno di noi ad un ritorno all’onestà: “L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta.” (Lc 16,3-8)

Davanti all’illegalità compiuta esistono varie forme per riscattarsi.

Praticare i lavori più umili (zappare la terra) per “ripagare” la disobbedienza a Dio con il sudore della fronte, come viene annunziato da Dio ad Abramo nel libro della Genesi (Gn 3, 17-19).

Mendicare alle porte delle case, nelle strade e nelle piazze chiedendo l’elemosina necessarie per vivere ogni giorno. Ma per fare questo occorre vincere la vergogna e armarsi di coraggio. Anche questa è una forma di conversione, perché richiede fede nella provvidenza di Dio, e la forza di umiliarsi per chiedere il necessario a qualunque persona si incontri.

La soluzione ideata dall’amministratore infedele è quella di procurarsi amici con la disonesta ricchezza, rinunziando ai propri guadagni per accaparrarsi le loro grazie, e così poter essere da loro accolto nel regno dei cieli (Lc 16,9).

Il messaggio di queste parole è chiaro: se siamo fedeli nell’amministrare i beni terreni, ci verranno affidati beni molto più preziosi, i beni eterni (Lc 14,10-12). E non si sta parlano solo del bene più grande, che è la vita eterna.

Viene fatto riferimento anche ai beni spirituali, che riceviamo in abbondanza durante la vita terrena, e che ci fanno pregustare anticipatamente le delizie del cielo. La pace, la giustizia, la solidarietà, il lasciarsi perdonare, il saper perdonare, la gioia, la lode a Dio, sono beni celesti di grande valore. Ed anche questi beni devono essere amministrati con fedeltà attraverso una pratica leale e quotidiana. Dobbiamo combattere la tentazione di amministrare i beni spirituali per ottenere vantaggi personali. I doni inestimabili del cielo devono essere impiegati per edificare le coscienze, ed annunziare il regno di Dio che, anche se in modo imperfetto, è già presente in mezzo a noi.